Il caso Fitzgerald
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Il caso Fitzgerald

  1. 276 pagine
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Il caso Fitzgerald

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È notte fonda quando una banda di ladri specializzati in furti d'arte riesce a penetrare nel caveau della Princeton University rubando cinque preziosissimi manoscritti originali di Francis Scott Fitzgerald, assicurati per venticinque milioni di dollari.

Sembrerebbe un'operazione audace e impeccabile se non fosse per una piccola traccia lasciata da uno dei malviventi. Basandosi su quell'unico indizio l'FBI parte immediatamente alla caccia dei ladri e della refurtiva, impresa che si rivela molto difficile.

Ma chi può avere commissionato un furto così clamoroso? C'è un mandante o si tratta di un'iniziativa autonoma?

Bruce Cable è un noto e chiacchierato libraio indipendente, appassionato di libri antichi che commercia in manoscritti rari. La sua libreria si trova a Camino Island, in Florida, ed è un punto di ritrovo per gli amanti della lettura. Molti scrittori vi fanno tappa volentieri durante i loro tour promozionali. Forse lui sa qualcosa in merito a questa vicenda?

Mercer Mann è una giovane scrittrice che conosce bene quell'isola, dove era solita trascorrere le vacanze con la nonna quando era bambina. Ora è rimasta senza lavoro ed è alle prese con la stesura di un nuovo romanzo che non riesce proprio a scrivere. Chi meglio di lei può essere ingaggiata per indagare da vicino senza destare sospetti sulle misteriose attività di Bruce?

Lontano dalle aule dei tribunali e dalle consuete ambientazioni dei suoi legal thriller, John Grisham scrive un mystery godibilissimo, descrivendo con grande sagacia il mondo editoriale, quello dei collezionisti, le librerie indipendenti e le piccole e grandi manie degli scrittori.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852081064
Capitolo 1

Il colpo

1

L’impostore si era appropriato del nome di Neville Manchin, un vero professore di letteratura americana alla Portland State University e futuro dottorando a Stanford. Nella lettera, scritta su carta intestata dell’università contraffatta alla perfezione, il “professor Manchin” dichiarava di essere uno studioso in erba del grande Francis Scott Fitzgerald, desideroso di esaminarne “i manoscritti e le carte” in occasione di un imminente viaggio sulla costa orientale. La lettera era indirizzata al dottor Jeffrey Brown, direttore della divisione Manoscritti, dipartimento Libri rari e collezioni speciali, Firestone Library, Princeton University. Arrivò insieme ad altre buste e fu puntualmente smistata e passata di mano in mano per poi finire sulla scrivania di Ed Folk, un bibliotecario che tra i vari noiosi incarichi doveva verificare le credenziali della persona che aveva scritto.
Ed riceveva lettere come quella ogni settimana, tutte più o meno uguali, spedite da sedicenti appassionati ed esperti di Fitzgerald, e solo qualche volta da veri studiosi. L’anno precedente aveva autorizzato centonovanta richieste di accesso alla biblioteca. Gli studiosi provenivano da tutto il mondo e si presentavano lì emozionati e intimiditi come pellegrini davanti a un reliquiario. In trentaquattro anni trascorsi alla stessa scrivania, Ed li aveva passati in rassegna un po’ tutti, e non accennavano a diminuire: Francis Scott Fitzgerald continuava a esercitare un notevole fascino. Il flusso era lo stesso di trent’anni prima. Ultimamente però Ed si chiedeva cosa fosse rimasto da leggere, studiare e scrivere riguardo alla vita del grande scrittore. Poco tempo prima, un vero studioso gli aveva detto che al momento esistevano almeno un centinaio di libri e oltre diecimila articoli accademici dedicati a Fitzgerald come uomo e scrittore, alle sue opere e alla moglie folle.
E Fitzgerald era morto alcolizzato a quarantaquattro anni! Chissà come sarebbe andata se fosse invecchiato e avesse continuato a scrivere. Ed avrebbe avuto bisogno di un assistente, anche di due, magari di un’intera squadra. Ma sapeva anche che spesso una morte prematura era la chiave del successo postumo, per non parlare dei diritti d’autore.
Dopo qualche giorno, Ed riuscì finalmente a dedicarsi al professor Manchin. Una rapida lettura del registro della biblioteca rivelò che si trattava di una persona nuova, una nuova richiesta. Qualche veterano era stato a Princeton tante di quelle volte che ormai si limitava a chiamarlo al telefono e dirgli: “Ehi, Ed, torno martedì prossimo”, il che a lui andava bene. Con Manchin non fu così. Ed cercò sul sito della Portland State e trovò il suo uomo. Laurea in letteratura americana alla Oregon University, un master alla California University, un incarico supplementare di altri tre anni. La foto mostrava un uomo dall’aspetto ordinario sui trentacinque anni, tracce di una barba probabilmente provvisoria, occhiali sottili senza montatura.
Nella lettera, il professor Manchin chiedeva che gli rispondessero via email e dava il suo indirizzo privato su Gmail. Aggiunse che controllava di rado l’indirizzo di posta dell’università. “Perché sei solo uno sfigato professore aggregato e quindi non avrai nemmeno un vero ufficio” rifletté Ed. Aveva spesso pensieri del genere, ma ovviamente era troppo professionale per esprimerli ad alta voce. Per prudenza, il giorno dopo inviò una risposta al server dell’università. Ringraziò il professor Manchin per la lettera e lo invitò al campus di Princeton. Gli chiese quando sarebbe arrivato ed espose alcune regole base per accedere alla collezione di Fitzgerald. Ce n’erano parecchie, quindi suggerì a Manchin di leggerle sul sito della biblioteca.
Ed ricevette una risposta automatica in cui si comunicava che Manchin era fuori sede per qualche giorno. Un complice era entrato nel server della Portland State ed era riuscito a manomettere la posta elettronica del dipartimento: un gioco da ragazzi per un hacker esperto. Lui e l’impostore seppero immediatamente che Ed aveva risposto.
“Uffa” pensò Ed. Il giorno dopo inviò lo stesso messaggio alla posta privata del professore. Nel giro di un’ora, Manchin ringraziò con calore, aggiungendo che era impaziente di visitare il dipartimento, eccetera eccetera. Rispose in tono entusiastico di aver consultato il sito della biblioteca e passato molto tempo a leggere gli archivi digitali su Fitzgerald, specificando che possedeva da anni i molti volumi che contenevano un facsimile delle prime bozze scritte a mano dal grande scrittore, e aveva un particolare interesse per le recensioni del primo romanzo, Di qua dal paradiso.
“Magnifico” pensò Ed. Niente di nuovo. Il tizio stava cercando di impressionarlo prima ancora di essere lì, il che non era affatto insolito.

2

Francis Scott Fitzgerald si iscrisse a Princeton nell’autunno del 1913. A sedici anni sognava di scrivere il grande romanzo americano, e cominciò a lavorare a una prima versione di Di qua dal paradiso. Abbandonò l’università dopo quattro anni per entrare nell’esercito e combattere, ma la guerra finì prima che lo inviassero al fronte. Il suo capolavoro, Il grande Gatsby, fu pubblicato nel 1925 ma non ebbe successo fino alla sua morte. La sua carriera fu costellata di problemi finanziari e nel 1940 lavorava a Hollywood, scrivendo brutte sceneggiature e finendo con l’indebolire sia la sua salute che la sua creatività, quando, il 21 dicembre, morì per un attacco di cuore causato da anni di alcolismo.
Nel 1950 Scottie, l’unica figlia di Fitzgerald, donò i manoscritti originali, gli appunti e le lettere – le sue “carte” – alla Firestone Library di Princeton. I suoi cinque romanzi erano stati scritti a mano su carta da poco che si rovinò nel corso del tempo. La biblioteca si rese subito conto che sarebbe stato imprudente lasciare che i ricercatori li maneggiassero. Furono realizzate copie di alta qualità e gli originali vennero messi sotto chiave in un caveau sotterraneo dove l’aria, la luce e la temperatura erano attentamente monitorate. Nel corso degli anni, furono spostati in pochissime occasioni.

3

L’uomo che fingeva di essere il professor Neville Manchin arrivò a Princeton in una bella giornata di inizio ottobre. Era diretto al dipartimento Libri rari e collezioni speciali, dove incontrò Ed Folk e un altro assistente bibliotecario che controllò e fotocopiò la sua patente di guida dell’Oregon. Naturalmente era un falso, ma perfetto. Il falsario, che era anche l’hacker del gruppo, era stato addestrato dalla CIA e aveva una lunga esperienza nell’oscuro mondo dello spionaggio. Aprire una breccia nel sistema di sicurezza del campus era un gioco da ragazzi.
Il professor Manchin fu fotografato e gli venne assegnato un badge che doveva tenere sempre in vista. Seguì l’assistente al secondo piano, in una grande sala con due lunghi tavoli e, lungo le pareti, cassetti estraibili chiusi a chiave. Agli angoli della sala, Manchin notò almeno quattro telecamere di sorveglianza in bella vista. Immaginò che ce ne fossero altre, nascoste. Cercò di attaccare bottone con l’assistente, ma senza grandi risultati. Chiese per scherzo se poteva vedere il manoscritto originale di Di qua dal paradiso. L’assistente sfoggiò un ghigno compiaciuto e rispose che non era possibile.
«Ha mai visto gli originali?» chiese Manchin.
«Una volta.»
Fece una pausa. Il professore aspettò che andasse avanti, poi chiese: «In che occasione?».
«Be’, c’era un famoso esperto che desiderava vederli. L’abbiamo accompagnato nel caveau e l’abbiamo tenuto d’occhio. Solo il capo bibliotecario ha l’autorizzazione per farlo, e deve indossare guanti speciali.»
«Certo. Be’, mettiamoci al lavoro.»
L’assistente aprì due dei grossi cassetti, entrambi con l’etichetta “Di qua dal paradiso” e ne estrasse due enormi fascicoli. «Questi contengono le recensioni del libro quando fu pubblicato» disse. «Abbiamo molti altri esemplari di recensioni più recenti.»
«Perfetto» disse Manchin con un sorriso. Aprì la ventiquattrore, tirò fuori un portatile e sembrò pronto a dedicarsi ai fascicoli. Mezz’ora dopo, mentre era assorto nel lavoro, l’assistente si scusò e scomparve. Manchin non sollevò mai lo sguardo a beneficio delle telecamere. Alla fine dovette andare in bagno e cominciò a vagare qua e là. Sbagliò porta un paio di volte, finì per perdersi e si spostò cautamente attraverso le collezioni, evitando qualunque contatto. C’erano telecamere di sorveglianza ovunque. Dubitava che in quel momento qualcuno stesse guardando i filmati, ma se ce ne fosse stato bisogno potevano certamente recuperarli. Trovò un ascensore, ma decise di fare le scale. Il primo piano interrato era simile al piano terra. Sotto, le scale si fermavano a S2 (Sotterraneo 2), dove ad aspettarlo c’era una porta spessa con la vistosa scritta “Solo in caso di emergenza”. Di fianco alla porta, c’erano un tastierino numerico e un altro cartello che avvertiva che se la porta fosse stata aperta “senza autorizzazione” sarebbe scattato un allarme. Due telecamere di sorveglianza controllavano la porta e la zona circostante.
Manchin indietreggiò e tornò sui propri passi. Quando rientrò nella sala, l’assistente lo stava aspettando. «Tutto bene, Mr Manchin?» chiese.
«Oh, sì. Solo un virus intestinale. Spero non sia contagioso.» L’assistente si allontanò subito e Manchin stette lì tutto il giorno, a esplorare il contenuto dei cassetti di acciaio e a leggere vecchie recensioni di cui non gli importava nulla. Si allontanò varie volte dalla postazione, curiosò in giro, osservò, misurò e memorizzò.

4

Manchin tornò tre settimane dopo, e stavolta non fingeva più di essere un professore. Era sbarbato, con i capelli tinti di biondo rossiccio, occhiali dalla montatura rossa e tessera universitaria contraffatta con tanto di fotografia. Se qualcuno avesse fatto qualche domanda, cosa che non si aspettava, avrebbe detto di essere uno studente dell’Iowa. Il suo vero nome era Mark e per lavoro, se così si poteva definire, faceva il ladro professionista. Truffe di alto livello e con cifre a molti zeri pianificate nei minimi dettagli e furti specializzati nel mondo dell’arte e dei manufatti rari, che potevano essere rivenduti alle vittime disperate in cambio di un riscatto. Faceva parte di un gruppo di cinque capeggiato da Denny, un ex militare che si era dato al crimine dopo essere stato cacciato dall’esercito. Fino a quel momento Denny non era stato mai stato beccato e non aveva precedenti; Mark nemmeno. Due degli altri però sì. Trey aveva due condanne e due evasioni, l’ultima l’anno prima da una prigione federale in Ohio. Era là che aveva incontrato Jerry, un ladruncolo di oggetti d’arte in libertà sulla parola. Un altro ladro, un ex compagno di cella che stava scontando una lunga condanna, aveva parlato a Jerry dei manoscritti di Fitzgerald.
L’organizzazione era perfetta. Esistevano solo cinque manoscritti originali, tutti conservati nello stesso posto. E secondo Princeton avevano un valore inestimabile.
I cinque membri del gruppo preferivano lavorare da casa. Ahmed era l’hacker, il falsario, il mago delle illusioni, ma non aveva il sangue freddo per maneggiare armi e roba del genere. Operava dal suo seminterrato a Buffalo e non era mai stato beccato o arrestato. Non lasciava tracce. A lui toccava il cinque per cento del bottino. Gli altri quattro si sarebbero divisi il resto in parti uguali.
Alle nove di un martedì sera, Denny, Mark e Jerry si trovavano dentro la Firestone Library travestiti da laureandi e controllavano l’ora. Le tessere false avevano funzionato alla perfezione; nessuno aveva fatto domande. Il nascondiglio di Denny era uno spogliatoio femminile al terzo piano. Sollevò un pannello nel soffitto sopra i bagni, si sfilò lo zaino e rimase lì in attesa per alcune ore, rattrappito e accaldato. Mark forzò la porta della sala principale dei quadri elettrici al primo livello dei piani interrati e attese che suonasse l’allarme. Non sentì niente, e nemmeno Ahmed, che si era introdotto senza fatica nel sistema di sicurezza dell’università. Mark cominciò a smantellare gli iniettori del generatore elettrico d’emergenza sul retro della biblioteca. Jerry trovò un posto a un tavolo con separé nascosto tra file di ripiani con libri che nessuno toccava da decenni.
La biblioteca chiudeva a mezzanotte. I quattro membri del gruppo, oltre a Ahmed nel seminterrato di Buffalo, erano in contatto radio. Alle 00.15 Denny, il capo, comunicò a tutti che il piano stava andando come previsto. Alle 00.20, Trey entrò con un grosso zaino da studente nel McCarren Residential College, al centro del campus. Vide le telecamere di sorveglianza negli stessi posti in cui erano la settimana prima. Fece le scale incustodite per salire al secondo piano, si infilò nei bagni delle ragazze e si chiuse a chiave dentro uno dei gabinetti. Alle 00.40 prese lo zaino e ne estrasse un barattolo grosso più o meno come una bottiglietta da mezzo litro. Azionò un timer con partenza ritardata e lo posizionò dietro il gabinetto. Uscì dal bagno, andò al terzo piano e posizionò un’altra bomba in una doccia vuota. Alle 00.45 trovò un corridoio in penombra al secondo piano di un dormitorio e lanciò con disinvoltura una decina di petardi nell’atrio. Mentre scendeva le scale, l’esplosione rimbombò nell’edificio. Pochi secondi dopo scoppiarono entrambe le bombe fumogene, che riempirono i corridoi di fumo denso e soffocante. Mentre lasciava l’edificio, Trey sentì le prime voci terrorizzate. Si nascose dietro i cespugli sul retro del dormitorio, estrasse dalla tasca un cellulare usa e getta, chiamò il 911 di Princeton e comunicò la terribile notizia: «C’è un tizio con una pistola al secondo piano del McCarren. Sta sparando».
Il fumo usciva da una finestra del secondo piano. Jerry, seduto al buio in biblioteca, fece una telefonata simile con il suo cellulare usa e getta. Ben presto le chiamate si moltiplicarono, mentre il panico invadeva il campus.
Ogni college americano ha piani precisi per gestire una situazione che coinvolge un “soggetto armato”, ma nessuno vuole metterli in pratica. L’agente incaricata ebbe alcuni secondi di disorientamento prima di premere i pulsanti giusti, ma quando lo fece le sirene cominciarono a suonare. Ogni studente, professore, responsabile e dipendente di Princeton ricevette un avviso via SMS e via email. Tutte le porte dovevano essere chiuse a chiave. Tutti gli edifici messi in sicurezza.
Jerry fece un’altra chiamata al 911 e riferì che due studenti erano stati colpiti. Dall’atrio del McCarren fuoriusciva fumo. Trey piazzò altre tre bombe fumogene nei bidoni dell’immondizia. Alcuni studenti corsero attraverso il fumo spostandosi da un edificio all’altro, incerti su quale fosse il posto dove mettersi al riparo. La sicurezza del campus e la polizia di Princeton si precipitarono sul posto, seguite da cinque o sei camionette dei vigili del fuoco e dieci ambulanze. Arrivò la prima di molte autopattuglie della polizia di Stato del New Jersey.
Trey lasciò lo zaino davanti alla porta di un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL CASO FITZGERALD
  4. Capitolo 1. Il colpo
  5. 2. L’affarista
  6. 3. La recluta
  7. 4. Sulla spiaggia
  8. 5. L’intermediario
  9. 6. Finzione
  10. 7. La ragazza del weekend
  11. 8. La consegna
  12. Epilogo
  13. Nota dell’autore
  14. Copyright