Banche impopolari
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Banche impopolari

Inchiesta sul credito popolare e il tradimento dei risparmiatori

  1. 224 pagine
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Banche impopolari

Inchiesta sul credito popolare e il tradimento dei risparmiatori

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Negli ultimi anni, oltre 500.000 soci delle banche popolari italiane hanno dimezzato il valore delle loro azioni in Borsa, e in Veneto hanno perso tutto. Inoltre 373.000 hanno oggi in mano titoli non quotati invendibili, che domani, forse, liquideranno a una frazione del prezzo d'acquisto. Qualche obbligazionista ha perfino dovuto ripianare le perdite degli istituti, senza contare il danno collaterale di decine di miliardi di depositi sottratti al territorio e al credito.

Così, dopo oltre un secolo di glorioso sostegno alle economie dei campanili, quelle locali sono diventate «banche impopolari». Non solo per la crisi finanziaria e la recessione. Anche per le condotte di tanti banchieri, favorite da uno stile di governo obsoleto che, facendo valere in assemblea il principio «una testa, un voto», ha tenuto lontani i grandi investitori e generato potentati creditizi quanto mai opachi. Da qui sono partiti discutibili assalti al cielo per costruire colossi nazionali a suon di acquisizioni, prestiti facili e bilanci condiscendenti. E proprio la degenerazione del modello popolare ha contribuito a rendere l'azione di controllo di Banca d'Italia e Consob poco efficace. Le crisi bancarie di Arezzo, Montebelluna, Vicenza – dove lo Stato è dovuto intervenire per evitare il crac – e i casi di Bari, Bergamo, Marostica, Milano, Verona hanno condotto al crepuscolo il modello cooperativo.

Nel 2015 il governo Renzi ha avuto buon gioco a imporre una riforma che si attendeva da decenni, spingendo le dieci maggiori popolari a trasformarsi in Spa, per favorirne l'accesso al mercato dei capitali e aumentare le aggregazioni in un sistema frammentato. Ma la riforma ha i tratti di un'incompiuta: criticata dal Consiglio di Stato, osteggiata o realizzata solo in parte dagli interessati, «impopolare» per i clienti-soci perché, nel peggiorato contesto finanziario globale, rischia di aggravare le malattie che intendeva curare.

Nel loro viaggio dentro la crisi del sistema creditizio locale, Andrea Greco e Franco Vanni descrivono l'evoluzione, i retroscena, i colpi di teatro e le ambizioni frustrate dei protagonisti del «romanzo bancario popolare» italiano, e raccontano come un perverso intreccio di potere e denaro, risparmio e speculazione, abbia finito per trasformare le popolari da volano di territori e borghesie operose in infernali macchine mangiasoldi.

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Informazioni

I

Il disastro del Nordest: Vicenza, Veneto Banca, Marostica

Morte a Vicenza

La vita di Antonio Bedin, 67 anni, finisce alle sei di sera di mercoledì 15 giugno 2016. Un colpo di pistola al petto. «Il suicidio è l’unica ipotesi di lavoro» riferiscono il giorno stesso in procura a Vicenza, primo vagito di un’inchiesta appena nata e già destinata all’archiviazione. Il corpo di Bedin viene trovato nella sua casa di Montebello Vicentino, paese di 6000 abitanti. Un appartamento semplice e ordinato, con tanti libri e nessun mobile costoso. Operaio per una vita alla ditta Feroli, fino a diventare perito tecnico, Bedin in azienda aveva fatto la «carriera orizzontale» che i vecchi comunisti concedevano a se stessi. Nei decenni aveva rifiutato ogni promozione, chiedendo ai superiori di potere cambiare nel tempo mansioni, convinto com’era che un buon comunista dovesse essere anzitutto un buon operaio. Negli anni Ottanta il taciturno Antonio era stato anche segretario del Pci nel paese. Intanto, lavorando, era riuscito a risparmiare. A partire dagli anni Novanta, Bedin aveva acquistato regolarmente azioni della Banca popolare di Vicenza, come quasi tutti a Montebello. Un lento e meticoloso accumulo costruito stipendio dopo stipendio, che lo aveva portato a mettere insieme un piccolo tesoro in titoli di Bpvi. «Antonio credeva nella banca, come tutti qui in paese. Imprenditori, operai, democristiani e comunisti. Ognuno aveva i suoi progetti, le sue idee, e per realizzarli si affidava alla banca. Su una cosa eravamo tutti d’accordo: i soldi si mettevano nella Popolare, perché era solida ed era nostra» dice Elisa Tonelato, classe 1980, impiegata a Vicenza. I suoi genitori erano buoni amici di Bedin. La famiglia Tonelato nel crac della Popolare ha perso molto. Gli ultimi spiccioli rimasti in cassa, Elisa li ha spesi per sposarsi. Una festa semplice, in paese, a cui Antonio Bedin sarebbe stato invitato se non fosse morto tre mesi prima.
Malato di cuore e con problemi di deambulazione, Bedin dopo i 60 anni aveva cominciato a fare affidamento sulle azioni Bpvi, nella speranza che i rendimenti promessi gli avrebbero consentito di integrare la pensione. Questo racconta chi lo conosceva bene. Se con la salute le cose si fossero messe davvero male, quei titoli avrebbe potuto addirittura venderli, pensava Bedin. L’obiettivo era pagare la retta di una casa di riposo dignitosa, dove potere passare gli ultimi anni di vita. Alla fine del 2014 i titoli di cui Bedin era proprietario erano arrivati a valere 400.000 euro, stando a quanto riferiscono i familiari. «Antonio era un uomo solitario e meticoloso. Risparmiava, badava ai suoi cani, si preparava alla vecchiaia» racconta la cognata, che gli è stata vicina negli ultimi difficilissimi mesi seguiti al terremoto che nell’inverno 2015 ha travolto i piccoli azionisti della Popolare di Vicenza.
Non fosse per il finale tragico, la storia di Bedin sarebbe identica a quella di tanti dei 118.000 soci della banca vicentina, che dall’oggi al domani si sono trovati in mano titoli privi di valore. Un crollo repentino. Prima da 62,50 a 48 euro, con la svalutazione decisa dalla stessa banca l’11 aprile 2015, dopo anni di prezzi gonfiati. Un anno dopo, il tonfo finale, con i titoli rastrellati ad appena 10 centesimi l’uno dal Fondo Atlante, dopo un tentativo di vendita sul mercato andato deserto. Il patrimonio di Bedin è così crollato da 400.000 euro a 640 euro complessivi. «Antonio, che già era depresso e non stava bene, si è trovato in mano un pugno di mosche» dice la cognata. Un pugno di mosche. La stessa espressione usata dai parenti di Luigino D’Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si è tolto la vita nel dicembre 2015 dopo avere scoperto che i 110.000 euro investiti in obbligazioni subordinate di Banca Etruria erano diventati carta straccia. Le obbligazioni subordinate si chiamano così proprio perché, in caso di crac dell’istituto, il loro pagamento è subordinato a quello di altri titoli più solidi, come le obbligazioni ordinarie. Quindi chi le possiede va in coda nella lista dei creditori che devono essere risarciti. In pratica, molto difficilmente si vedono restituire i loro soldi. Questo è successo a Luigino D’Angelo e a migliaia di piccoli investitori di Banca Etruria.
Da Arezzo a Montebello Vicentino, fino a Montebelluna, sede di Veneto Banca. Stesse parole, per descrivere tragedie simili. «Un pugno di mosche. Avevo in mano solo un pugno di mosche, che se apri la mano volano via e non ti resta più niente» scrive ai quotidiani nel settembre 2016 un pensionato montebellunese. È uno degli 87.502 soci di Veneto Banca il cui valore dei titoli nella primavera 2016 è precipitato da un massimo di 40,75 euro per ogni azione a 10 centesimi. E nella lettera ai giornali aggiunge: «Se non fosse stato per i miei figli, che mi hanno consolato e sostenuto, avrei fatto qualcosa di stupido e terribile».
Per prevenire i suicidi fra chi ha perso tutto o molto, prima con la crisi economica cominciata nel 2008 e poi con il crac delle due grandi banche popolari non quotate del Nordest nel 2015, la Regione Veneto ha attivato un servizio di sostegno psicologico. Dal 2012 al 31 dicembre 2016 i casi trattati dallo sportello sono stati oltre 3200. «All’inizio ci chiamavano soprattutto gli imprenditori. Uomini che negli anni Novanta avevano fatto fortuna e che vent’anni dopo si sono trovati a dovere lasciare a casa gli operai. Capitani d’impresa in lacrime, che ci chiedevano come si potesse non impazzire di fronte alla prospettiva di dovere licenziare i dipendenti e chiudere baracca. Poi, di colpo, le telefonate sono in parte cambiate. Alla fine del 2015 hanno cominciato a chiamare anche gli anziani messi in ginocchio dalle banche.»
A parlare è Emilia Laugelli, psicoterapeuta dell’Ospedale Alto Vicentino a Santorso (Vicenza) e responsabile del servizio InOltre, lo sportello per la prevenzione dei suicidi istituito dalla Regione. Una struttura cresciuta al passo dell’emergenza sociale, fino a contare dodici psicologi in servizio permanente. Professionisti per lo più giovani, reperibili sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, che dopo il primo contatto telefonico prendono l’auto e raggiungono chi ha bisogno direttamente a casa o in azienda. «Fare in fretta per noi è la cosa più importante. Quasi tutti i danneggiati dalle banche popolari venete sono anziani. Pensionati che dopo una vita di lavoro si trovano a perdere quella prospettiva di una vecchiaia serena che si erano costruiti nel corso di un’intera esistenza. Alcuni accettano l’aiuto dei figli già grandi. Altri vendono il poco che hanno. Poi ci sono quelli che, persi i soldi in banca, ci dicono di non avere più nulla a cui aggrapparsi. Spesso anzi hanno debiti con la banca stessa, per mutui e finanziamenti. I casi più gravi, quelli che consideriamo davvero a rischio, sono alcune decine.»
Al momento della morte di Antonio Bedin, i danneggiati dalle popolari venete registrati come «in condizione di potenziale esito suicidario» erano 63. Bedin non era nella lista. Non aveva contattato il servizio di assistenza psicologica. Non aveva permesso a nessuno di capire quanto a fondo l’umiliazione avesse scavato nella sua mente di uomo semplice e premuroso. Forse era convinto che, prima o poi, ne sarebbe venuto fuori da solo. Di certo, l’ultima cosa che ha fatto prima di spararsi un colpo di pistola al petto è stato saldare il conto che aveva aperto in edicola. Poche decine di euro. «Non era il tipo da lasciare debiti» dice il giornalaio.
Nel biglietto di addio, indirizzato al fratello ex preside di scuola, Bedin scrive: «Sto troppo male. … In chiesa niente predica. … Tratta bene i cani … Portali fuori. I soldi ci sono». Da intendersi: restano le poche centinaia di euro che bastano per curare gli animali.
Il giorno del funerale di Antonio Bedin, il 18 giugno 2016, Montebello Vicentino si presenta per quello che è. Un paese ai piedi della collina abitato soprattutto da anziani, dove le vigne si spingono fino in mezzo alle case, i bar hanno la spina del vino al fianco di quella della birra, e i giovani tornano dalla città solo ogni tanto nei fine settimana per salutare i genitori. «Qua siamo tutti vecchi e scemi, per questo ci han fatto quello che ci han fatto» si sfoga un signore con i capelli bianchi e le guance rubizze, a beneficio delle telecamere delle tv. Sul sagrato della bella chiesa di Santa Maria Assunta ci sono una quindicina di persone in tutto, manca un’ora alla cerimonia. «Siamo vecchi e tonti. Pensavamo che la Popolare fosse inaffondabile e abbiamo fatto la fine dei passeggeri del Titanic. Pensavamo di essere furbi, eravamo sicuri di guadagnare. Invece abbiamo perso tutto e adesso ci vergogniamo. Perché siamo veneti. E per un veneto perdere i soldi è una vergogna, peggio che non averli mai avuti.» In chiesa arrivano gli amici di Bedin, pochi. Poi i parenti. Infine la cassa, portata a spalle.
Nel silenzio della navata, di fronte alla bara, don Enrico Torta scandisce: «Rappresentiamo le duecentomila famiglie unite nella tragedia. Serve giustizia. Il governo deve sapere cosa succede qui in Veneto». Le centinaia di piccoli risparmiatori della Popolare di Vicenza presenti in chiesa si alzano, applaudono, qualcuno piange. Don Torta, in prima fila nelle associazioni dei soci danneggiati dal crac delle due grandi popolari venete non quotate, rincara la dose: «Ricordiamo oggi Antonio, un fratello smarrito per la violenza e la prepotenza di altri. Gesù ha detto: beati coloro che si impegnano per la giustizia. La giustizia è rispetto per la dignità delle persone e per il bene comune. Dio ha detto: non rubare, non uccidere. Gli uomini hanno ucciso. Dio li resusciterà».
Fuori dalla chiesa si forma un corteo. C’è anche don Torta. Una processione laica, silenziosa e ordinata, che i carabinieri scortano con orgoglio. La folla zitta attraversa il paese. Nel gruppetto di testa compaiono striscioni fatti in qualche modo e portati a Montebello da tutto il Veneto. «Basta suicidi per colpa delle banche», «Omicidio di Stato», «Rubare i risparmi è uccidere». Ci sono fra gli altri «ma solo a titolo personale» – come ripetono – i cittadini del gruppo «Noi che credevamo nella Banca popolare di Vicenza» guidati dal vicentino Luigi Ugone, azionista della banca già attivo nel 2013 nel «Coordinamento 9 dicembre», che chiedeva le dimissioni del governo guidato da Enrico Letta.
La manifestazione scorre lenta fino a una grande villa con facciata bianca, giardino e campo da tennis. La chiesa dove si è tenuto il funerale e la corte restaurata distano fra loro poche centinaia di metri. «Questa è una delle case di Gianni Zonin» spiega una ragazza, la voce rotta dal pianto. «Zonin, il capo della Popolare. Il capo di Vicenza. Il re di questa terra e delle sue vigne. Siamo qui per presentargli il conto.» La folla si tiene a distanza dal bel portale di ingresso, che per decenni ha ispirato rispetto e timore, come il suo elegantissimo e imperscrutabile proprietario. Qualcuno urla. Sono donne ottantenni, piccoli imprenditori, ex insegnanti. Veneti di terraferma che credevano in Zonin, il re del prosecco, e confidavano nella sua capacità di moltiplicare pani e pesci. Qualcuno urla. Gli animi si scaldano. «Ladro», «Assassino», scandisce una voce dal fondo del presidio.
Quando tutte le voci si sono sfogate, un uomo si avvicina a passo lento alla facciata della villa. In mano ha una piccola fotografia di Antonio Bedin. La bacia e la appoggia al citofono della grande casa bianca. Alla scena assiste silenzioso Dino Magnabosco, sindaco di Montebello. Finita la manifestazione, si allontana da solo, le mani in tasca. «Quello che mi preoccupa, più che la rabbia, sono la disperazione e la vergogna della gente» dice. «Di persone che hanno perso tutto, in paese ce ne sono tante. Vengono in Comune per chiedere chi pagherà loro la casa di riposo quando ne avranno bisogno. E lo chiedono a mezza voce, con vergogna. Hanno comprato titoli della banca, di cui non capivano nulla. Sono stati convinti a firmare carte che spesso non erano fisicamente in grado di leggere.»
In corteo non ci sono altri rappresentanti delle istituzioni. Assenti anche i parlamentari provenienti dal territorio. Unica eccezione, insieme al sindaco del paese, è Jacopo Berti, capogruppo del consiglio regionale eletto con il Movimento 5 Stelle. «Lo dico sinceramente, mi piacerebbe essere qui in maggior compagnia» dichiara in corteo. «È assurdo che i partiti disertino una dimostrazione di dignità civile come quella di oggi. Questa gente ha diritto di vedere in faccia chi li governa. Le migliaia di pensionati e casalinghe, che hanno acquistato azioni e titoli di cui non capivano nulla, hanno anzitutto diritto a risposte. E devono averle dalla politica.» Per inciso, un anno e mezzo dopo, il 4 dicembre 2016, a Vicenza e provincia ha votato al referendum costituzionale il 78,5% degli aventi diritto. E i «no» hanno prevalso con il 63,13%, tre punti sopra la media nazionale. Uno dei più sonori schiaffi al governo Renzi nell’intero Nord Italia. Tornando allo scenario descritto da Berti, viene da chiedersi: come è possibile che migliaia di pensionati e casalinghe di colpo abbiano sentito il bisogno di acquistare azioni e titoli, rimanendoci poi fregati?
Il meccanismo con cui la Popolare di Vicenza ha trasformato anziane con la quinta elementare ed ex bidelli di scuola in esperti di prodotti finanziari è spiegato nelle 103 pagine di dossier che la Banca centrale europea ha redatto dopo un’ispezione condotta tra il 26 febbraio e il 3 luglio 2015 in Bpvi. La dinamica è molto simile a quella messa in atto da Banca Etruria, Carichieti, Carife e Banca Marche. Ma a Vicenza i vertici dell’istituto si sono spinti oltre. Come racconta Walter Galbiati sulla «Repubblica», infatti, i profili di ben 58.000 dei 118.000 azionisti Bpvi non risultano in linea con le normative Mifid (Markets in Financial Instruments Directive), la direttiva europea che, fra le altre cose, impone di classificare i clienti in modo adeguato per fornire loro servizi finanziari appropriati. In pratica, secondo quanto accertato dalla Bce, al momento della sottoscrizione dei titoli i dati relativi alle capacità di comprensione dei clienti/soci sarebbero stati alterati, proprio per giustificare l’acquisto di azioni.
«Gli aumenti di capitale del 2013 e del 2014» si legge nel documento della Banca centrale europea «sono stati portati a termine adottando un approccio non in linea con le normative Mifid, poiché la Bpvi non ha stilato il profilo di rischio completo dei clienti attraverso i test prescritti oppure li ha alterati a suo vantaggio.» Gli ispettori hanno calcolato che sono almeno 29.000 i nuovi sottoscrittori di titoli coinvolti. Ad altri 29.000 azionisti, invece, è stato offerto il diritto di prelazione per l’acquisto di nuovi titoli. In questa operazione non sarebbero stati assistiti correttamente dalla banca, ma semplicemente informati con una lettera che avrebbero dovuto rispedire firmata in filiale. Nove su dieci dei destinatari contattati non hanno mai risposto, non capendo quello che gli era stato offerto o forse fiutando una possibile fregatura. Ma c’è chi si è fidato e ne ha poi pagato le conseguenze quando il valore del titolo è crollato.
Quello che gli ignari nuovi soci non potevano sapere, al momento dell’acquisto, è che il valore delle azioni che stavano comprando si sarebbe poi rivelato sovrastimato, irreale, artificiale. E secondo le previsioni della direttiva Mifid, proprio per questo non avrebbero dovuto comprare quei titoli, mancando degli strumenti necessari a capire per cosa stavano pagando. Vale a dire, 62,50 euro per azioni il cui valore sarebbe poi crollato a 0,1 euro. Ma chi faceva il prezzo delle azioni della Popolare di Vicenza? Non certo il mercato in Borsa. A definire il prezzo era la banca stessa, come consentivano gli statuti delle grandi banche popolari non quotate (in accordo con la legge) prima della riforma del governo Renzi.
La Popolare di Vicenza – va ricordato – fino al marzo 2016 non si era infatti data la forma di società per azioni, pur figurando stabilmente fra i primi dieci istituti italiani. Tuttavia la Banca d’Italia in più occasioni ha messo in guardia circa «l’assenza di criteri obiettivi per la determinazione del prezzo» dei titoli Bpvi. Nel 2001, e di nuovo nel 2009, gli ispettori multarono gli amministratori della Popolare di Vicenza, facendo segnalazioni alla magistratura. Come risposta, dal 2011 il consiglio di amministrazione della banca ha pagato professionisti definiti «indipendenti» per assegnare un prezzo alle azioni. Negli ultimi anni se ne è occupato Mauro Bini, professore di Finanza aziendale dell’Università Bocconi di Milano ed esperto in valutazioni d’impresa. È lui ad avere ribadito, nell’aprile 2014, il valore di 62,50 euro per azione. Ed è lo stesso ex presidente di Bpvi, Gianni Zonin, in un atto di citazione depositato a fine 2016 al tribunale per le imprese di Venezia, a dichiarare che «l’attività del professor Bini si è sempre espletata sotto il costante controllo del collegio sindacale della banca, che si è anch’esso confrontato per tutta la durata delle operazioni tanto con l’esperto, quanto con il dirigente preposto alla divisione Bilancio e pianificazione, con il responsabile della direzione Pianificazione strategica, con il responsabile dell’ufficio Progetti strategici». Insomma, il consulente era indipendente, ma si può dire che la banca non lo lasciava solo quando si trattava di fare il prezzo dell’azione.
Quello su cui la relazione trasmessa da Zonin non scende nel dettaglio sono gli specifici criteri che Bini adottava per arrivare al valore dell’azione, limitandosi a dire che «il professor Bini ha scelto di … fare riferimento al criterio reddituale attraverso il metodo Ddm con distribuzione dell’excess capital, affiancando altri criteri ritenuti quanto più oggettivi possibile e individuati facendo riferimento alle linee guida impartite dall’Autorità di vigilanza americana (Sec) a tutte le società non quotate». Il Ddm (Dividend discount model) a cui Zonin fa riferimento consiste in pratica nel determinare il valore del titolo basandosi sul valore dei dividendi attesi. E ovviamente a fornire i dati di partenza al consulente non poteva che essere la banca stessa. In ogni caso, Zonin precisa come «cda e collegio sindacale non avevano ragione di dubitare della bontà tecnica del lavoro del professor Bini, data la sua elevata competenza e professionalità». Quanto alla quotazione finale fissata da Bini a 62,50 euro ad azione, Zonin fa presente che quel valore sarebbe stato confermato come congruo da due perizie firmate da altrettanti esperti terzi, una depositata il 20 giugno 2014 e l’altra l’11 luglio. Ma l’ispezione della Bce su questo punto non lascia scampo: «I titoli sono sempre stati sovrastimati come dimostra la costante e significativa differenza tra il valore dei titoli della Bpvi e delle altre popolari quotate, utilizzando medesimi modelli di valutazione».
Riassume Galbiati sulla «Repubblica» del 17 giugno 2016: «Prendendo solo uno dei molti parametri utilizzati dagli ispettori, il “price to book value”, ovvero il rapporto tra il valore di mercato del titolo (nel caso della Bpvi, il prezzo fissato dai consulenti) e il valore di libro è risultato che il coefficiente della Vicenza (1,2) è quasi il doppio della media di quello delle popolari italiane quotate in Borsa (0,73)». Nel tempo, il divario è poi andato aumentando. Ma questo gli anziani di Montebello non lo sapevano, al momento dell’acquisto. E per questo, secondo le previsioni Mifid, non avrebbero dovuto e potuto acquistarle, quelle azioni. Ma qualcuno in banca si era premurato di cambiare per loro la categoria di rischio, in modo da potere concludere l’affare. Un affare solo per la banca, beninteso.

Le operazioni «baciate», dove il debito diventa capitale

La vendita dei titoli gonfiati a Vicenza avveniva con strumenti e rituali differenti a seconda degli importi e del compratore. Mentre spettava a direttori di filiale e sportellisti convincere all’acquisto casalinghe e pensionati – un paio di firme e via –, la vendita ai grandi clienti prevedeva una particolare liturgia. Ristoranti stellati, bottiglie di gran prezzo e lo stato maggiore della banca schierato a tavola. I vertici Bpvi si trovavano di fronte imprenditori tutt’altro che sprovveduti. Capitani d’impresa capaci di mettere in cassa decine di milioni di euro l’anno. «Uomini che fiutano le fregature lontano un miglio. Veneti fino al midollo, abituati agli affari, a schivare fregature. Gente che prima di comprare un’auto la smonta e la rimonta per vedere com’è fatta», per usare le parole di un private banker di area vicentina.
Qualcuno dei «grandi clienti», grazie a rapporti privilegiati con il management della banca, nel crac dell’istituto alla fine ha addirittura guadagnato. Ma è una minoranza nella minoranza. Molti, invece, sono rimasti fregati. Fra il 2008 e il 2014 hanno ottenuto prestiti finalizzati all’acquisto di azioni della stessa Popolare di Vicenza; i finanziamenti in molti casi avevano scadenze lunghe, quindi, nel momento in cui questo libro viene stampato, sono ancora in corso. E la banca pretende rate e interessi, mentre le azioni non valgono più nulla. Il report dell’ispezione della Banca centrale europea condotta alla Popolare di Vicenza riferisce, per esempio, che il gruppo della famiglia di imprenditori tessili vicentini Ravazzolo-Pilan ha ottenuto da Bpvi un tasso dello 0,8% su due linee di credito da 10 milioni ciascuna e, a fronte di 92,5 milioni di finanziamenti, ha acquistato titoli Bpvi per 69 milioni. Alla famiglia Dalla Rovere, attiva nella moda, la banca ha concesso 12,5 milioni e venduto titoli per 9,9. Ai Morato, panificatori industriali, sono stati dati 39,6 milioni, di cui 29,6 reinvestiti in titoli Bpvi. Tranquillo Loison, imprenditore dell’argento, h...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Banche impopolari
  4. Introduzione
  5. I. Il disastro del Nordest: Vicenza, Veneto Banca, Marostica
  6. II. Ubi, la prima della classe
  7. III. La nave scuola della riforma: Banco Bpm
  8. IV. I travagli della Popolare di Bari
  9. V. Il paradosso del valore che inchioda 580.000 azionisti
  10. Epilogo. I futuri assetti fra tagli, fusioni e noccioli duri
  11. Conclusioni. Nulla sarà come prima
  12. Appendice. Come investire nelle popolari?. Intervista a Joseph Oughourlian
  13. Ringraziamenti
  14. Copyright