Non eravamo pronti.
Poi, una sera dell’aprile 2009, una notte in cui ero più vulnerabile, più triste, più bisognoso di qualcosa di diverso nella mia vita, l’ho vista in mezzo a delle amiche, in un bar del centro di Roma, e lì l’incontro è avvenuto sul serio. Anche se sapevo bene che questo non significava ancora essere capaci di costruire un progetto di vita insieme.
Ricordo di averle detto: «Detesto le donne ubriache».
E che lei mi rispose: «Detesto le persone che continuano a commettere gli stessi errori».
Ecco, avevamo già cominciato a costruire qualcosa.
A parlarci, come avremmo fatto sempre da quel momento in avanti.
A cambiarci reciprocamente la vita.
Siamo partiti per Filicudi, il mio luogo dell’anima. Dovevamo fermarci pochi giorni. Siamo rimasti un mese. Un mese bellissimo. Tornati, Elena era incinta di Maddalena. Tre anni dopo sarebbe nato Francesco Saverio.
Un giorno, durante il nostro primo anno insieme, a Elena si rompe il cellulare.
«Amore, che problema c’è?»
Avevo un vecchio cellulare a casa e senza nemmeno pensarci, lucido come un suicida, le dico di prenderlo. Lei lo fa, inserisce la sua SIM e di colpo vi si scaricano duecento messaggi, rimasti nella memoria del telefono, che avevo mandato a duecento donne diverse. Vivevamo assieme, ero felice, eppure – completamente dissociato – ogni tanto sparivo con una scusa qualunque e…
Non dimenticherò mai la sua voce rotta dal pianto.
Mi chiama e mi dice: «Forse è meglio se torni a casa, perché vado ad abortire e ti lascio per sempre».
Il dolore che ho provato era qualcosa di totalmente nuovo. Dolore non per me, ma per lei. Dolore per aver provocato dolore. Mi sentivo come se pesassi duecento chili. Non riuscivo ad alzarmi dalla sedia.
In quel momento ho capito, anzi ho sentito, che non avrei più potuto sopportare di far stare male chi amavo. Era la prima volta che amavo una donna così, che la rispettavo così. Con questa intensità, con questa totale insopportabilità, in maniera tanto insostenibile da diventare la forza più grande che sento dentro, capace di inibire tutte le altre spinte. L’idea di raccontare una bugia a Elena è in grado di paralizzarmi completamente.
Non pensate sia finito tutto in due ore. Elena è rimasta, ma ha pianto per tre giorni e tre notti di fila. Credo abbia cominciato – solo cominciato – a perdonarmi adesso. Sono passati sette anni e a volte ancora me la ricorda, quella giornata, e fa bene. «Tu mi hai fatto del male.»
E io le rispondo: «Noi due non sarà mai perfetto, ma sarà sempre noi due».
Una delle promesse che le ho fatto sin da subito – un patto, un vero e proprio rito – è stata quella di scriverle una lettera ogni giorno. Ed è una promessa che ho mantenuto. Oggi, mentre scrivo, sono arrivato a quasi tremila lettere.
Lettere a cui lei – sempre in virtù del patto – non deve rispondere.
All’inizio è stato un incubo. Una fatica che – dopo due mesi – non pensavo sarei riuscito a sopportare. Oggi, invece, non potrei fare a meno di scriverle. È inimmaginabile la felicità che provo. Allegati alle mail quasi sempre ci sono una foto, o un video: un pezzo di noi da ricordare.
Ho la prova di come il nostro cervello possa trasformare una cosa che sembra impossibile in una di cui non si può fare a meno. Ma questa volta, per la prima volta, ho creato una dipendenza da una cosa virtuosa, un contatto con me stesso e con la donna che amo e che spero durerà tutta la vita.
È come studiare la Torah.
È come il teatro.
I fili importanti della mia vita si stanno riannodando.
Ma facciamo un passo alla volta.
Naturalmente non sono bastate lacrime, promesse, lettere quotidiane.
Mi ha detto: «Tu stai male. Tu sei malato».
Ed era, è vero.
«Tu adesso devi curarti. Tu hai bisogno d’aiuto.»
Vero pure questo.
Elena ha ventidue anni meno di me ma è più saggia ed equilibrata, anche se ha i suoi problemi e i suoi difetti, intendiamoci.
Mi ha portato da uno psichiatra, con cui sto lavorando ancora oggi.
Ho bisogno d’aiuto, è vero.
E mi sono spaventato – credetemi – quando ho capito che dalle dipendenze non si guarisce mai totalmente, mai davvero, mai definitivamente, che non ci sono cure risolutive.
Un amico mi chiede: «Perché ogni tanto pensi ancora alla droga e all’alcol?».
«Perché sono un drogato.»
«Ma no, non lo sei.»
«Sì, invece.»
È come una cicatrice nel cervello. Capisci che potrai ridurla, renderla sempre più piccola. Ma la cicatrice c’è ed è sempre lì, pronta a riaprirsi, come quelle spugne che nell’acqua si gonfiano. Una goccia che fa da detonatore e questa roba torna.
E con gli amici che sono come me, meglio se ci aiutiamo a vicenda, o se qualcuno ci separa, perché basta un Martini di troppo e scompariamo dal radar di chi ci vuole bene.
«Una seratina tu e io?» No. Perché tu sai quanto ne vogliamo tu e io. Un grammo? Nooo, dieci. E poi quanto staremo chiusi in quella stanza? Una notte? Nooo. Magari tre giorni. Magari una settimana. Magari, chi lo sa, non ne usciremo più… vivi.
Tempo fa è morto un grande attore internazionale. Un caro amico. Aveva tre figli bellissimi, una vita piena, non beveva più da oltre cinque anni. Poi una sera ha abbassato la guardia e il demone è tornato, come un lupo lo ha morso alla gola. Se n’è andato, con il rimorso di non aver saputo resistere una volta di più.
Sapete qual è il mio vero problema, la vera fatica, l’impresa davvero difficile? Non tanto ricostruire il Teatro Eliseo in quattro mesi, con soldi miei, quasi cinque milioni di euro, e realizzare una multimedia company che dà lavoro a sessanta persone. No. Il vero rischio, il vero pericolo, la sfida fatale sarà evitare di distruggere tutto questo di colpo, scientemente, un giorno qualsiasi dei prossimi anni. Perché per me il problema non è costruire, non faccio nessuna fatica a realizzare cose inimmaginabili per la gran parte delle persone, non me ne accorgo neanche, quasi non me ne rendo conto. Ma quando ho costruito tutti e dieci i piani, alla velocità dei cinesi, quando sono arrivato in alto, alla fine, e sarebbe il momento di issare la bandiera, invece di godermi lo spettacolo e di dirmi: “Bravo”, comincio a dare delle gran botte, bum bum bum, e vediamo se va giù, vediamo se va giù, vediamo se va giù… Ma non solo lo faccio io, dico anche a qualcuno di farlo: «Dài, prova a mettere una carica al quarto piano per vedere se, metti caso, esplode e viene giù tutta l’ala nord».
Questo vale per le persone che amo, per le cose che ho fatto, per i rapporti di lavoro, per i miei collaboratori (che leggendo questa pagina si preoccuperanno: state tranquilli, ragazzi, questa volta non succederà), per i miei figli.
Ogni sera, finito di cenare, il pensiero va sempre nella direzione sbagliata; poi mi controllo ma lui va sempre lì. C’è come una sorta di automatismo, una coazione a ripetere. La mia mente non abbandona quel pensiero ma la mia volontà si frappone. Oppure mi viene l’impulso di partire, combattere, conquistare, fuggire da qualche parte. Sono un’anima in pena ma in combattimento. Perenne.
E allora guardo il mio psichiatra, lo guardo incazzato, e gli chiedo: «Mi può spiegare perché sono a casa con i miei cinque figli, sani, meravigliosi, con i nipoti che mi adorano, una moglie che mi ama, una tavolata che mio padre avrebbe dato un braccio per avere, e mentre li guardo e accarezzo mio nipote, penso alle cose più orribili che potrei infliggermi per scomparire definitivamente dalla faccia della terra? Sto bene, amo mia moglie…».
E allora, com’è possibile?
Mi aiuti.
Non sono di quelli che negano. So di aver bisogno d’aiuto.
Mi aiuti.
In passato, per sei anni, ho fatto alcune sedute psicoanalitiche con Matte Blanco, cileno, colto, irrituale, non ortodosso – non mi ha mai fatto sdraiare su un lettino – affascinante, unico vero erede di Freud. Un genio. Chiacchieravamo molto, mi parlava come Shakespeare delle sette età dell’uomo e piangevamo insieme leggendo le poesie di Rubén Darío. Un genio, lo penso sinceramente. Ma quelle magnifiche sedute non servivano a nulla. Uscivo e facevo gli stessi errori di prima.
In realtà, non posso rinnegare sei anni con un uomo eccezionale che comunque aveva saputo leggermi dentro.
Mi aveva detto: «Quando lei eliminerà ogni suo tentativo di autosabotaggio e utilizzerà diversamente tutta questa energia, scriverà il film del suo cuore». Infatti, quando ho cominciato a stare meglio, ho scritto Ardena, uscito quando avevo quarant’anni, un film di cui sono molto orgoglioso anche se non lo ha visto e forse non lo vedrà quasi nessuno, ma che a me ha dato la consapevolezza e il piacere di verificare che potevo raccontare una storia con intelligenza, poesia e leggerezza.
Rimane il fatto che, se il paziente decide di prendere per il culo lo psicoanalista, lo psicoanalista non può fare molto. Come sostiene mia moglie: «Tu riusciresti a sedurre anche un semaforo».
Uno psichiatra bravo, invece, è difficile da prendere in giro. Gli psichiatri sono come dei meccanici del cervello. Perché il cervello è essenzialmente meccanica. Meccanica quantistica, se vogliamo – complessa, ...