I ladri di libri di Timbuctu
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I ladri di libri di Timbuctu

Una città leggendaria e la corsa per salvare i suoi tesori

  1. 368 pagine
  2. Italian
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I ladri di libri di Timbuctu

Una città leggendaria e la corsa per salvare i suoi tesori

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Sorta all'estremità meridionale delle rotte carovaniere che attraversavano Marocco e Libia, nell'odierno Mali, la città di Timbuctù è sempre stata circondata da un alone di mistero: già nel Cinquecento, le voci sulla straordinaria magnificenza dei suoi edifici e sulle favolose ricchezze dei suoi abitanti avevano oltrepassato il deserto e raggiunto l'Europa, contribuendo a creare la leggenda di una Nuova Gerusalemme. Una leggenda rinvigorita dal ritrovamento nel 1853 di un prezioso manoscritto del XVI secolo, il Tarikh al-Sudan (Cronaca del Sudan), che raccontava di una «città virtuosa, pura, fiera e incontaminata, che non aveva eguali nella terra dei Neri». Ritenuti per oltre un secolo documenti storicamente attendibili, questo e migliaia di manoscritti analoghi sono invece un sublime esempio di letteratura africana, che rivelano l'assoluta originalità intellettuale di un continente troppo a lungo sottovalutato dalla cultura occidentale. Essi rappresentano quindi per il Mali un patrimonio di valore inestimabile, gelosamente custodito in biblioteche e in fondi privati e gravemente minacciato, nel 2012-13, dalla guerra civile e dalla furia iconoclasta del terrorismo jihadista.

Proprio ai rocamboleschi tentativi di salvaguardare questa preziosa eredità dalla distruzione - sorte già toccata a numerosi mausolei e luoghi di culto locali - è dedicato il libro del giornalista Charlie English, che racconta l'avventura vissuta, loro malgrado, da tre bibliotecari di Timbuctù. Mentre la città è nelle mani dei guerriglieri di AQIM (al-Qaeda nel Maghreb Islamico) e nel mondo si diffonde la falsa notizia che avrebbero dato alle fiamme i più antichi reperti scritti dell'Africa occidentale, i tre eroi per caso si improvvisano emuli di James Bond e Arsenio Lupin e, a rischio della vita, organizzano il «furto» di un'impressionante mole di documenti, stivandoli in centinaia di bauli e nascondendoli in luoghi sicuri.

Tra colpi di scena, conflitti a fuoco, traversate notturne su fragili imbarcazioni inquadrate dai fari degli elicotteri e dai mirini dei kalashnikov, si snoda una vicenda di cronaca che ha l'aspetto e la dinamica del più serrato film d'azione, ma che è nata dal profondo amore di un popolo per la propria storia e, forse, anche dal desiderio inconsapevole di continuare a tramandare nei secoli il mito di Timbuctù la Mystérieuse.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852080418
Argomento
History
Categoria
World History
Terza parte

LIBERAZIONE

… doveva pur esserci qualcuno che accumulasse e mettesse da parte, in un modo o nell’altro, in libri, registri, nella memoria degli uomini, in qualunque altro modo, purché sicuro o al riparo da tarme, pesciolini d’argento, ruggine e tarli e uomini armati di fiammiferi.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451
XII

Vite degli eruditi

1854-1865
Gli estratti dal Tarikh al-sudan che Heinrich Barth aveva ricopiato a Gando non raggiunsero l’Europa fino alla fine dell’anno seguente, dopo un tortuoso viaggio attraverso il deserto. Il compito di ricostituire almeno parzialmente il manoscritto sulla base degli appunti dell’esploratore di Amburgo ricadde su Christian Ralfs, un arabista tedesco che trascorse buona parte dell’inverno 1854-55 a cercare di sbrogliare i frammenti ricevuti. Mancavano interi capitoli del testo e anche l’arabo era goffo, talora sgrammaticato. Nondimeno, all’inizio della primavera Ralfs pensava di aver messo a punto una fedele traduzione dei punti principali degli estratti di Barth, che furono pubblicati nei mesi seguenti sulla rivista della Società Orientalistica Tedesca. L’esploratore stesso non aveva ancora fatto ritorno dall’Africa.
Questi nuovi «Contributi alla storia e alla geografia del Sudan» occupavano settantasei pagine, trentanove delle quali dedicate alle abbondanti note in calce dei due. Secondo l’opinione dell’arabista, il testo dimostrava la povertà estrema di tutti i precedenti contributi alla conoscenza dell’Africa occidentale, compresi quelli del famoso esploratore marocchino Ibn Battuta e di Leone l’Africano. A dispetto dei fugaci accenni di quest’ultimo al sovrano songhai, la cronaca appena scoperta rivelava un impero potente guidato da una dinastia, gli askiya, di cui aveva fatto parte il «possente conquistatore» Askiya al-hajj Muhammad. Questo era solo un esempio della ricchezza di nuove informazioni storiche che ora consentivano agli europei di far luce sulla storia di «un mondo completamente ignoto e ormai estinto».
A Barth avevano detto che l’autore della cronaca era Ahmad Baba, e in parte era così, comprendendo lunghi estratti del Kifayat al-muhtaj, il suo dizionario biografico di eruditi malikiti. A dire di Ralfs, tuttavia, l’esploratore non aveva colto alcuni riscontri che puntavano inequivocabilmente alla vera identità dell’autore, Abd al-Rahman ibn Abd Allah al-Sadi. Nato il 28 maggio 1594 da una famiglia di Timbuctù, fra il 1626 e il 1627 al-Sadi era stato nominato imam della moschea di Sankore a Djenné. Dieci anni dopo aveva fatto ritorno a casa, assolvendo alle funzioni di imam e di guida politica nella sua città natale. La sua cronaca, scritta in arabo, contava trentotto capitoli, alcuni dei quali basati su testi precedenti, altri su osservazioni dirette dell’autore e testimonianze da lui raccolte. La traballante grammatica del testo aveva indotto gli storici a ritenere che la lingua madre dell’autore non fosse l’arabo, bensì il songhai, mentre lo stile ricordava talora le fiabe dei fratelli Grimm o delle Mille e una notte.
A corto di tempo e ansioso di colmare le enormi lacune della conoscenza europea, Barth aveva ricopiato più dati che poteva, concentrandosi su quelle parti della cronaca che contenevano elenchi di sovrani, date certe e imperi identificabili. Insomma, un quadro generale del flusso degli eventi storici.
Il Tarikh prendeva le mosse da un elenco di antichi sovrani songhai, la dinastia Zuwa, per poi narrare il mito fondatore del loro regno. Primo di questi regnanti era stato Zuwa Alayaman che, lasciato il natio Yemen per girare il mondo insieme al fratello, era giunto affamato, coperto solo da logore pelli di animale, a Kukiya, «antica città» che sorgeva sul Niger e le cui origini, stando alla cronaca, risalivano all’epoca degli antichi egizi: proprio da qui, si narra, il faraone aveva convocato il consesso di maghi cui aveva fatto ricorso nella sua controversia con Mosè. Quando gli abitanti della città chiesero ai forestieri il loro nome, uno dei due fratelli, non avendo capito la domanda, rispose che venivano dallo Yemen (jaa min al-yaman). Così la popolazione di Kukiya, che aveva difficoltà a pronunciare le parole arabe, lo chiamò Zuwa Alayaman.
La gente di questa terra adorava un demone che appariva nel fiume sotto forma di pesce con un anello al naso. In quelle occasioni una folla si radunava ad ascoltare i suoi ordini, cui tutti ubbidivano. Dopo aver assistito alla cerimonia, Zuwa Alayaman decise di liberare gli abitanti da quella superstizione e di uccidere la creatura arpionandola. E così fece. Poco dopo la popolazione giurò fedeltà al carnefice del dio-pesce e lo proclamò re. E «Zuwa» divenne il titolo di tutti i principi che regnarono dopo di lui. «Proliferarono e si moltiplicarono al punto che solo Dio Onnipotente sa quanti siano diventati» narrava al-Sadi. «Si distinguevano per forza, ardimento e coraggio, per l’alta statura e il corpo massiccio.»
In tempi successivi, le terre di Songhai furono soggiogate dal Mali, l’impero che prese il posto dell’antico Ghana nel Sudan occidentale, ma il regno conquistò l’indipendenza grazie a due principi di Songhai, i fratellastri Ali Kulun e Silman Nari. Era tradizione che i principi degli Stati vassalli come Songhai prestassero servizio nelle forze dell’imperatore maliano, e che ogni tanto scomparissero per andare in cerca di fortuna. Ali Kulun, «principe di grande ingegno e intelligenza», aveva altro in mente: la liberazione del proprio regno. Preparò sapientemente il terreno, spingendosi sempre più lontano dalla corte del sultano e avvicinandosi progressivamente alla terra natia, approntando lungo la strada depositi segreti di armi e provviste. Una notte i fratelli diedero da mangiare ai loro cavalli del cibo particolarmente corroborante e poi scapparono. Il sultano del Mali inviò molti uomini all’inseguimento dei fuggitivi e si registrarono parecchi scontri, ma i principi riuscirono sempre a sbaragliare gli avversari e raggiunsero la patria sani e salvi. In seguito, stando alla cronaca, Ali Kulun divenne re di Songhai, prese il titolo di «Sunni» e liberò il suo popolo dal giogo maliano.
Alla nascita di Timbuctù, al-Sadi dedicava un intero capitolo. Il primo insediamento, scriveva, fu fondato all’inizio del XII secolo da genti tuareg venute nella regione a far pascolare le proprie greggi. In estate si accampavano sulle rive del fiume e in autunno migravano verso le oasi di Arawan, 240 chilometri più a nord. A un certo punto alcuni di loro decisero di insediarsi stabilmente lungo questo itinerario, a breve distanza dal fiume:
Fu così che scelsero l’ubicazione di questa virtuosa, pura, incontaminata e magnifica città, baciata dalla benevolenza divina, dal clima mite e dall’attività [commerciale]: il luogo dove sono nato e cui agogna il mio cuore. È una città libera dall’idolatria, dove mai nessuno si è prosternato se non a Dio Compassionevole, rifugio di sapienti e di giusti, ritrovo di santi e di asceti, e punto d’incontro di battelli e di carovane.
I viaggiatori che passavano da questo crocevia cominciarono ben presto a usarlo come deposito. I mercanti affidavano utensili e granaglie alla sorveglianza di una schiava chiamata Tinbuktu – termine che, a dire di al-Sadi, indicherebbe un individuo con un «bernoccolo» o con l’ombelico sporgente – da cui quel luogo benedetto avrebbe preso il suo nome. Numerosi coloni vi giunsero dalle regioni vicine – da Walata, principale fulcro mercantile dell’antico Ghana, nell’odierna Mauritania, e anche da Egitto, Fezzan, Gadames, Tuat, Fez, Sus e Bitu – e a poco a poco Timbuctù divenne il perno commerciale della regione. Convergevano lì carovane da ogni paese, e accoglieva in gran numero eruditi e pellegrini di ogni razza. La prosperità della città assorbì l’intero traffico carovaniero da Walata, e fu all’origine della rovina di quest’ultima. Frattanto, a Timbuctù le capanne di paglia circondate da recinti furono a poco a poco sostituite da case d’argilla cinte da un muricciolo oltre il quale si poteva vedere da fuori quel che accadeva all’interno.
Lo sviluppo della città conobbe un rapido incremento dopo il pellegrinaggio di Mansa Musa nel 1325. Sulla via del ritorno dalla Mecca, Musa – «uomo la cui devozione e rettitudine non conoscevano eguali tra gli altri sultani del Mali» – ordinò la costruzione di una moschea ovunque si trovasse di venerdì. Ne fece edificare una a Gao, dopodiché proseguì a ovest verso Timbuctù, diventando il primo sovrano a prenderne possesso. Vi insediò un suo rappresentante, ordinò la costruzione di un palazzo reale e – proseguiva al-Sadi – si narra che avesse fatto innalzare anche il minareto della moschea di Jingere Ber. Musa e i suoi successori governarono Timbuctù per cento anni.
Secondo al-Sadi, la potenza maliana decadde nel corso del XV secolo. Fu un capo tuareg, il sultano Akil, a dominare la città dal 1433-34 fino all’ascesa del sovrano songhai Sunni Ali, che regnò per ventiquattro anni a partire dal 1468-69. Sempre stando ad al-Sadi, si trattava di un tiranno che perseguitò gli eruditi della città, ma anche di un uomo di forza fisica ed energia eccezionali, che trasformò il proprio regno songhai in un grande impero. Dopo la sua morte, il figlio fu deposto da uno dei governatori regionali del padre, Muhammad ibn Abi Bakr al-Turi, che salì al trono nel 1493 e fu il primo ad assumere il nome di «Askiya». Per Askiya al-hajj Muhammad, meglio noto come Askiya il Grande, al-Sadi aveva solo parole di encomio. Fondatore di una dinastia, allargò ulteriormente le conquiste del predecessore fino a fare del regno songhai il più vasto impero che si fosse mai visto in Africa occidentale, le cui terre si estendevano su un’area pari a quella dell’Europa occidentale dal fiume Senegal, a ovest, ad Agadez a est, e dalle cave di sale di Taghaza a nord all’estremità meridionale di Borgu. Il regno degli Askiya sarebbe durato centouno anni, fino a quando il sultano di Marrakesh spedì un esercito attraverso il deserto conquistando le terre songhai.
Barth attribuiva al Tarikh al-sudan un’incommensurabile rilevanza. «Non esito ad affermare che [la cronaca] risulterà uno dei più importanti contributi dell’epoca presente alla storia dell’umanità in un ambito rimasto finora quasi del tutto ignoto» scriveva. Gli estratti dimostrarono che Timbuctù aveva ospitato una società ricca e sofisticata capace di produrre un proprio resoconto del passato, e consentirono finalmente all’Europa di conoscere ben più dei fatti isolati di cui avevano preso nota visitatori stranieri dell’impero quali al-Bakri, Ibn Khaldun e Leone l’Africano. Sovvertirono altresì molte idee europee riguardo a quella parte d’Africa: i regni della regione occidentale erano molto più antichi di quanto si fosse ritenuto; ne venne finalmente determinata con precisione l’ubicazione geografica, e andò infine completandosi la cronologia degli antichi imperi ghanese, maliano e songhai.
A dispetto degli inevitabili infiorettamenti e delle numerose storie basate su racconti orali e leggende (il pesce-dio traeva forse origine dal lamantino, reale creatura del Niger, o era una semplice incarnazione dello stesso fiume sacro?), la cronaca costituiva indubbiamente un’opera di storia, e il suo scopritore sarebbe divenuto il padre fondatore degli studi sulla cultura songhai.
Al termine della traduzione, Ralfs formulava a Barth il più fervido augurio di tornare sano e salvo per poter godere della «reverenza e dell’ammirazione» che meritava.
L’esploratore raggiunse Londra il 6 settembre 1855, in compagnia di Dorugu e Abbega, gli schiavi che Overweg aveva acquistato e affrancato, e di cui Barth aveva promesso di occuparsi. I due restarono sbalorditi dall’Inghilterra, paese dalle case imponenti ma senza un briciolo di sabbia. Tornato dopo quasi cinque anni e mezzo e un viaggio di oltre 16.000 chilometri, annotando nel proprio taccuino ogni villaggio, tribù e caratteristica geografica incontrati lungo la strada, il prussiano fu «ricevuto con estrema cortesia» da Lord Palmerston, divenuto frattanto primo ministro, e da Lord Clarendon, nuovo ministro degli Esteri. Quest’ultimo si congratulò con lui per la «forza d’animo, la perseveranza e l’assennatezza» dimostrate durante la spedizione.
Il «Times», che aveva pubblicato la falsa notizia della morte di Barth, non fece alcun accenno al ritorno dell’esploratore. Nei decenni a venire, questa e ulteriori testate avrebbero riservato lodi a profusione ad altri esploratori del continente nero come Livingstone, Burton, John Hanning Speke, James Grant e Samuel Baker. A Barth, i giornali non dedicarono alcun interesse, presagio dell’indifferenza che gli avrebbe riservato l’opinione pubblica.
Il 1° ottobre egli lasciò l’Inghilterra per fare ritorno dalla famiglia ad Amburgo, con Dorugu e Abbega al seguito.
Mentre Barth si trovava in Germania, apparivano in Europa alcuni estratti di un’altra importante opera di un erudito di Timbuctù. Provenivano dal dizionario biografico dei sapienti dell’Islam malikita di Ahmad Baba, Kifavat al-muhtaj, la stessa opera la cui parziale inclusione nel Tarikh al-sudan aveva alimentato la confusione sulla paternità della cronaca. Barth aveva letto questo materiale, ma, nella fretta di annotare i dati storici, non l’aveva ricopiata. Ora, due versioni del testo erano state inviate ad Auguste Cherbonneau, illustre orientalista francese che pubblicò la traduzione di alcune parti nell’«Annuaire de la Societé Archéologique de la Province de Constantine», unitamente a un saggio introduttivo sulla letteratura araba del Sudan.
Il dizionario di Baba aveva suscitato in Cherbonneau un entusiasmo analogo a quello provato da Barth per la cronaca: era «la straordinaria e inattesa rivelazione di un movimento letterario a Timbuctù, nel cuore dell’Africa!», scriveva, in grado di aprire «nuovi orizzonti» del tutto insospettati in Europa. Il libro conteneva numerose sintetiche biografie di eminenti eruditi della setta malikita, la maggior parte dei quali nati a Timbuctù o che qui erano venuti a insegnare. Il testo rivelava l’esistenza di un sistema educativo paragonabile a quello presente nelle grandi città islamiche di Cordova, Tunisi e del Cairo, con scuole amministrate da dotti e frequentate da un gran numero di studenti. Attestava che nella città esistevano considerevoli biblioteche contenenti centinaia di libri e illustrava come la classe colta venisse alacremente sostenuta dai principi del paese. L’opera di Baba, scriveva Cherbonneau, dimostrava né più né meno che la partecipazione delle razze di pelle nera alla vita intellettuale, e rivelava il pressoché infinito numero di contatti esistenti fra il Sudan occidentale e il mondo arabo.
Grazie a una lettura congiunta degli estratti dal dizionario di Baba e di quelli provenienti dalla cronaca di al-Sadi, gli europei avevano ora un quadro ben chiaro dell’élite intellettuale di Timbuctù.
A metà del XIV secolo la città era un ragguardevole centro commerciale e innumerevoli studiosi vennero gradualmente a stabilirvisi. All’apice della sua fioritura, i vertici della società erano costituiti da due-trecento eruditi provenienti dalle più importanti famiglie locali. Massimi esponenti di questa élite erano i qadi, che amministravano la giustizia in base alla propria conoscenza della legge islamica. Seguiva ogni sorta di venerabili figure, tra cui imam, giuristi e consiglieri, provenienti perlopiù dall’agiata classe mercantile, nonché insegnanti, scrivani e custodi delle moschee, oltre a un gran numero di alfa, eruditi di umili origini che si guadagnavano da vivere grazie alla propria istruzione islamica. Fulcro della vita intellettuale della città era il quartiere di Sankore, e fu qui che si stabilirono gli autorevoli discendenti di Muhammad Aqit, trisavolo di Ahmad Baba. La classe erudita di Timbuctù era regolarmente in contatto con il Nordafrica e con l’Egitto, e molti furono gli scambi e i viaggi di studio in un senso e nell’altro; essa aveva dunque familiarità con un ampio ventaglio di scienze secolari, tra cui matematica, storia e astronomia, benché tali conoscenze venissero impartite in un contesto islamico.
Gli eruditi più illustri della città non erano considerati semplici maestri e capi religiosi: si attribuiva loro una grazia divina, o baraka, che li metteva in condizione di compiere imprese impossibili ai comuni mortali. Uno dei più antichi santoni menzionati da Baba, noto con il semplice nome di al-Hajj, era giunto a Timbuctù da Walata e aveva assolto alla funzione di qadi all’inizio del XV secolo, durante l’ultimo periodo di dominio maliano. Un giorno, alcune persone sedute a mangiare udirono che l’esercito del vicino regno di Mossi si stava avvicinando alla città. Al-Hajj mormorò qualcosa sopra il piatto comune e ordinò a tutti di mangiare. Poi disse: «Andate e combattete. Le loro frecce non vi feriranno». L’armata di Mossi fu respinta e tutti gli uomini fecero ritorno eccetto uno: il genero di al-Hajj che, per non mancare di rispetto al suocero condividendo il pasto con lui, non aveva toccato cibo.
A metà del XV secolo, quando sulla città dominava il capo tuareg Akil, l’influsso della classe erudita islamica raggiunse nuove vette. Akil e il suo popolo continuarono a seguire il proprio stile di vita seminomade fuori dalla città, lasciando Timbuctù alle cure di un governatore che si adoperò per promuoverne le attività accademiche. Tra le figure più illustri giunte in città in questo periodo vi fu Modibbo Muhammad al-Kabari. Stando ad Ahmad Baba, a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I ladri di libri di Timbuctù
  4. Prologo. Un uomo d’ingegno e di ardimento
  5. Parte prima. OCCUPAZIONE
  6. Parte seconda. DISTRUZIONE
  7. Terza parte. LIBERAZIONE
  8. Epilogo
  9. Note
  10. Fonti bibliografiche
  11. Ringraziamenti
  12. Inserto fotografico
  13. Copyright