Quella mattina Debora Camilli, professione tassinara, di anni venticinque, non aveva proprio voglia di alzarsi. Aveva passato una notte di schifo, perseguitata da una zanzara che le ronzava nelle orecchie, dal caldo appiccicoso e da una serie di sogni orrendi. In uno di questi, suo padre, morto da quasi due anni, guidava a velocità da Gran Premio il suo vecchio taxi sul lungomare di Ostia. Debora stava nuotando beatamente tra i flutti, quando le era apparso. Cesare Camilli inchiodava la sua vecchia Multipla con la scritta TAXI lampeggiante e urlava: “Devo andare a prendere un cliente all’aeroporto! Mi vuoi accompagnare?”. Mentre parlava, la macchina cominciava piano piano ad affondare. Debora cercava di aprire lo sportello, ma non ci riusciva. Il padre, con la sua bella faccia sorniona, rideva mentre l’acqua saliva sommergendolo fino al collo: “Vabbè, facciamo un’altra volta…”.
Debora si era svegliata bagnata di sudore, con la nausea e un saporaccio acido in bocca. Era andata in cucina a bere un bicchier d’acqua: la sera prima si era abboffata di birra e patatine e ora il suo stomaco le presentava il conto. Poi dalla finestra della cucina era rimasta imbambolata a guardare il buio. Uno spicchio di luna illuminava appena quel nero pesto. Nel silenzio, l’unico rumore era il brontolio del mare.
Il sogno le aveva lasciato addosso uno strano languore. Un misto di fame e nostalgia. Nel dubbio aveva aperto il frigorifero, lo aveva guardato e alla fine lo aveva richiuso. Si era ributtata a letto senza riuscire a prendere sonno se non all’alba, per colpa della zanzara e per i troppi pensieri.
Quando la madre tentò di svegliarla, come sempre, alle otto del mattino, Debora si tirò la coperta sopra la testa e si girò dall’altra parte.
«Dài ni’, ch’è tardi. Io scappo, c’ho il turno alle otto e mezzo. Tuo fratello sta già facendo colazione. Dài, che gli fai fa’ tardi…»
Marina, la madre di Debora, era una donna sulla cinquantina. Un tempo era stata bella, una di quelle more dalla pelle ambrata e i capelli corvini. Ora due grosse occhiaie le cerchiavano gli occhi e, dalla morte del marito, con cui aveva passato metà della sua vita a litigare, erano comparse anche due pieghe profonde ai lati della bocca. Faceva l’infermiera all’ospedale di Ostia.
«E che palle! Prendesse il trenino! Che gli devo fare d’autista finché non si laurea?»
«Tanto tu col taxi al centro ci devi andare, no? Che te costa… Dài, che c’ha lezione alle nove…»
Dalla cucina la musica della radio arrivava ovattata, mescolandosi, con gli ultimi brandelli di sogni, all’odore del caffè. Debora restò così, a cullarsi nel dormiveglia, quel tempo sospeso e meraviglioso, privo di responsabilità e coscienza, paragonabile solo allo stordimento del vino e degli oppiacei. Quando sentì sbattere la porta d’ingresso, capì di essere fuori tempo massimo. Rotolò giù dal letto e si trascinò davanti allo specchio. Guardando quella faccia abbottata, circondata da una foresta di capelli leonini, inorridì. Tutto da buttare. Avrebbe salvato solo la bocca, il suo pezzo forte. Denti bianchi e perfetti, labbra siliconate da madre natura.
«Da oggi comincio la dieta Dukan. Petto di pollo e merluzzo bollito fino alla nausea. Una settimana e vado sotto peso. Così poi mi posso sfondare.»
Arrivò in cucina giusto in tempo per vedere suo fratello spararsi l’ultima fetta di pane e nutella. Ma come faceva a mangiare tanto e a essere secco come un chiodo? Perché lui aveva preso da mamma e lei da papà?
Gianmarco, detto Giammi, alzò lo sguardo dalla tazza di caffellatte. Ai lati della bocca due grossi baffi di cioccolata si mischiavano a una peluria rada, un incipit di barba su un viso paffuto e infantile.
«Ancora così stai? Guarda che io tra un quarto d’ora voglio uscire!»
«E allora ti prendi il trenino, ok? Io adesso mi faccio la doccia.»
Il fratello stava per protestare quando Debora fece una mezza piroetta, e si fermò in posa, le mani a cerchio sulla testa, come nella foto da piccola, col tutù, incorniciata sul mobile del tinello.
«Tu fammi il caffè e tra un quarto d’ora usciamo. Macchinetta grande, senza zucchero.»
Gli soffiò un bacio sulla punta delle dita e sparì risucchiata dal corridoio.
La via del mare era intasata, come sempre. Giammi, le cuffiette incastonate nelle orecchie, batteva il tempo, curvo sulle dispense di anatomia. Debora, col finestrino aperto e la musica dell’autoradio a tutto volume, inalava a pieni polmoni l’aria salmastra mista alla puzza dei tubi di scappamento.
«Siena 23? Siena 23 in servizio?»
Una voce nasale di donna uscì dall’autoradio. Non era quella di un computer, anche se lo sembrava. Era umana.
«Ancora sulla via del mare. Molto traffico. Dovrei essere in zona Policlinico tra mezz’ora circa.»
«Sei in ritardo, Siena 23. Il turno comincia alle otto e mezzo.»
«Lo so, ma mia madre è stata male. Una specie di avvelenamento. Ha vomitato tutta la notte.»
«Sì vabbè. Ancora ce crediamo.»
L’impiegata della cooperativa dei taxi si era trasformata nella bidella delle medie.
«Sul serio, mi sono presa una paura… Stavo per chiamare l’ambulanza.»
«Stai in campana, Siena 23. È già il terzo ritardo del mese. Segnala quando sei in zona.»
La comunicazione si interruppe bruscamente.
Debora, come niente fosse, riattaccò Dimensione Suono Roma.
Gianmarco alzò lo sguardo dalle dispense e si tolse una cuffietta.
«Dici le cazzate come quando andavi a scuola?»
«Tu studi, senti l’iPod, e ti riesci pure a fare i cazzi miei?» Scippò una cuffietta al fratello e se la mise nelle orecchie. «Che senti?»
«Un gruppo irlandese.»
Il semaforo era verde, ma la macchina davanti non partiva. La signora al volante stava parlando tranquillamente al cellulare. Debora si attaccò al clacson. Le urlò anche un paio di imprecazioni. La signora fece un gesto con la mano, come a dire di calmarsi, e con tutto comodo ripartì.
«Perché non ci sta mai un coglione di vigile a fargli la multa a questi!»
«Anche tu parli al cellulare quando guidi.»
«Che c’entra, io con la macchina ci lavoro.»
Il fratello scosse la testa e si riprese la cuffietta.
Ok, aveva detto una cazzata, ma lei passava otto ore al giorno in mezzo al traffico, se neanche poteva fare qualche telefonata agli amici… Quanto le sarebbe piaciuto fare il turno di notte. Roma by night era meravigliosa. Tutte le strade libere. Avrebbe scarrozzato i turisti per il centro, portandoli in giro per i locali, e avrebbe guadagnato una cifra: quelli bevevano e lasciavano un sacco di mance. Ma sua madre non ne voleva sapere, e neanche i vecchi colleghi del padre, che si erano presi l’incarico, senza che nessuno gliel’avesse dato, visto che Cesare Camilli era morto d’infarto fulminante, di farle da tutori.
«Che sei matta, ragazzi’? Nun sai chi se ‘ncontra a Roma de notte…»
E via coi racconti horror di tassinari massacrati di botte, derubati, tramortiti, sequestrati…
E così le toccava passare le ore in coda, a trasportare romani con l’occhio fisso sul tassametro, sempre in ritardo e incazzati col governo di turno.
Appena scaricato il fratello davanti all’Istituto di medicina la radio di servizio gracchiò di nuovo: «Via degli Ausoni 8, angolo via Tiburtina».
«Siena 23 a via del Policlinico. Prendo la chiamata. Via degli Ausoni 8 tra cinque minuti.»
«Ah, Siena 23, ha chiamato tua madre. Dice che stasera c’è una riunione sindacale e forse fa tardi.»
«Ricevuto. Grazie.»
«S’è ripresa…» aggiunse la voce dalla radio prima di interrompere la comunicazione.
Davanti al portone di una palazzina popolare di San Lorenzo l’aspettava già una signora bionda, snella, elegante.
Debora non fece in tempo a fermarsi e quella era già dentro. Doveva avere molta fretta.
«Mi porti a via Bartoloni, grazie.»
Debora cominciò a smanettare sul navigatore. Era cresciuta a Ostia e prima di ereditare la professione paterna a Roma ci veniva solo il sabato sera con gli amici, per andare sempre nei soliti posti: via del Corso, Campo de Fiori, Trastevere. Ora invece stava scoprendo quartieri nuovi, impadronendosi della Grande Bellezza un pezzetto alla volta, a macchia di leopardo.
La donna le venne in aiuto: «È una traversa di viale Parioli».
Debora abbandonò il navigatore, che si stava prendendo i suoi tempi, e partì.
La donna guardò l’orologio con aria preoccupata, poi tirò fuori il portacipria. Cominciò a riordinarsi i capelli, leggermente spettinati, e a ritoccarsi il rossetto.
Ogni volta che si fermava a un semaforo, Debora la sbirciava dallo specchietto retrovisore. Lo faceva con tutti i clienti. Nei primi tempi in modo timido, di soppiatto, poi via via aveva preso confidenza ed era diventata più sfacciata. Era curiosa, le piaceva osservarli, studiarli, immaginare chi fossero, che cosa facessero, dove andassero e perché. Era l’aspetto che preferiva del suo lavoro, un lavoro che non aveva scelto e che le era capitato per caso, o per disgrazia. Qualche volta, con i clienti che la incuriosivano di più, attaccava anche chiacchiera. In generale se li studiava e basta.
La bionda aveva finito di mettersi il rossetto, un color ciclamino che si intonava con la sua pelle chiara e gli occhi verdi, e ora si stava passando il fard. Le operazioni di restauro erano interrotte continuamente dal gesto nervoso di guardare l’orologio. Quando l’aveva presa in macchina, a prima vista, Debora le aveva dato sui trentacinque anni. Alta, fisico m...