Mussolini
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Il fascino di un dittatore

  1. 518 pagine
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Il fascino di un dittatore

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Il tribunale della storia ha condannato Mussolini senza alcuna possibilità di riabilitazione. Ma al di là della condanna c'è l'uomo, con il suo carattere, il suo animo e i comportamenti quotidiani. In questo saggio di avvincente impianto narrativo e nel contempo di scrupolosa fedeltà storica, Spinosa traccia del duce un profilo nuovo e diverso, portandoci a conoscere il figlio di un fabbro, un arrivista pragmatico che voleva comandare, un parvenu che riesce a diventare il padrone d'Italia e che dichiara guerra a mezzo mondo; un astuto manipolatore di folle e un grande comunicatore che riesce a trasformare uomini comuni in piccoli superuomini in camicia nera, in protagonisti, ma anche in automi e vittime.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852081200
Argomento
History
Categoria
World History
Parte seconda

LA CAMICIA NERA

L’uomo della Provvidenza

I

Poco più di cento persone di varia ispirazione si ritrovarono con Mussolini, la mattina del 23 marzo 1919, in un locale di piazza San Sepolcro a Milano, fra manganelli, pugnali, scudisci e drappi neri. Il nero era il colore del nuovo movimento cui si diede un nome già nell’aria, quello di «Fasci italiani di combattimento». Il nero, il colore della morte, era il nuovo simbolo di protesta e di rivolta mutuato dalle uniformi degli arditi. Il rosso, il colore della vita, che per anni aveva affascinato Mussolini, diventava ora l’emblema del nemico. I giornali quasi non si accorsero di quella riunione che si svolse in una sala un po’ démodé reperita all’ultimo momento e che non aveva nulla di solenne, a cominciare dalla denominazione del sodalizio che ospitava il gruppetto di infatuati, «Circolo per gli interessi industriali, commerciali e agricoli». I presenti ebbero tuttavia l’idea di supplire alla modestia del luogo autodefinendosi enfaticamente «Sansepolcristi». Chi c’era? Vecchi interventisti della sinistra rivoluzionaria, il cui più autorevole rappresentante era lo stesso Mussolini e che costituivano il nucleo più consistente della riunione; reduci dei «reparti d’assalto», gli arditi che portavano ancora sul braccio il badge della spada romana; intellettuali futuristi d’avanguardia, personalmente capeggiati da Marinetti; esponenti dell’Unione socialista italiana, come Roberto Farinacci, e infine alcuni repubblicani. Tutti riuniti, come d’ogni erba un fascio.
I fasci coagularono in gran parte la protesta anticlericale dei «trinceristi»; tuttavia sulla scena politica italiana era apparso all’inizio dell’anno il Partito popolare di ispirazione democratico-cristiana, a opera di don Sturzo. Il movimento sturziano, postosi sul terreno del riformismo, riscosse vasti consensi nelle masse proletarie alla stessa stregua dei socialisti massimalisti che però si richiamavano alla rivoluzione bolscevica. Improbo si rivelò subito il compito dei fasci che si trovarono di fronte a queste due gigantesche forze popolari. Da un punto di vista generale la protesta dei reduci era indirizzata all’ottenimento di un lavoro e alla giusta ricompensa territoriale per il decisivo contributo italiano alla vittoria. Già si lamentava una «Vittoria mutilata», e d’Annunzio eccitava il risentimento nazionale sia contro gli alleati che non riconoscevano all’Italia i suoi diritti, sia contro l’imbelle governo liberale che non sapeva farsi valere. Si rivendicava alla nuova Italia, a quella uscita a testa alta dalla Grande guerra il ruolo di nazione vittoriosa. I nazionalisti recriminavano che l’Italia, pur avendo vinto la guerra, avesse perso la pace. Bisognava reagire fermamente. Con questo obiettivo di rivalsa, fin dalle prime dichiarazioni votate nella seduta costitutiva dei fasci, si reclamò apertamente il confine delle Alpi, l’annessione di Fiume e della Dalmazia, terra che d’Annunzio aveva indicato come l’orlo di una toga romana.
I fascisti, nell’assemblea sansepolcrista, non saltarono però il fosso. Rimasero cioè su posizioni che si potevano ancora definire di sinistra, pur polemizzando con violenza contro il bolscevismo, «rovina della vita economica russa», e contro il socialismo «nemico delle realtà nazionali». Sommariamente enumerarono le loro richieste: proclamazione della repubblica, abolizione del Senato, adozione del suffragio universale esteso alle donne, azione anticlericale, introduzione della rappresentanza dei singoli interessi a sfondo corporativo, confisca delle ricchezze accumulate profittando della guerra, riconoscimento dei diritti di chi aveva combattuto, partecipazione degli operai alla conduzione tecnica delle industrie, assegnazione della terra ai contadini, abolizione dei titoli nobiliari, libertà di pensiero, di religione, di associazione e di stampa. Il tessuto connettivo di questo insieme di rivendicazioni era però la violenza.
Lo sviluppo e la diffusione dei fasci in altre città avvennero lentamente e in maniera confusa. Pochi erano gli iscritti delle singole sezioni, scarsa la loro attività se si esclude il gruppo milanese, il quale andava peraltro precisando gli obiettivi del movimento abbozzati in piazza San Sepolcro, quella mattina del 23 marzo. Mancava un effettivo collegamento tra le varie componenti, mentre gli arditi e i futuristi anarcheggianti tardavano ad amalgamarsi col resto della nuova formazione che si manteneva evanescente. Più che nei centri urbani, i fasci, con l’ausilio degli agrari, cominciarono a far proseliti nelle campagne di Cremona e di Ferrara, nelle vaste pianure della Lombardia e dell’Emilia, in cui, già muovendo le prime squadre di manganellatori, agivano i Balbo, i Grandi, i Farinacci.
In una situazione organizzativa resa fluida dalle indecisioni che via via emergevano nella definizione del programma politico, Mussolini non controllava per intero i fasci né si attendeva molto dalla loro azione. Tutto ciò che egli proponeva veniva «discusso, avversato e talvolta bocciato», come le proposte degli altri capi. «Il Popolo d’Italia» non era l’organo della nuova formazione che alcuni mesi più tardi si diede un proprio settimanale chiamandolo esplicitamente «Il Fascio». Lui ancora pensava alla possibilità di costituire un blocco delle sinistre interventiste, in previsione delle imminenti elezioni politiche che per la prima volta si sarebbero tenute con il sistema proporzionale. Alcuni punti del programma, a cominciare dal postulato repubblicano, creavano forti contrasti fra le varie componenti dei fasci, che via via si spostavano verso destra.
Nel paese i fascisti, gli arditi, i nazionalisti, si scontravano con i socialisti. A metà aprile Milano fu teatro di un episodio particolarmente grave, durante il quale due o trecento arditi, al comando di Ferruccio Vecchi, aggredirono con bastoni e pistole in pugno un comizio di socialisti. Li dispersero e li malmenarono, poi marciarono sull’«Avanti!» sbaragliando le deboli difese della polizia e dell’esercito, ferendo a morte un soldato. In seguito allo sbandamento della forza pubblica, gli aggressori poterono penetrare nei locali della tipografia e della redazione. Afferrarono mobili, smontarono macchinari e come invasati gettarono ogni cosa nelle acque del Naviglio. Al termine del cruento attacco, che ebbe qua e là per tutta la giornata strascichi e ritorni di fiamma, si contarono sul terreno quattro morti e trentanove feriti.
Le squadre degli aggressori erano sbucate dal «covo» di via Paolo da Cannobio, per cui i socialisti giudicarono Mussolini personalmente responsabile dei tragici scontri, e alcuni di essi pensarono di farlo cadere in un’imboscata per assassinarlo. Accusarono inoltre la forza pubblica di aver lasciato mano libera agli assalitori i quali volevano dare una lezione alle sinistre che «spadroneggiavano» su Milano. C’era chi attribuiva all’ondeggiante generale Caviglia compromettenti dichiarazioni di solidarietà con il capitano degli arditi Vecchi e con lo stesso Marinetti: «Bene. La vostra battaglia è stata decisiva». Ovviamente Mussolini addossava invece ogni responsabilità degli incidenti ai socialisti. In un’intervista al «Giornale d’Italia» parlava delle aggressioni come di un «movimento spontaneo di folla, di combattenti, di popolo, stufi del ricatto leninista perché Milano vuol lavorare».
Le opposizioni di sinistra erano per lui l’«orda leninista»; un’«orda» divisa e frazionata fino alla «follia»: «Fra Turati e Serrati c’è un abisso e ci sono degli ultra-estremisti per i quali il Serrati è già un codino». Osservò come in quelle condizioni «la corsa al più rosso fosse fatale» e pronosticò la nascita d’un Partito comunista: «Probabilmente estremisti del partito socialista, sindacalisti e anarchici formeranno il partito “comunista” anche in Italia». Nella stessa intervista, confondendo le idee ai pochi seguaci della prima ora, prese le distanze dal programma politico dei sansepolcristi. Definiva i fasci «un anti-partito senza statuto e senza regolamento»; rifiutava qualsiasi pastoia: «Le pregiudiziali sono maglie di ferro o di stagnola. Non abbiamo la pregiudiziale repubblicana, non quella monarchica; non abbiamo la pregiudiziale cattolica o anticattolica, socialista o antisocialista. Siamo dei problemisti, degli attualisti, dei realizzatori che si raccolgono intorno ai postulati di un programma comune!». Qualche mese dopo arrivò a mettere in dubbio la vitalità stessa dei fasci: «Il Fascismo è pragmatista. Non ha apriorismi. Non promette i soliti paradisi dell’ideale. Lascia queste ciarlatanerie alla tribù della tessera. Non presume di vivere sempre e molto. Vivrà fino a quando non avrà compiuto l’opera che si è prefissa».
La questione di Fiume si intrecciava intimamente con la generale situazione di marasma del paese. Mussolini cercava di creare in chiave patriottica nazionalista l’unità delle sinistre interventiste da contrapporre al socialismo bolscevico. Fiume poteva servire da punto di attrazione. Vittorio Emanuele Orlando, che guidava la delegazione italiana alla conferenza parigina della pace, pensava di scuotere le coscienze dei connazionali abbandonando teatralmente il tavolo delle trattative. Di pari passo i nazionalisti si preparavano a impossessarsi di Fiume con un colpo di mano, andando oltre le intenzioni del loro governo.
Fiume per d’Annunzio diventava la «Città Olocausta». Ma c’era chi aveva visioni più chiare, anche se meno imaginifiche. Il direttore del «Corriere della Sera», Albertini, chiedeva a Orlando come potesse pensare di far trionfare i diritti italiani col «ricattino» della sedia vuota. Oltre tutto premevano ben altre questioni, altri interrogativi. Come arrestare la «macchia del bolscevismo» che si allargava con rapidità vertiginosa? I socialisti, per accentuare la loro pressione, parteciparono a un’agitazione internazionale di protesta, cui diedero il nome di «scioperissimo», volta a ostacolare la partenza di truppe italiane, francesi e inglesi destinate a reprimere i movimenti rivoluzionari in Russia e in Ungheria.
I risultati dell’iniziativa furono tanto scarsi e deludenti che lo «scioperissimo», invece di offrire una decisiva prova di forza del socialismo, ne rianimò gli avversari, i quali cominciarono a pensare a una classe operaia non più invincibile. Mussolini chiamò gli scioperanti «razza bastarda» mettendo i suoi uomini al servizio del prefetto di Milano per contribuire, come «guardie bianche» controrivoluzionarie, al mantenimento dell’ordine pubblico. La mossa provocò un certo sconquasso tra gli arditi e i futuristi che la contrastarono vivacemente, confermandosi quanto mai indocili nei suoi confronti. Dai futuristi, oltre che dai repubblicani, sopraggiunse l’opposizione al fronte unico delle sinistre interventiste col quale egli intendeva presentarsi alle prime elezioni politiche del dopoguerra in contrapposizione al blocco dei socialisti e anche a quello dei cattolici che si erano costituiti in partito. Persino tra i fascisti si considerò quella idea unitaria come «una palla al piede». Il fronte unico era criticamente visto come una sorta di «Blocco pacificatore» che sarebbe caduto «nel neutralismo e nel conservatorismo clericaloide». Era perciò preferibile «perdere una battaglia elettorale, onorevolmente combattuta da soli, che vincerla male accompagnati». La manovra mussoliniana fallì. Il duce contestato dovette ripiegare su una lista dei soli fasci e nella sola circoscrizione milanese. I princìpi repubblicani della nuova formazione politica erano ribaditi dalla presenza del simbolo elettorale adottato che consisteva nel tipico emblema della Rivoluzione francese, un fascio di verghe con una scure che emergeva al centro di esse. Solo in seguito la scure cambiò posto e apparve sul bordo esterno dei fasci. Il fiasco elettorale cui la formazione andò incontro fu sonoro. La lista, che oltre Mussolini pur comprendeva personaggi di spicco come Toscanini e Marinetti, non raccolse nemmeno cinquemila voti e non portò nessun fascista alla Camera.
I socialisti, che avevano quarantotto deputati, conquistarono con le nuove elezioni ben centocinquantasei seggi. Il loro successo era clamoroso, mentre la sconfitta dei fascisti aveva le caratteristiche della disfatta irreparabile. Galvanizzati, i vincitori inscenarono nuove manifestazioni. A Milano sfilavano in corteo sotto le finestre di casa Mussolini recando sulle spalle una bara con la scritta: «Qui giace Mussolini». Al termine della sfilata gettarono la cassa mortuaria nel Naviglio insieme alle effigie listate a lutto di d’Annunzio e di Marinetti. Poi scrissero sull”«Avanti!»: «Un cadavere in stato di avanzata putrefazione è stato ripescato stamane nelle acque del Naviglio. Pare si tratti di Benito Mussolini». Rachele correva a nascondere i figli in soffitta per metterli al riparo dalle temute invasioni dei manifestanti. La polizia fece irruzione nella sede del «Popolo d’Italia» e vi arrestò il direttore per aver trovato nei cassetti e negli armadi bombe a mano e pistole. Anche Rachele nascondeva armi in casa, tre bombe Sipe, pronta a lanciarle in caso di pericolo.
Per Mussolini si poneva il problema di come uscire dall’isolamento, di come risalire la china. Il cammino si rivelò aspro poiché la sconfitta elettorale aveva innescato non soltanto una crisi del «Popolo d’Italia» ma dell’intero movimento fascista. Il duce mostrava il volto dell’uomo finito a chi riusciva a penetrare nel «covo» di via Paolo da Cannobio dove si era rinchiuso fra teschi, pugnali, bombe a mano, drappi neri e stendardi che apparivano come i segni mortuari d’una falsa epopea rapidamente tramontata.
Andò a trovarlo il futurista Mario Sironi che aveva fatto la guerra come volontario ciclista. Era il loro primo incontro cui sarebbe seguita un’intensa collaborazione al «Popolo d’Italia» come disegnatore propagandista e critico d’arte. Fu sorpreso dallo spettacolo che gli si parò davanti, entrando nel «covo». Un uomo curvo sulla scrivania con cappello e cappotto dal bavero rialzato era intento a scrivere. Senza alzare la testa dal foglio quell’uomo, cioè Mussolini, gli disse bruscamente: «S’accomodi». La stanza era gelida, raccontava il pittore: «La finestra del balcone aperta lasciava penetrare nebbia e freddo. Mi strinsi nel cappotto aspettando meravigliato. Ci fu un improvviso frusciare d’ali: due o tre passeri con rapido volo entrando nella stanza dal balcone si posarono su di un grande armadio situato proprio alle spalle di Mussolini. Egli allora mi disse: “Non si meravigli del freddo, lascio la finestra aperta per dare possibilità agli uccellini di venire a nutrirsi, d’inverno non hanno molte risorse in questa città”». Raccontando l’episodio, Sironi si sentiva chiedere se la scena rivelava un reale amore di Mussolini per gli animali o momenti di solitudine e disperazione. O non era un comportamento alla Monsieur Verdoux ante litteram, crudele con gli esseri umani e pietoso con i piccoli bruchi che evita di calpestare?
La ripresa fu lenta e contrastata. Mussolini intendeva appoggiare, a suo modo, la conquista dannunziana di Fiume, sperando di non perdere il contatto con le forze che avevano seguito il Vate, nazionalisti, arditi, futuristi. L’operazione non gli riuscì, non soltanto perché i nazionalisti di Fiume lo avversavano, ma anche perché esplose fra lui e il Comandante un contrasto di fondo sulla possibilità di attuare subito una marcia su Roma, alla luce del successo dell’impresa fiumana. Mussolini giudicava irrealizzabile l’impresa per l’obiettiva impreparazione delle forze, a cominciare dai fasci di così fresca istituzione, che avrebbero dovuto parteciparvi. La rottura fra i due personaggi – l’uno celeberrimo e l’altro all’orizzonte – divenne più profonda quando il Comandante si spostò nettamente a sinistra con la Carta del Carnaro scritta in collaborazione col sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, suo nuovo aiutante.
Le frizioni furono numerose e vivaci. D’Annunzio lo accusava di slealtà e pirateria, come nella vicenda in cui Mussolini si appropriò di buona parte delle somme raccolte con la sottoscrizione da lui stesso lanciata sul «Popolo d’Italia» per sostenere finanziariamente i legionari fiumani. Mentre il Vate insisteva nella preparazione d’un piano insurrezionale accentuando la polemica antigovernativa, Mussolini si avvicinava al nuovo presidente del Consiglio Giolitti che ricercava sulla questione di Fiume un accordo diretto fra Roma e la Jugoslavia, il nuovo Stato sorto dalle ceneri dell’impero austro-ungarico. Opponendosi al progetto insurrezionale tirava in ballo le caotiche condizioni dell’Italia in preda a tensioni sociali, scioperi, tumulti e occupazioni di terre. «L’inverno prossimo, scriveva, si annuncia con una formidabile crisi finanziaria che un colpo di Stato potrebbe aggravare.» Appoggiò apertamente le risultanze delle trattative italo-jugoslave che, con il trattato di Rapallo, facevano di Fiume uno Stato libero. L’indipendenza dell’«Olocausta» era una buona soluzione per i legionari, ma d’Annunzio gridò al tradimento e assunse una posizione di tale intransigenza da costringere Giolitti a cannoneggiare la città. Il Vate ne uscì umiliato, con l’unica consolazione di aver chiamato «boia labbrone» il suo cannoneggiatore e di aver bollato Nitti col nomignolo infamante di «Cagoia», cacasotto.
Mussolini si era affiancato a Giolitti assicurandogli che «avrebbe abbandonato d’Annunzio al suo destino», e difatti rimase pressoché insensibile all’attacco cruento di Fiume che il poeta con slancio lirico chiamò «Natale di sangue».

II

Più floride si erano fatte le condizioni economiche della famiglia Mussolini. Lui aveva acquistato la sua prima automobile, una Bianchi Torpedo detta «Bianchina», un po’ arrangiata con i sedili di un vecchio aereo. Presto la cambiò con un’Alfa Romeo sportiva rossa a quattro cilindri, una duemilanovecento più veloce e più sicura. Con la «Bianchina» aveva avuto un incidente alle porte di Dongo. In curva era uscito di strada e stava per precipitare con tutta l’auto nelle acque del lago di Como. Tornato in carreggiata e riavutosi dallo spavento disse al suo autista, con accenti di presagio: «Non dobbiamo mai più passare per questo paese. Porta jella!».
Aveva imparato a vestirsi meglio, portava abiti scuri attillati, camicie bianche dal colletto duro, cravatte a farfalla, ma le ghette bianche spiccavano sulle scarpe gialle. Aveva messo qualche chilo di troppo, il naso sembrava più pronunciato, lo sguardo più spiritato, il mento più sporgente, la mandibola più robusta, la fronte più convessa. Egli stesso e il fascismo mostravano il volto della violenza. Lo squadrismo spadroneggiava, con purghe e manganellate, nelle Venezie, in Emilia, in Toscana, nel Tavoliere delle Puglie dove si cantava: «Ohé per la madonna / noi siamo gli squadristi / di Peppino Caradonna». Il ras pugliese Caradonna era un capitano in congedo; lo erano numerosi altri animatori delle squadracce, come Achille Starace anch’egli pugliese, insieme ad altri meridionali, Aurelio Padovani e Nicola Sansanelli. Capitani erano pure il piemontese Cesare Maria De Vecchi, il lombardo Antonio Bruno e il ben noto fondatore della sezione milanese degli arditi Ferruccio Vecchi. Tutta gente manesca, temeraria, dominata dal disprezzo della vita propria e di quella altrui. L’appellattivo di ras gli si attagliava a pennello, anzia a manganello, la loro arma preferita. Era un appellativo coniato negli ambienti democratici che si richiamavano ai ras etiopici, ai capi dell’impero feudale africano, volendo evocare la prepotenza e la crudeltà dei caporioni fascisti. Erano pure detti ras i capi delle mattanze in cui si faceva strage di tonni, sicché l’immagine gettava sulle imprese degli squadristi una luce ancor più fosca.
I ras potevano usare la violenza e agire pressoché indisturbati grazie all’acquiescenza che gli veniva offerta da larghi strati della forza pubblica. Il governo, per quanto disposto a tollerare le imprese dei fascisti, doveva pur evitare una troppo scoperta collusione. Giolitti invitava i prefetti a intervenire contro i loro colpi di mano. Una Camera dei deputati che fosse eletta con metodi violenti, scriveva il vecchio statista, «mancherebbe di autorità morale». Chiedeva che i prefetti gli segnalassero gli ufficiali dei carabinieri e delle guardie regie che non facevano il proprio dovere, perché avrebbe provveduto a punirli e a trasferirli. Serpeggiava però tra le forze dell’ordine un pericoloso stato d’animo per cui ai loro occhi la violenza fascista costituiva una sorta di compensazione alle prevaricazioni, ai dileggi e agli insulti degli anarchici e degli estremisti socialisti.
Un sostegno aperto proveniva ai fascisti pugliesi dal comando del corpo d’armata di Bari, e presto anche il comando di stato maggiore cominciò a spalleggiare il movimento mussoliniano in varie regioni d’Italia, suscitando però seri contrasti al proprio interno. Giolitti personalmente dava spago ai fasci con l’idea di farsene un’arma ai danni dei socialisti e dei popolari, certo d’una loro intrinseca fragilità che li avrebbe portati o alla consunzione o all’assorbimento nel sistema democratico. Il suo piano si rivelò illusorio perché mentre da un lato il regime democratico si confermava sempre più debole, dall’altro il peso dei fasci cresceva, come crescevano gli iscritti e i simpatizzanti. I socialisti avevano portato gli operai di Torino a occupare le fabbriche volendo trasferire i mezzi di produzione dai capitalisti ai lavoratori. Ma la loro azione si concluse con un fallimento...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mussolini. Il fascino di un dittatore
  4. Voglia di comandare
  5. Parte prima. IL FAZZOLETTO ROSSO. L’ateo a orologeria
  6. Parte seconda. LA CAMICIA NERA. L’uomo della Provvidenza
  7. Parte terza. IL CASCO COLONIALE. L’impero di retroguardia
  8. Parte quarta. IL CAPPOTTO TEDESCO. Infauste sponde
  9. Itinerario bibliografico
  10. Copyright