Economia del bene comune
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Economia del bene comune

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Economia del bene comune

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Dopo la caduta del Muro di Berlino e il clamoroso fallimento - anche culturale, sociale ed ecologico - del socialismo reale e della pianificazione statale centralizzata, l'economia capitalistica di mercato è diventata il modello dominante, se non esclusivo, di organizzazione delle società contemporanee. Ma, come dimostra la crisi finanziaria globale che da circa un decennio ha drammaticamente peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone, la prevalenza del profitto e dell'interesse privato sembra disegnare scenari molto diversi da quello di una comunità fondata sul principio della pari dignità dei cittadini e sul patto sociale della riduzione delle ineguaglianze. Che fine ha fatto, in questi ultimi decenni, la ricerca del bene comune, che dovrebbe essere il compito e il fine di una società giusta? E in che modo la teoria economica può contribuire al concreto perseguimento di questo obiettivo?

Per rispondere a queste domande, l'economista premio Nobel Jean Tirole propone al lettore non specialista un singolare percorso all'interno della scienza economica - da lui definita la «finestra sul mondo» che consente di individuare le politiche e le istituzioni che possono promuovere il bene comune - il cui punto d'arrivo è l'acquisizione delle informazioni necessarie per affrontare efficacemente le grandi sfide del nostro tempo. Sotto la sua guida sicura, le tante questioni che interrogano oggi l'umanità - la rivoluzione digitale, con i nuovi modelli economici a cui dà vita, l'innovazione tecnologica, la concorrenza e la regolamentazione settoriale - emergono in una luce inedita e, al contempo, si rivelano potenziali strumenti per superare alcune diffuse criticità del contesto attuale. La crisi finanziaria, la crescita della disoccupazione e delle disuguaglianze, l'inettitudine dei leader alle prese con il cambiamento climatico, la fragilità della costruzione europea, l'instabilità geopolitica e la crisi dei migranti che ne deriva, l'affermazione dei populismi in ogni parte del mondo, sembrano problemi insormontabili, ma le soluzioni, sostiene con forza Tirole, esistono. Prima fra tutte, comprendere a fondo la semplice verità che la somma degli interessi individuali degli agenti economici non si tramuta in benessere collettivo, e quindi in bene comune, grazie alle sole virtù del mercato, ma perché ciò accada è indispensabile l'intervento correttivo di un'istanza pubblica e regolatrice.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852080913
Argomento
Economia

LE GRANDI SFIDE MACROECONOMICHE

VIII

La sfida del clima

1. Il nodo del clima

Crescita del livello del mare che colpisce isole e città costiere, sconvolgimenti climatici, precipitazioni e siccità estreme, raccolti incerti: abbiamo tutti in mente le conseguenze dell’aumento delle temperature. E i costi non saranno solo economici, saranno anche geopolitici: comporteranno ondate migratorie e una forte reazione da parte delle popolazioni più colpite. Anzi, se non si registrerà alcun sussulto da parte della comunità internazionale, il cambiamento climatico rischia di compromettere in misura drammatica e perpetua il benessere delle future generazioni. È vero che le esatte conseguenze della nostra inazione sono ancora difficili da quantificare, ma è chiaro che il mantenimento dello status quo avrebbe esiti catastrofici. Mentre gli specialisti concordano nel dire che un riscaldamento da 1,5 a 2 °C è il limite massimo che possiamo ragionevolmente accettare, il quinto rapporto di rilevazione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change), pubblicato nel 2014, stima che la temperatura media aumenterà, prima della fine del XXI secolo, da 2,5 a 7,8 °C. Le nostre emissioni di gas serra (GHG), come il diossido di carbonio e il metano,1 non sono mai state tanto elevate. Limitare l’aumento a 1,5 o 2 °C al massimo rappresenta quindi una sfida enorme, soprattutto in un contesto mondiale di forte crescita demografica e di legittimo desiderio, da parte di un gran numero di paesi, di accedere a un tenore di vita di stampo occidentale.
La Figura 8.1 riassume in parte i contenuti della sfida. Indica, a livello mondiale, lo sviluppo del PIL e quello delle emissioni, prima dal 1960 al 2008, poi, in prospettiva, fino al 2050, sulla base di uno scenario in cui l’uomo manterrà virtuosamente una traiettoria indirizzata verso 1,5 o 2 °C di riscaldamento. Come mostra il grafico di sinistra, il perfezionamento delle nostre tecnologie comporta naturalmente un minor grado di emissioni di gas serra per unità di PIL. Ma si tratta di un miglioramento relativamente lento, e il grafico di destra, che mostra come il contenuto di CO2 per unità di PIL debba drammaticamente diminuire se vogliamo raggiungere gli obiettivi prefissati per l’ambiente, mostra quanta strada i nostri comportamenti e la nostra tecnologia dovranno ancora percorrere in un lasso di tempo relativamente breve (35 anni). Per riuscire a farlo, dunque, dovremmo trasformare radicalmente il nostro modello di consumo dell’energia, il modo di scaldarci, di concepire e costruire le nostre abitazioni, di trasportare le persone, di produrre beni e servizi, di gestire l’agricoltura e le foreste. A queste politiche di «attenuazione», destinate a ridurre le emissioni di gas serra, dovranno aggiungersi ulteriori misure di «adattamento», vale a dire azioni volte a combattere l’impatto del riscaldamento, per esempio l’allestimento di reti di allerta per le esondazioni, il rialzo di certi ponti in costruzione, la tutela delle zone umide, i cambiamenti culturali e la gestione dei migranti.
Figura 8.1. Evoluzione relativa delle emissioni di carbonio e della sua produzione
Figura 8.1. Evoluzione relativa delle emissioni di carbonio e della sua produzione
Fonte: Rapporto della commissione Pascal Canfin - Alain Grandjean, giugno 2015
In tutto questo non c’è nulla di particolarmente nuovo, ma va ricordato che la comunità internazionale si sta confrontando su questo argomento come minimo dal summit di Rio del 1992. Il protocollo di Kyoto (1997) ha costituito una tappa importante dal punto di vista simbolico, ma, a causa di certe «lacune di costruzione» sulle quali torneremo, non ha permesso di compiere uno sforzo davvero significativo in termini di riduzione dei gas serra. E il grande summit successivo, tenutosi a Copenaghen nel 2009,2 è stato contrassegnato da un’assoluta mancanza di ambizione.
Le Figure 8.2 e 8.3 mettono in luce altri aspetti della sfida. Le stime delle emissioni totali di ciascun paese,3 fornite dalla Figura 8.2, sottolineano un dato: la grande maggioranza delle emissioni di natura antropica (legate cioè alle attività umane) è certo dovuta ai paesi già sviluppati, ma i paesi emergenti svolgeranno un ruolo essenziale nelle emissioni a venire. Qui il segno precursore è lo sviluppo della Cina, oggi di gran lunga la massima responsabile delle emissioni, sebbene le manchi ancora molto per promuovere l’insieme della sua popolazione al livello di vita occidentale; l’India e gli altri paesi emergenti o sottosviluppati seguiranno sperabilmente a ruota, ma a loro volta con un forte impatto sul riscaldamento globale.
La Figura 8.3 indica le emissioni per unità di PIL. Riporta le forti disuguaglianze di performance in rapporto all’ambiente e suggerisce anche che le possibilità di risparmio di gas serra non sono uniformemente ripartite nel mondo. Anche a prescindere da quanto sia poco virtuosa, l’Europa ha senza dubbio, e in misura netta, un minor margine di manovra rispetto ad altri paesi.
Eppure ci si crogiola nell’attendismo. Non solo gli Stati fanno sforzi del tutto insufficienti per decarbonizzare le industrie, i trasporti o le abitazioni, ma le centrali a carbone, la più inquinante tra le energie fossili per la produzione di elettricità, viaggiano, in molti paesi, con il vento in poppa. A volte gli Stati arrivano persino a sovvenzionare le energie fossili (gas, carbone, petrolio) responsabili del 67 per cento delle emissioni di gas serra (e dell’80 per cento delle emissioni di CO2). Secondo un recente rapporto dell’OCSE,4 una cifra annuale che oscilla tra i 141 e i 177 miliardi di euro continua, nel mondo, a sostenere queste energie sia sotto forma di detassazioni e riduzioni dell’IVA, di cui beneficiano varie comunità e professioni (agricoltori, pescatori, autotrasportatori, compagnie aeree, famiglie a basso reddito, abitanti di territori d’oltremare), sia sotto forma di crediti d’imposta per investimenti pesanti (terminali). È certo difficile calcolare le sovvenzioni nette, in quanto restano comunque in vigore altre tasse sulle energie fossili; inoltre, per esempio in Francia, determinate tasse, come la tassa interna di consumo sui prodotti energetici, ex TIPP, non sono da ritenersi in alcun modo vere carbon tax, in ragione del gran numero di esenzioni. In ogni caso, quale che sia il loro esatto importo, le sovvenzioni introdotte nel mondo intero rafforzano l’idea secondo cui gli egoismi nazionali fanno premio sull’imperativo ecologico.
Figura 8.2. Emissioni per paese
Figura 8.2. Emissioni per paese
CATF si riferisce alle emissioni che dipendono dal cambiamento di destinazione delle terre e delle foreste (changement d’affectation des terres et foresterie).
Fonte: World Resources Institute.
Figura 8.3. Emissioni rapportate alla produzione per paese
Figura 8.3. Emissioni rapportate alla produzione per paese
Fonte: World Resources Institute.
Come si è giunti fino a questo punto? Come spiegare lo scarso progresso compiuto da venticinque anni a questa parte nei negoziati internazionali? Possiamo sconfiggere il riscaldamento climatico? Si tratta di domande fondamentali, alle quali il presente capitolo cerca di dare qualche risposta.5

2. Le ragioni dello stallo

Si può invocare il dialogo, si può sognare un mondo diverso in cui attori economici, famiglie, imprese, amministrazioni, paesi, sappiano cambiare le loro abitudini relative ai consumi, decidendo di adottare un comportamento ecologicamente virtuoso. Occorre confrontarsi, spiegare qual è la posta in gioco, sensibilizzare la gente sulle conseguenze del nostro comportamento collettivo. Ma tutto ciò rischia di rimanere largamente insufficiente. La realtà è che il dialogo, iniziato più di vent’anni fa, ha avuto una tale eco mediatica da essere noto a tutti; che la maggior parte di noi è sì pronta a far qualcosa, in qualche misura, per l’ambiente, ma non a privarsi dell’automobile, a pagare l’elettricità un prezzo molto più elevato, a limitare il consumo di carne o i viaggi in aereo verso lontane destinazioni; che le iniziative locali di sviluppo sostenibile sono assai lodevoli, ma che, da sole, risulteranno del tutto insufficienti. E che, in verità, vorremmo che fossero gli altri ad agire al nostro posto e in nostro favore o, meglio, a favore dei nostri nipoti. E che, per quanto irresponsabile, si tratta di una politica comune a tutti, facilmente spiegabile, frutto di due fattori: l’egoismo nei confronti delle future generazioni e il problema del free rider. In altri termini, i vantaggi legati all’attenuazione del cambiamento climatico restano sostanzialmente globali e remoti, mentre i costi dell’attenuazione sono locali e immediati.

Il problema del «free rider»…

Ciascun paese agisce innanzitutto nel proprio interesse, a nome dei propri agenti economici, sperando di approfittare degli sforzi altrui. In economia, il cambiamento climatico si presenta come un problema di bene comune. A lungo termine, la maggioranza dei paesi dovrebbe trarre importanti benefici da una riduzione massiccia delle emissioni globali di gas serra, in quanto il riscaldamento climatico avrà serie conseguenze economiche, sociali e geopolitiche. Tuttavia, gli incentivi individuali a ridurre i gas serra si rivelano trascurabili. Forse perché la maggior parte dei vantaggi derivanti dalle misure di attenuazione prese da un dato paese finisce in realtà per avere ricadute importanti su altri paesi?
Mettiamo che un dato paese sopporti il 100 per cento del costo delle sue politiche verdi, per esempio i costi di isolamento degli abitati o di sostituzione delle fonti energetiche inquinanti come il carbone con energie più pulite ma anche economicamente più onerose. In cambio, detto in modo molto schematico, esso godrà soltanto dell’1 per cento dei benefici di tale politica, se il paese in questione rappresenta l’1 per cento della popolazione mondiale (e se si colloca nella media dei paesi per quanto riguarda i rischi legati al cambiamento climatico). In altri termini – si fa presto a calcolarlo – delle sue politiche verdi beneficerà in realtà la quasi totalità degli altri paesi! È un po’ come se doveste scegliere tra spendere 100 euro oggi oppure risparmiarli sapendo che 99 euro del vostro risparmio vi saranno prelevati per essere redistribuiti a sconosciuti. Non solo: la maggioranza dei benefici della vostra politica non avvantaggia, oggi come oggi, gli individui compresi nella fascia d’età degli aventi diritti al voto, bensì le future generazioni.
Di conseguenza, i paesi non internalizzano i benefici delle politiche destinate a ridurre le emissioni: per cui esse restano insufficienti, i tassi di emissione si mantengono a livelli elevati e il cambiamento climatico accelera. Il problema del free rider dà luogo inevitabilmente alla «tragedia dei beni comuni», come mostra una quantità di studi dettagliati relativi ad altri campi d’indagine. Per esempio, la condivisione di un identico appezzamento di pascolo da parte di più allevatori conduce di solito al sovrapascolo; infatti, ogni allevatore vorrebbe beneficiare di una vacca supplementare, senza tener conto del fatto che il suo beneficio sarebbe compensato da una perdita collaterale da parte di un altro allevatore, il cui bestiame avrà meno erba da brucare. In maniera analoga, cacciatori e pescatori non internalizzano il costo sociale del cacciato o del pescato. La caccia e la pesca in eccesso, oggi al centro di frequenti contenziosi internazionali, hanno contribuito in passato all’estinzione di molte specie, dal dodo, uccello caratteristico delle isole Mauritius, all’orso dei Pirenei e al bisonte delle grandi pianure del Nordamerica. Il biologo evoluzionista Jared Diamond ha mostrato come la deforestazione dell’isola di Pasqua abbia determinato il collasso di un’intera civiltà.6 E si potrebbero fare altri esempi della tragedia dei beni comuni nel campo dell’inquinamento dell’acqua, dell’aria, degli ingorghi del traffico o della sicurezza internazionale.
La politologa Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia nel 2009, ha mostrato a sua volta come piccole comunità stabili siano capaci, in determinate condizioni, di gestire le risorse locali comuni senza ritrovarsi vittime, per effetto delle dinamiche informali d’incentivazione e di sanzione, della tragedia di cui sopra.7 È chiaro che queste modalità informali per limitare il problema del free rider non sono applicabili al cambiamento climatico, perché, nella fattispecie, le parti in causa coincidono con i 7 miliardi di individui che attualmente abitano il pianeta, senza contare le future generazioni. Trovare una soluzione al problema delle esternalità mondiali è molto complicato, in quanto non esiste alcuna authority sovranazionale in grado di attivare e di far rispettare un approccio classico d’internalizzazione dei costi, come quello che propone la teoria economica per la gestione del bene comune, un approccio spesso privilegiato a livello nazionale.

… è aggravato da quello delle «fughe di carbonio»…

Per giunta, la presenza di quelle che si chiamano «fughe di carbonio» (carbon leakage) può scoraggiare qualsiasi paese o qualsiasi regione intenzionati a adottare una strategia di attenuazione unilaterale. Più precisamente, il fatto di imporre, prezzando le emissioni di carbonio, costi supplementari alle industrie nazionali del settore non protetto (vale a dire soggetto alla concorrenza internazionale) che emettono gas serra in gran quantità finisce per minarne la competitività. Una tassazione del carbonio abbastanza consistente da contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico in un dato paese indurrà perciò le imprese a delocalizzare la produzione in altre regioni del mondo, là dove possono inquinare senza spendere troppo; in caso contrario, perderanno i loro mercati (interni o esteri) a vantaggio di imprese localizzate in paesi non particolarmente severi in materia d’inquinamento. Di conseguenza, una politica unilaterale delocalizza la produzione verso paesi meno responsabili, portando di fatto a una semplice redistribuzione di produzione e di ricchezza senza alcun beneficio ecologico significativo.
In ugual modo, quando paesi «virtuosi» prendono l’iniziativa di aumentare il prezzo locale della benzina o del gasolio sul mercato interno, onde ridurre la domanda di energie fossili, non fanno che contribuire alla diminuzione del prezzo mondiale delle energie medesime, il che comporta a sua volta un aumento della domanda di energie fossili e quindi delle emissioni di gas serra da parte degli altri paesi non virtuosi. Il fenomeno delle «fughe di carbonio» ha dunque come effetto quello di ridurre il beneficio climatico al netto degli sforzi compiuti nel settore.
Un altro esempio del rischio di fughe è fornito dal Clean Development Mechanism (CDM) previsto dal protocollo di Kyoto. Il meccanismo consiste nella concessione di crediti alle imprese dei paesi in cui si presume che le emissioni di carbonio siano penalizzate (per esempio, i paesi europei), nella misura in cui realizzino progetti di riduzione delle emissioni in nazioni, come la Cina, non soggette ai vincoli asse...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Economia del bene comune
  4. Premessa
  5. ECONOMIA E SOCIETÀ
  6. IL MESTIERE DI RICERCATORE IN ECONOMIA
  7. IL QUADRO ISTITUZIONALE DELL’ECONOMIA
  8. LE GRANDI SFIDE MACROECONOMICHE
  9. LA SCOMMESSA INDUSTRIALE
  10. Note
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright