Lo scisma della mezzaluna
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Lo scisma della mezzaluna

Sunniti e sciiti, la lotta per il potere

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Lo scisma della mezzaluna

Sunniti e sciiti, la lotta per il potere

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Il mondo islamico, che spesso tende a essere presentato come un universo monolitico, nasconde in realtà una cultura estremamente variegata ed eterogenea. L'esempio lampante è rappresentato dalla storica divisione interna tra sunniti e sciiti, le cui origini risalgono a ben 14 secoli fa, ai tempi della successione al profeta Muhammad. Un filo rosso che ha percorso secoli, fino ad assumere nuovo, esplosivo significato nel 1979, con la rivolta islamica sciita di Khomeini in Iran. Tuttavia, più che come scontro teologico-dottrinale, fin dall'inizio tale «scisma» si è configurato soprattutto come una lotta per l'egemonia politica ed economica. Uno scontro di potere che strumentalizza il settarismo religioso e di cui le comunità sunnite e sciite sono più vittime che protagoniste. Una questione delicata e complessa che riguarda il mondo musulmano e rappresenta uno dei nodi cruciali dell'attuale scenario internazionale.

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Informazioni

1

Sunniti e sciiti: alle origini della divisione

Le origini dell’Islam

L’Islam è nato in Arabia, anzi più precisamente a Mecca, a cavallo tra VI e VII secolo, per opera della predicazione di un uomo, Muhammad Ibn ‘Abdallah Ibn ‘Abd al-Muttalib, che sarebbe nato attorno al 570, avrebbe ricevuto le prime rivelazioni dall’angelo Gabriele attorno al 610 e avrebbe cominciato a predicare il suo messaggio monoteista ed escatologico un paio d’anni dopo. Muhammad avrebbe raccolto attorno a sé un certo numero di seguaci (a dire il vero non molti, almeno nelle prime fasi) di estrazione e importanza sociale diversa, dai ricchi mercanti agli schiavi, alle donne, e la sua predicazione avrebbe sollevato le ostilità sempre più violente dei maggiorenti meccani, che ne rifiutavano la radicalità del messaggio religioso e soprattutto sociale. Questa ostilità, che si sarebbe tradotta in puro odio, costrinse il Profeta a emigrare a Medina nel 622. Si tratta dell’Egira (in arabo Hijra, appunto «emigrazione»), che ha cambiato il volto della storia. A Medina Muhammad avrebbe consolidato la sua posizione, non solo accrescendo il numero degli adepti alla nuova religione, che intanto si precisava sia sotto il profilo teologico sia sotto quello cultuale e normativo, ma lentamente costituendo una sorta di comunità statuale, la umma. Nel giro di una decina d’anni, Muhammad e i suoi avrebbero stretto alleanze con altre tribù arabe fino a costituire una vera «piccola grande» potenza regionale. Ormai fortificato sul piano della credenza religiosa e sul piano militare, Muhammad poté finalmente conquistare Mecca nel 630.
Si sono usate qualche volta espressioni verbali al condizionale perché la narrazione tradizionale delle fonti islamiche è stata, secondo un vezzo non raro allorché si studiano i fondatori delle religioni, messa in discussione o addirittura negata radicalmente dalla ricerca «scientifica» orientalistica. Per esempio, le date della nascita di Muhammad, dell’inizio della rivelazione e della stessa Egira sarebbero in certa misura congetturali: non v’è da aspettarsi uno sconvolgimento della cronologia, ma le date potrebbero ben alzarsi o abbassarsi di qualche anno. E ancora, anzi più importante ancora: si è ipotizzato che l’ostilità dei maggiorenti di Mecca alla predicazione di Muhammad sia stata esagerata dalle fonti posteriori per enfatizzare la straordinarietà dell’esperienza del Profeta e del successo del suo messaggio. Si è ipotizzato inoltre che i primi seguaci di Muhammad fossero per la maggior parte ebrei e cristiani che solo più tardi e col tempo avrebbero acquisito la consapevolezza di essere «musulmani». E così via.
In questi casi (e il ragionamento vale per Muhammad, ma anche per Mosè o Gesù Cristo), l’acribia storica consiglia comunque una certa prudenza: le biografie dei grandi uomini del passato remoto, specie se benedette dal crisma divino, sono sempre un po’ agiografiche e/o, non raramente, trasmesse da fonti non troppo benevole di nemici e polemisti avversi. Crediamo però vero il fatto che un uomo, Muhammad Ibn ‘Abdallah Ibn ‘Abd al-Muttalib, sia vissuto a cavallo tra VI e VII secolo, abbia fondato una comunità politico-religiosa in Arabia e abbia consegnato la sostanza del suo messaggio (sospendendo il giudizio se si tratti o no di parola diretta di Dio) a un libro, il Corano, la cui verità oggettiva è dimostrata dal fatto che lo abbiamo tra le mani, e che questo libro, come il Vangelo (a prescindere dalla verosimiglianza molto dubbia di certi aspetti della biografia di Cristo), abbia per secoli operato a sollecitare e guidare l’azione dei credenti.

La successione a Muhammad e il problema del califfato

Orbene, stabilite queste premesse, è utile precisare subito che la scissione tra sunniti e sciiti che qui ci interessa ha origini strettamente politiche, che si sono poi ammantate di caratteri religiosi. Il nodo del contendere da cui tutto prese avvio fu la successione al Profeta Muhammad, la cui data di morte è tradizionalmente fissata al 632.1 Con Muhammad si chiudeva la profezia: convinzione condivisa dai sunniti e dalla stragrande maggioranza degli sciiti allo stesso modo. Rimaneva però aperto il problema politico: morto Muhammad, chi avrebbe dovuto guidare la comunità ormai solidamente installata in Arabia e pronta a espandersi fuori dai confini del deserto? Il Profeta non aveva figli maschi sopravvissuti e inoltre non aveva lasciato alcuna indicazione su chi dovesse succedergli, limitandosi a designare suo suocero Abu Bakr come leader della preghiera. O almeno questa fu l’opinione condivisa e più tardi sistematizzata dai sunniti, mentre gli sciiti elaborarono il racconto che Muhammad avrebbe designato a succedergli durante il pellegrinaggio dell’addio, effettuato pochi mesi prima di morire, ‘Ali,2 suo cugino, genero, ma soprattutto padre della sua unica progenie maschile, i figli di sua figlia Fatima, Hasan e Husayn.
Non siamo in grado, sulla base delle fonti, di decidere definitivamente quale delle due versioni sia corretta. Il fatto è che i compagni del Profeta, ancora caldo, per dir così, il suo cadavere, si riunirono per decidere il da farsi. Immediatamente emersero aspri contrasti tra gli emigranti meccani e gli aiutanti medinesi, ognuno dei quali pretendeva che l’onore e l’onere di guidare la Comunità spettasse al proprio gruppo. Gli emigrati meccani sbandieravano la propria fedeltà originaria al Profeta e la propria superiorità di lignaggio; gli aiutanti medinesi il fatto che senza il loro appoggio l’Islam non avrebbe trionfato. La rivalità era tribale e politica piuttosto che religiosa. La decisione cadde non senza contrasti e grazie all’intervento decisivo del prestigioso compagno ‘Umar, esponente in vista dell’aristocrazia meccana, su Abu Bakr, convertito della prima ora e suocero di Muhammad. È presumibile che ‘Ali sia rimasto profondamente deluso da questa decisione, che in realtà mirava a comporre le rivalità interne facendo convergere la scelta su un nome accettato da entrambe le parti in conflitto; il dato di fatto, comunque, è che ‘Ali non si oppose, tacque, accettando la decisione dell’assemblea.
Abu Bakr, che assunse il titolo di califfo, cioè di «vicario» o «sostituto» dell’inviato di Dio, regnò appena due anni (632-634) e, sul letto di morte, probabilmente rendendogli il «favore», designò ‘Umar, sotto il cui regno decennale (634-644) ebbe inizio la fulminea e vastissima espansione militare degli arabi in Siria, Mesopotamia, Persia ed Egitto. Anche questa volta ‘Ali rimase passivo, avallando col suo silenzio la scelta. Non abbiamo modo di sapere cosa davvero si agitasse nell’animo di ‘Ali, che certamente riteneva di avere superiori credenziali per accedere al califfato. Ancora una volta, il dato di fatto è che egli tacque.
Lo snodo cruciale avvenne quando ‘Umar, pugnalato a morte da uno schiavo per odio personale, onde evitare che la propria successione riattizzasse i conflitti intestini, istituì in limine mortis una commissione di sei membri, tutti alti esponenti della nobiltà meccana e compagni del Profeta, tra cui lo stesso ‘Ali, i quali avrebbero dovuto scegliere nel loro seno il nuovo califfo. Le circostanze e lo svolgersi dei fatti non sono pienamente chiariti anche perché le testimonianze sono contraddittorie; in ogni caso, dalla commissione emerse eletto ‘Uthman, della potente famiglia meccana degli Omayyadi, che era stata a suo tempo tra i principali avversari di Muhammad. ‘Uthman era a sua volta genero del Profeta. Per l’ennesima occasione le speranze di ‘Ali andarono deluse ed è probabile che costui questa volta si sia rinchiuso in uno sdegnato silenzio, anche perché, diversamente da Abu Bakr e ‘Umar, ‘Uthman proveniva da una famiglia e da un clan che erano stati acerrimi avversari dell’Islam nascente, per cui a buon diritto ‘Ali avrebbe potuto rivendicare una sua propria maggiore legittimità. Il procedimento istituito da ‘Umar va sotto il nome di shura o «consultazione» ed è divenuto uno dei pilastri del pensiero politico islamico classico sunnita. Partendo da un paio di allusivi versetti coranici (il più importante dei quali è: «I credenti nelle loro faccende decidono consultandosi vicendevolmente», Q. 42:38), il pensiero politico sunnita seriore sancì che la designazione califfale fosse elettiva, sulla base della «libera scelta» (ikhtiyar) del popolo che, col concorso consultivo dei suoi rappresentanti, gli ‘ulama, i dotti in scienze religiose, finiva per esprimere la sua accettazione (bay‘a) del governante. Si è qui sunteggiata in una frase una complessa dottrina su cui avremo modo di tornare perché in completa antitesi a quella sciita.
‘Uthman governò dodici anni (644-656) e, secondo la tradizione, il suo regno può essere diviso nettamente in due parti. Una prima in cui non emersero contrasti particolari, e una seconda in cui il califfo avrebbe ceduto alla corruzione e al nepotismo, favorendo nella designazione delle cariche e nella spartizione del bottino, in un impero che era sempre in fase di velocissima espansione, i membri della propria famiglia. Sia vero o no questo cedimento al nepotismo, l’immagine di ‘Uthman rimane opaca, anche se la storiografia contemporanea ne ha moderato le negatività. Gli sciiti, come si capirà ancor meglio tra breve, guarderanno a ‘Uthman come all’usurpatore per eccellenza dei diritti di ‘Ali, e ne malediranno la memoria. Cosa successe e soprattutto come avvennero i fatti è ancora una volta tutt’altro che chiaro, sempre a causa dell’ambiguità delle fonti. Quel che è certo è che nel 656 due gruppi di armati, provenienti l’uno dall’Iraq e l’altro dall’Egitto, assediarono ‘Uthman nella sua casa a Medina e finirono per ucciderlo. L’immagine drammatica tramandataci dalle fonti è quella del vecchio califfo che, trafitto da un colpo di lancia o spada, si accascia su un Corano aperto che stava leggendo, imbrattandone le sacre pagine col suo sangue. Un vero trauma: un parente stretto ed erede del Profeta che viene assassinato mentre sta pregando.
La tradizione riferisce che, non appena venne informato dell’uccisione di ‘Uthman, ‘Ali abbia alzato le mani al cielo invocando Dio come testimone della sua ignoranza del o non compromissione nel delitto. I maggiorenti presenti a Medina fecero convergere i loro voti su di lui ed egli finalmente poté essere nominato califfo, ma la situazione era gravida di incertezze. Il fatto è che ‘Ali né espresse chiaramente il proprio cordoglio per la morte del suo predecessore, né si affrettò a perseguirne con energia gli assassini. Immediatamente si fecero largo voci che ne sussurravano la connivenza nel crimine. Probabilmente è falso, ma, in ogni caso, un parente di ‘Uthman, Mu‘awiya Ibn Abi Sufyan, che era governatore di Damasco, rifiutò di riconoscere l’ascesa al trono di ‘Ali e sollevò la bandiera della ribellione.

‘Ali e la«fitna al-kubra». La falsificazione della coscienza islamica

La guerra civile tra ‘Ali e Mu‘awiya, la cosiddetta «grande discordia» nella terminologia di Hichem Djaït3 o «grande dissenso» (fitna al-kubra), durata dal 656 al 661, anno della morte di ‘Ali, anch’egli assassinato, ha rappresentato l’avvenimento più importante della storia dell’Islam dopo l’Egira (l’emigrazione di Muhammad da Mecca a Medina) per il suo potente valore simbolico e perché è l’avvenimento politico all’origine dello scisma tra sunniti e sciiti. Dal punto di vista simbolico, infatti, venivano al pettine i nodi degli aspri conflitti che, come abbiamo detto, avevano lacerato la comunità fin dagli inizi, ma questa volta con effetti devastanti: la comunità precipitava nella guerra civile, perdeva la sua compattezza, musulmani uccidevano musulmani (cosa proibitissima dal Corano, cfr. per esempio Q. 49:9-10), la benedizione e preferenza di Dio sembravano perdute. Se la comunità musulmana era «la migliore mai suscitata tra gli uomini» (Q. 3:110), come poteva dissolversi nella violenza? Insomma, sembrava venire messo in discussione lo stesso senso dell’identità islamica.
Dal punto di vista storico, è necessario seguire brevemente le vicende di ‘Ali. Il califfato di ‘Ali, a dimostrazione delle ombre che avevano accompagnato la sua elezione, non fu contestato solo da Mu‘awiya, ma anche da ‘Aisha, la moglie favorita del Profeta e figlia di Abu Bakr. ‘Aisha odiava ‘Ali perché questi l’aveva messa in cattiva luce presso Muhammad; si alleò perciò con due vecchi compagni del marito, Talha e al-Zubayr, quando anche costoro decisero di ribellarsi al califfo. ‘Ali riuscì a sconfiggere la coalizione nella cosiddetta «battaglia del cammello» del dicembre 656 e, da quel momento, della volitiva ‘Aisha si perdono le tracce, mentre un figlio di al-Zubayr più tardi creerà un contro-califfato opponendosi ai primi Omayyadi. Quanto a Mu‘awiya, costui e ‘Ali giunsero a uno scontro potenzialmente risolutivo a Siffin in Iraq nel 657, ma, allorché le sorti della battaglia sembravano volgere a favore del califfo in carica, i partigiani di Mu‘awiya inventarono uno straordinario stratagemma: infilzarono sulle punte delle lance dei loro soldati fogli del Corano per indicare che la decisione della contesa spettava a Dio. Invocavano cioè un arbitrato, di cui Dio in persona sarebbe stato il giudice. ‘Ali cadde nella trappola e accettò l’arbitrato. Il suo atteggiamento «rinunciatario» venne duramente stigmatizzato da alcuni suoi sostenitori, che lo abbandonarono accusandolo di tradimento e di peccato. Si tratta dei Kharijiti o «uscenti» (dalla fedeltà ad ‘Ali), i quali teorizzarono che il peccatore, se capo dello Stato, andava combattuto senza tregua e al limite ucciso. L’arbitrato si tenne comunque nel 658 a Dumat al-Jandal, ma i convenuti dettero torto ad ‘Ali, il quale aveva posto la sua fiducia in un uomo retto e irreprensibile che, appunto per ciò, finì per pronunciarsi contro di lui, a prescindere dal suo buon diritto, mentre Mu‘awiya si era accortamente affidato a un fedelissimo. ‘Ali, ovviamente, rifiutò di riconoscere il verdetto e la guerra civile riprese violentissima. È difficile sapere come si sarebbe conclusa se, nel 661, un kharijita, obbedendo al principio che il peccatore fosse un miscredente (kafir) e andasse eliminato, non avesse pugnalato a morte ‘Ali mentre usciva dalla moschea di Kufa. Morendo, ‘Ali disse di subire volentieri il suo destino e di essere contento di divenire un martire poiché il martirio era sempre stato la sua più profonda aspirazione. Mu‘awiya, rimasto unico pretendente al califfato, ebbe dunque la meglio e inaugurò la dinastia degli Omayyadi (661-750).
Crediamo siano immediatamente comprensibili le implicazioni di queste complesse vicende. La fitna al-kubra è diventata un vulnus profondissimo nella coscienza musulmana e, fino a oggi, non vi è serio storico o filosofo musulmano della politica che non abbia voluto dare la sua interpretazione della fitna. Ne ricordiamo almeno tre: Muhammad ‘Abid al-Jabiri (m. 2010), Nasr Abu Zayd (m. 2010) e Burhan Ghalioun (vivente).4 Secondo tutti e tre questi prestigiosi intellettuali, sia pure con modulazioni diverse, la fitna ha rappresentato la «falsificazione» della coscienza musulmana, in quanto ha visto la strumentalizzazione della religione da parte della politica: ‘Ali e Mu‘awiya avrebbero combattuto una guerra per fini del tutto mondani ammantandola però di panni religiosi. Nelle parole di Abu Zayd che costituiscono un’interpretazione di tutto il processo che abbiamo descritto, anzi oltre:
Tutti i conflitti che hanno contrapposto i musulmani tra loro hanno continuato a essere considerati come conflitti che riguardavano interessi secolari, e non come conflitti di fede. Il primo gruppo ad aver posto l’accento sul principio di sovranità strumentalizzando i testi religiosi sono stati gli Omayyadi. Mu‘awiya, futuro califfo e fondatore della dinastia, nella battaglia di Siffin ordinò ai suoi uomini di brandire una copia del Corano infissa sulle punte delle spade, invocando in tal modo il diritto di arbitrato sul testo divino. … Questo episodio segna già l’inizio di un processo di manipolazione della coscienza dei fedeli a opera di una fazione politica in cerca di legittimazione. E l’orientamento omayyade resterà la prospettiva dominante in tutti i tipi di discorsi religiosi che sosterranno i regimi privi di legittimazione nel corso della storia delle società islamiche. Il potere omayyade aveva bisogno di fondare la propria legittimità su basi religiose che si armonizzassero con il principio di sovranità. Da ciò il ricorso al principio del jabr («fatalità») che imputa l’azione umana e tutto ciò che accade nel mondo al potere divino e alla sua volontà agente.5
È subito, in sintesi, da rilevare il nodo cruciale del discrimine tra sunniti e sciiti. Mentre i sunniti ritengono che la successione califfale da Abu Bakr a Mu‘awiya e gli Omayyadi (passando comunque per ‘Ali) sia stata legittima, e che anzi i primi quattro califfi siano stati «ben guidati» (rashidun) da Dio, gli sciiti considerano Abu Bakr, ‘Umar e soprattutto ‘Uthman e ovviamente Mu‘awiya come degli usurpatori. ‘Ali sarebbe dovuto succedere direttamente a Muhammad e dopo ‘Ali la guida della comunità islamica sarebbe spettata ai figli suoi e di Fatima, Hasan e Husayn, la discendenza carnale del Profeta. Questo discrimine conoscerà ulteriori sviluppi che alimenteranno nello sciismo la prospettiva della sofferenza e del martirio, come diremo nel paragrafo successivo. Ma intanto è da ribadire fortemente come gli sciiti ritengano la vicenda del primo Islam, dopo Muhammad che rimane comunque intoccabile, inquinata e deviata da un «tradimento» di quelle che sarebbero state le indicazioni di Dio stesso, che avrebbe suggerito al Profeta di designare come suo successore il cugino e genero.
Questi grovigli politici, intessuti di accuse reciproche tra le parti in causa, hanno avuto riflessi nello stesso Corano. La tradizione musulmana maggioritaria, quella sunnita, ritiene che il Corano sia stato messo per iscritto nella sua forma definitiva proprio sotto ‘Uthman. È facile immaginare che gli sciiti abbiano sostenuto che ‘Uthman e i suoi accoliti si sarebbero ingegnati a sottacere o a cancellare gli accenni favorevoli ad ‘Ali che il Corano originario avrebbe contenuto. L’operazione, però, non sarebbe riuscita perfettamente. Per esempio, sempre secondo gli sciiti, il versetto coranico 33:33 alluderebbe alla speciale eccellenza di ‘Ali, di sua moglie Fatima e dei loro figli: «Dio ha voluto che foste immuni da ogni sozzura, o gente della casa del Profeta». E ancora, il versetto 75:17 nella Vulgata di ‘Uthman suona: «Sta a noi (‘alayna [Dio]) raccoglierlo [il Corano]». La versione sciita suona invece, modificando la vocalizzazione: «Sta al nostro ‘Ali (‘aliyyuna) raccoglierlo». Del resto, una tradizione sciita vuole che proprio ‘Ali avrebbe redatto una sua versione del Corano, ovviamente più precisa di quella di ‘Uthman, che poi sarebbe andata distrutta o perduta. Può sembrare sorprendente o paradossale al lettore comune che gli sciiti continuino comunque a pregare col Corano di ‘Uthman. Il fatto è che, da un lato, sarebbe impossibile negare la veridicità di tutto quanto, in un modo o nell’altro, deriva dal Profeta; mentre, dall’altro, non ci sono alternative reali: la Vulgata di ‘Uthman, sia pure con lievi varianti di lettura, è ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Lo scisma della mezzaluna
  5. Introduzione
  6. 1. Sunniti e sciiti: alle origini della divisione
  7. 2. Lo sviluppo storico del potere nella comunità islamica
  8. 3. L’età moderna e contemporanea: la politicizzazione dell’Islam
  9. 4. La svolta sciita di Khomeini e la reazione sunnita
  10. 5. Il Medio Oriente dopo Saddam Hussein e il risveglio dello sciismo politico
  11. 6. Le Primavere arabe e il disegno egemonico saudita-sunnita
  12. Conclusioni
  13. Note
  14. Gli autori
  15. Copyright