Bassa intensità
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Bassa intensità

Salvador 1983. Il conflitto civile che ha anticipato le guerre moderne

  1. 336 pagine
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Bassa intensità

Salvador 1983. Il conflitto civile che ha anticipato le guerre moderne

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« Bassa intensità è il racconto di un singolo anno in Salvador, il 1983, che fu anche un anno di svolta per la politica americana in America centrale e latina. Un racconto quasi stenografico degli eventi, un lavoro giornalistico preciso. In realtà un puzzle in cui il significato di quei 365 giorni acquista piano piano contorni grazie a quasi dieci anni successivi di ossessiva rivisitazione del lavoro di quel periodo.» Rileggendo il diario del suo anno in Salvador, Lucia Annunziata lo aggiorna alla luce degli ultimi fatti bellici sullo scacchiere internazionale e dipinge il ritratto di un modo nuovo di fare la guerra: «Quella che avevamo testimoniato negli anni Ottanta in America centrale era in effetti una nuova guerra, una sperimentazione avanzata». Una guerra «a bassa intensità», ingannevole, che con un sistema di guerriglie, attentati, fronti ambigui e sfuggenti, ha sostituito le trincee e le linee di fuoco della guerra classica. Rivelandosi però altrettanto letale e ancora più sporca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852080616
Argomento
History
Categoria
World History
Parte prima

BIANCHI

Il Natale del colonnello Sigifredo Ochoa

Il colonnello Ochoa si ribellò il 3 gennaio.
La data non nascondeva l’impazienza che l’aveva preceduta: esattamente dopo le vacanze di Natale, senza neanche attendere l’Epifania.
Non c’era in realtà nessuna ragione particolare per aspettare che passasse Natale, si diceva il colonnello mentre, nel patio della sua casa di città – quella cui lui si riferiva sempre tra sé come alla casa di sua moglie, e dove, da anni, faceva solo delle brevi puntate, nelle poche ore in cui, riluttante, lasciava il reggimento –, cercava, come in quel Natale, di far passare le ore, a forza di tamales, e Coca e rum.
Sigifredo Ochoa non usava mai la parola ansia, neanche nei suoi soliloqui natalizi.
Aveva anche una spiegazione della sua antipatia per il termine. Il sentimento «ansia» era stato eliminato perché sapeva troppo di donne – il colonnello lo associava inevitabilmente a sua moglie che usava spesso la parola nelle ricorrenti scenate durante le quali lo accusava di distruggerle la vita con la sua fissazione per la guerra – o di testi universitari, che per lui erano sinonimo di marxismo. In attesa del grande balzo, Ochoa dunque non era ansioso, ma di malumore.
Era uno stato d’animo, questa emozione, che lo coglieva sempre di quei tempi, durante i Natali del Salvador, bagnati dalla stagione delle piogge, con i panettoni sfasciati nella carta di plastica gonfiata dall’umidità e le decorazioni di fiocchi di cotone, già ingialliti dal sole al secondo giorno. L’avrebbe chiamata tristezza se non avesse bandito anche questa parola.
Nessuno che fosse stato, sia pur per un solo anno, come lui a Washington, avrebbe più apprezzato un Natale tropicale. Tanti anni prima, un Natale a Washington gli aveva regalato un miracolo.
Sigifredo Ochoa era stato selezionato fra gli allievi più brillanti del suo corso per un periodo di addestramento nell’accademia militare americana. Vi era arrivato pieno di orgoglio e in pochi giorni era caduto in preda a un totale smarrimento: si era sentito perso nella grandezza delle classi, nell’anonimato delle istruzioni, era sospettoso della affettuosa condiscendenza di quelle pelli bianche degli istruttori. Dopo breve tempo aveva anche cominciato a dubitare di essere un militare e aveva iniziato a guardare a se stesso come se fosse un altro delle migliaia di profughi che dal Sud raggiungono ogni giorno l’America.
Fino a che, una mattina in libera uscita, durante il Natale appunto, si spinse verso il centro di Washington, e quella orgogliosa città gli apparve coperta di neve, soffusa di richiami di campanelle, adorna di rametti verdi intrecciati a fiocchi rossi e lo accolse, finalmente, amichevole. Quel giovane cadetto avrebbe festeggiato, nel 1983 che stava per iniziare, i quarantadue anni.
Ochoa aveva raggiunto la maturità con «soddisfazione», si diceva, cercando come sempre il termine con cura. Il suo corpo, su cui batteva di tanto in tanto una mano, non rivelava cedimenti. Una vita di disciplinati esercizi aveva fatto sì che il peso degli anni non si trasformasse in grasso. Ochoa aveva un fisico «possente», pensava. Il giusto fisico di un guerriero.
La sua mente tornò ai colleghi, alle loro camicie che tiravano sullo stomaco, alle loro calvizie.
Non era vanità la sua. Ochoa era approdato alla guida del dipartimento di Cabañas, un piccolo triangolo di terra sulle colline, incuneato strategicamente all’incrocio fra due zone liberate dai terroristi (la parola «guerriglia» era un riconoscimento che lui non usava per questa banda di assassini che da anni affliggeva il suo paese). Interrompere le comunicazioni fra le due aree sarebbe stato uno dei risultati più duri ma anche più brillanti della guerra.
«Risultati» ruminò fra sé.
La parola era forse quella che ricorreva di più nelle sue giornate. Veniva lanciata sul tavolo, durante le riunioni degli ufficiali nel quartier generale; veniva avanzata nelle domande, nelle feste, dai politici e dai grandi proprietari; era martellata nelle orecchie all’ambasciata americana dai consiglieri militari, dai diplomatici, e dai senatori. Tutti volevano risultati, mentre giorno dopo giorno diminuiva la libertà di circolare in ogni parte del paese, che veniva gradualmente conquistato dai terroristi; giorno dopo giorno aumentavano le misure di sicurezza intorno alle loro caserme, mentre si scavavano trincee sempre più profonde, ed erano costretti a nascondersi, anzi a «ritirarsi», questo era il termine corretto, nelle superprotette tane dove c’era sempre più abbondanza di armi e sempre meno coraggio. Per quello che riguardava Sigifredo Ochoa, a questo si riduceva la vicenda.
Non ci potevano essere «risultati», se non c’erano guerrieri. Era sua convinzione profonda che tutto il resto fosse chiacchiera: le teorie degli strateghi americani, le promesse di riforme sociali, i discorsi sulla riforma dell’esercito. La verità gli appariva lampante: il paese scivolava lentamente nelle mani di quei bastardi comunisti. Non aveva dubbi che fossero aiutati dai nicaraguensi, dai cubani, dai sovietici e da tutta la merda che si raccoglie sempre intorno ai comunisti.
Ma il punto non era nemmeno questo: la verità era che in Salvador l’esercito non combatteva, non c’era un numero sufficiente di guerrieri che andassero fuori e affrontassero faccia a faccia i comunisti. Erano un esercito senza cojones, come quella zizzinella del ministro della Difesa, il señor García, che raccoglieva le sue gonne fra le braccia degli americani. Ed era interessato solo a succhiare più soldi da loro e a tenersi stretta la poltrona, emarginando tutti gli ufficiali che sapevano combattere, tutti i giovani che, come lui, avrebbero saputo vincere la guerra, e avrebbero tolto molte sedie calde da sotto molti culi. Il generale García gli aveva comunicato infatti, poco prima delle feste, di averlo nominato attaché militare all’ambasciata del Salvador a Montevideo. Era un affronto che non avrebbe accettato.
Affogando i gorgoglii del suo rum e Coca con i frijolitos, il colonnello sfuggì così al malumore e alla nostalgia di quel Natale del 1982 ripetendosi le ragioni dell’azione che aveva deciso.
Preparato dal lungo rimuginare, il 3 gennaio passò all’azione, con il sollievo e il nervosismo dell’atleta che anticipa l’eccitazione della velocità.
La mattina presto lasciò per tempo la branda su cui, in caserma, faceva ammenda delle mollezze dei letti della sua casa di San Salvador; rifece con metodicità ordine nella sua abitazione – due camere dall’arredamento essenziale – con la precisione di chi crede che un vero soldato non tralascerà mai nella vita la routine delle reclute. Il poco tempo che gli prese la pulizia, fu comunque più di quello che gli sarebbe stato necessario per ammutinarsi. Lasciata la sua stanza, passò nel cortile di cemento della guarnigione e fece segno ai suoi due sottotenenti in attesa di seguirlo nell’ufficio.
«Da questo momento in poi non prenderemo più alcun ordine dal comando centrale. Il distaccamento militare numero due di Sensuntepeque non riconosce più il comandante in capo dell’esercito di questo paese. Fino a istruzioni contrarie il battaglione è in stato di allerta.»
Nessuno dei due ufficiali lasciò trapelare un gesto di sorpresa, né il colonnello si meravigliò per la loro mancanza di reazioni: la prima cosa che aveva imparato da giovane ufficiale è che nell’esercito del suo paese non si mostrano i cojones se non si hanno amici abbastanza potenti da garantirti che non te li taglieranno.
Lui, appunto, sapeva che aveva amici potenti e che – senza dubbio – gli si sarebbero stretti intorno. Pensò a tutti loro, a quelle facce che ricordava giovanissime, al tempo del corso all’accademia: una classe, quella del ’67, che aveva prodotto i migliori. Domingo Monterrosa, con quella sua camminata da bassotto che non fa indovinare che cane da caccia possa essere in combattimento, e Roberto, il maggiore Roberto D’Aubuisson, che oggi era presidente dell’Assemblea Costituente. Che rischio uno può davvero correre con amici come questi?
E appena i suoi due ufficiali chiusero la porta dietro di sé, invece di premere l’interfono e chiedere all’attendente il numero del comando centrale, formò da solo, sulla sua linea diretta, il numero di Julia Prenston, del «Boston Globe», per comunicarle l’inizio della sedizione.
«Il colonnello Ochoa è sempre stato considerato dagli alti comandi del suo esercito un buon soldato e sui suoi molti successi militari non si sono mai risparmiati elogi. L’ambasciata americana non ha nuovi elementi per negare o mettere in discussione oggi questo positivo giudizio.
«Quali che siano le ragioni del suo attuale dissenso con i suoi superiori in comando, siamo certi che saranno da lui presentate e affrontate nelle sedi opportune. L’ambasciata americana non ha accesso, e non vediamo perché dovrebbe averne, a informazioni interne alle istituzioni di questo paese.»
David Reed, cui quel giorno era toccato di fare da portavoce dell’ambasciata americana, continuò a sorridere durante tutta la sua introduzione, e terminò spostandosi leggermente verso la direzione da cui, sapeva, sarebbe venuta la prima domanda.
Anche quella mattina, anticipando tutti gli altri giornalisti, si impose per prima la voce del corrispondente del «Washington Post». «David,» il giornalista usò il suo nome con una nota di ironia che, Reed sapeva, era usata apposta per irritarlo «un colonnello addestrato negli Stati Uniti, al comando di una guarnigione in posizione strategica, si ribella, dichiara che non ha nessuna intenzione di terminare la rivolta fino a che non darà le dimissioni il generale García, che comanda l’esercito di questo paese cui noi stiamo inviando denaro a palate, e l’ambasciatore americano non ha altri commenti da fare che confermare il buon curriculum dell’ammutinato?»
Reed ammirava la camicia di cotone Oxford azzurra del giornalista che parlava; era ancora perfettamente stirata anche a fine mattinata, mentre sotto le ascelle di tutti gli altri si allargavano già delle macchie scure di sudore. «Tiene al suo aspetto quanto alla sua carriera,» divagava, mentre ascoltava «e non c’è altro modo per avere una buona carriera, come del resto una camicia perfetta, se non dedicandovi molta cura.» Forse poteva suggerirgli un piccolo motto: mai trascurare una grinza e mai farsi sfuggire una dichiarazione.
Il diplomatico si compiaceva della intima conoscenza che aveva dei suoi interlocutori.
«La sua tecnica si è evoluta,» notò ancora «adesso fa come quegli europei che aspira tanto a essere. Non fa solo delle domande, come i giornalisti americani, ma obietta, discute di politica, si pone di fronte a noi come un protagonista…» si interruppe per riassumere la sua parte nel gioco.
«Vorrei ricordare a te e ai tuoi colleghi che la nostra è un’ambasciata. Gli Usa hanno un notevole programma di aiuti per questo paese, hanno sicuramente a cuore il ritorno della democrazia in Salvador come parte essenziale del ritorno alla pace e alla stabilità dell’intera regione. Ma, per quanto il nostro impegno sia grande, vorrei che la stampa, e in particolare quella Usa, tenesse a mente che siamo e ci consideriamo un’ambasciata; non siamo, come la tua domanda sembra implicare, il governo ombra di questo paese. L’affare Ochoa è una questione interna del Salvador e siamo fiduciosi che come tale verrà trattato e risolto.»
Dalla stanza salì, come si aspettava, quel ruggito di maleducato dissenso che i giornalisti sanno esprimere quando si sentono forti perché sono insieme; un rumore di sedie spostate, di risate, di frasi indignate seguite dalla immediata gara delle voci per imporre la prossima domanda. In quel caos, Reed ormai sapeva riconoscere d’istinto, «a battito di cuore» diceva fra sé, le singole voci.
«L’asciutto “bah” di quella bionda magra di Boston, che fra qualche anno trasformerà le sue sobrietà Wasp in efficiente frigidità, la risata chioccia di quello di Filadelfia che, con i suoi ricci, finirà omosessuale o divo della guerra; la risata nasale di questo preppie del Sud del “Washington Post”, con un bel naso e il nome eccellente di papà, e l’inglese ciabattante di francesi belgi svedesi italiani, quella razza di internazionalisti europei che si ammantano da giornalisti; e poi i fotografi. Come dimenticare i fotografi?» tirò un sospiro. «Questi frenetici imbecilli che fanno più soldi loro con le teste tagliate in questo paese che tutti i mercenari che ho conosciuto nel mio lavoro. Giornalisti,» pensò «il mio lavoro, il mio odio.»
Ma, avrebbe dovuto aggiungere, anche la sua vanità.
A David Reed erano bastati pochi mesi nell’ambasciata Usa in Salvador per capire che il lavoro dei diplomatici somigliava al numero del domatore di leoni. E non perché dovessero affrontare situazioni pericolose, ma proprio perché, come il numero del domatore di leoni appunto, dovevano rappresentare bene il pericolo, per l’eccitazione del pubblico. Non era facile. Per farla bene, per far davvero tremare il sangue nelle vene degli spettatori, occorrevano due cose: un leone innocuo ma convinto di essere pericoloso e un domatore avvertito del trucco ma capace lo stesso di comunicare il senso della sfida.
I giornalisti in Salvador, sapeva per esperienza, si sentivano dei leoni.
A tutti loro toccava il compito di costruire lo spettacolo, di eccitare il pubblico per dargli il brivido di un combattimento. A lui toccava chiudere la sfida, facendo schioccare la frusta al momento giusto.
Di questa sua capacità di dirigere lo spettacolo, si sentiva orgoglioso.
I giornalisti, lo sapeva, lo disprezzavano come disprezzavano tutti i rappresentanti di un’amministrazione: funzionari ambiziosi, falsi, sciocchi yesmen; mentre loro, i giornalisti, erano invece al servizio, per definizione, delle Buone Cause e della Verità. Cercavano così sempre di incastrarlo sulla verità.
«Come se il mestiere dei diplomatici fosse quello di dire la verità» si dis...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Bassa intensità
  4. Introduzione
  5. Parte prima. BIANCHI
  6. Parte seconda. NEL NOME DI PYLE
  7. Parte terza. MORAZÁN
  8. EPILOGO
  9. Copyright