Casa Arbore è una scatola magica, dove si viene accolti da un Babbo Natale telecomandato a grandezza naturale, e da decine di carillon che cantano Jingle Bells. Consumatore compulsivo, acquista cibo in scatola – c’è anche il caimano – che accumula nella cucina tropicale in plastica verde e gialla. L’ultima volta lo intervistai per «Sette», il magazine del «Corriere». Noi titolammo: «Voglio portare la musica italiana nel mondo». Dagospia ripubblicò lo stesso testo con un altro titolo: «Ho avuto più di cento donne». Indovinate quale fu il più cliccato.
Renzo Arbore sta correggendo le bozze della sua autobiografia: E se la vita fosse una jam session? Nel frattempo gli stanno svuotando la casa: stavolta non sono i ladri, ma i curatori della mostra sulle sue passioni che aprirà al Macro di Roma; dalla collezione di oggetti inutili e coloratissimi alle locandine dei concerti di Tokyo, Pechino, New York… L’uomo ama ridere, ma in quattro ore di conversazione per due volte si commuoverà.
Arbore, qual è il suo primo ricordo?
«Mio padre che rientra dal sabato fascista e sbuffa perché non riesce a togliersi gli stivali.»
La sua famiglia era fascista?
«La mia famiglia era borghese. È un aggettivo che non mi dispiace, da rivalutare. Da ragazzo leggevo “Il Borghese”, quello di Leo Longanesi non quello di Gianna Preda. Ricordo i pezzi di Antonio Siberia, che in realtà era Montanelli: anche quando diventammo amici, non lo chiamavo Indro, ma Antonio. Mio fratello portava a casa “Il Mondo” di Pannunzio, la cameriera portava “Grand Hotel”. Io leggevo avidamente entrambi. Ho sempre amato i rotocalchi.»
Non li fanno quasi più.
«Ma i quotidiani ora sono fatti come i rotocalchi. Con Roberto D’Agostino, che conobbi al Piper quand’era ragazzo, fummo i primi a fare i gossip: Il peggio di Novella 2000 vendette centomila copie. Poi Roberto continuò genialmente per conto proprio.»
Il Duce l’ha mai visto?
«Certo. A Riccione affittavamo una casa di proprietà della sua famiglia. La gente lo attendeva in adorazione. Un giorno mentre faceva il bagno dal pattino il Duce perse il costume, e chiese se qualcuno poteva dargli un giornale per coprirsi. Ma chi porta il giornale in pattino? Fu allora che mio padre cominciò a dubitare dell’intelligenza di Mussolini.»
Foggia, la vostra città, fu rasa al suolo dai bombardamenti.
«Ho esordito come artista nei rifugi antiaerei. Cantavo, con un certo successo, le canzoni friulane che mi insegnava la mia tata Emanuela. Poi, quando si sentiva il rombo degli aerei, passavamo al rosario: “Ave Maria gratia plena…”. Alle prime esplosioni la preghiera saliva di tono, come per coprire il fragore. Un giorno all’uscita vedemmo una casa crollata, i morti schiacciati…» Qui Arbore si commuove. Poi riprende: «La mia generazione è abituata al pensiero positivo perché ha conosciuto la guerra, la fame, la morte. I nazisti portarono via anche mio padre, credevamo di averlo perso».
Poi arrivarono gli americani.
«Vedemmo i tedeschi sfilare via, uno a uno, con calma e disciplina. Dopo si sentì una musica. Erano le radio montate sulle jeep Usa. Una macchina con la musica! Non avevamo mai visto nulla del genere. E poi i soldati con i piedi sui parafanghi. E i denti bianchissimi dei neri. Non potevamo che diventare filoamericani. Anche se erano state le loro bombe a distruggere la città.»
Vicino a Foggia c’era Padre Pio.
«Andai a trovarlo più volte, ma finì sempre male. Gli chiedevano se dovevo fare l’avvocato o l’artista, e lui che non voleva essere trattato da indovino rispondeva: “Facisse ’cchi vole!”. Un giorno gli portai Pippo Baudo.»
Arbore e Pippo Baudo da Padre Pio è una scena troppo bella per essere vera.
«E lui ci mise alla porta. Padre Pio chiese a Pippo se fosse venuto per fede o per curiosità. Lui fu sincero: per curiosità. “E allora ve ne potete ire!” rispose il santo.»
Lei aveva anche una nonna bolognese.
«Nonna Bianca, detta Bianchina, aveva una gemella, Nera, detta Nerina.»
I suoi genitori si sono amati per tutta la vita.
«Si sono fidanzati a 14 anni e non si sono mai lasciati. Mia madre era molto religiosa, chiamava Pasquetta “lunedì in albis”; escludo abbia mai guardato un altro uomo. Mio padre andava via di casa una sola volta l’anno, alla Fiera di Milano, per aggiornarsi sull’odontoiatria. E non escludo che facesse visita a qualche piacevole casa…»
Anche lei ci andava?
«A Napoli erano luoghi di ritrovo. Adoravo la città, ma faticavo. Non ero napoletano. Ed ero innamorato di una donna sposata.»
A Roma invece ebbe fortuna fin da subito.
«La prima sera incontrai Gabriella Ferri e ci fidanzammo.»
Carmelo Bene diceva che chi non ha avuto mille donne non è un grande. Lei quante ne ha avute?
«Be’, dai, meno di mille.»
Cento?
«Be’, dai, più di cento. Negli interregni tra gli amori, che sono stati pochi. Con un unico amore grandissimo.»
Con Mariangela Melato non vi siete mai sposati. Perché?
«È stato il grande errore della mia vita. Mia madre mi aveva già preparato i documenti…» Arbore si commuove. «Giancarlo Giannini sostiene che Mariangela è stata la più grande attrice di tutti i tempi. Eduardo, che ci ospitava ogni sera alla sua tavola nei locali del teatro Eliseo, quando in tempo di austerity i ristoranti chiudevano presto, la corteggiava perché facesse Filumena Marturano, ma lei non se la sentiva di impersonare una napoletana… voglio fare qualcosa in tv per ricordarla.»
Ora c’è Renzoarbore channel.
«Ho sempre guardato al futuro. E il futuro è lì, nei canali tematici.»
Con «Bandiera gialla» e «Alto gradimento», lei e Boncompagni avete reinventato la radio.
«Era il 1964. La radio pareva destinata a soccombere alla tv. Noi vi portammo l’improvvisazione. Il motto di Gianni era: “Si può fare”. E scoprimmo i giovani, i teenager. Allora i ragazzi diventavano subito adulti, passavano dai pantaloni corti alla cravatta. Noi dicevamo: “A tutti i maggiori di anni diciotto; questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi”. Io volevo chiamarlo “Basso gradimento”. Boncompagni mi dissuase.»
Alla Rai lei arrivò su segnalazione della sua dirimpettaia a Foggia: donna Matilde, suocera del direttore generale Bernabei.
«È vero. Ma entrai per concorso. Arrivai primo: maestro programmatore. Quattro tra i miei predecessori erano stati cacciati perché prendevano la payola per mettere su sempre gli stessi dischi.»
La payola?
«To pay: americanismo per mazzetta. Noi, appoggiati da Leone Piccioni e Maurizio Riganti, mettemmo – gratis – Mina, Modugno, Celentano. E i Beatles, che erano stati schedati come “gruppo locale strumentale con difetti di intonazione”.»
A Roma lei abitava in una casa di artisti.
«Nel sottoscala c’erano i Primitives. Al secondo piano il proprietario del Titan Club, concorrente del Piper, che ospitava un’attrice francese di straordinaria bellezza: Edwige Fenech. Sullo stesso pianerottolo abitava una donna ancora più bella, con Virna Lisi la più bella che abbia mai visto: Laura Antonelli. Un angelo disceso dal paradiso. Fidanzata con Mario Marenco.»
Il comico?
«Lui. Arrivato dalla Svezia, dove aveva fatto la fame con Boncompagni. Terzo piano: Shel Shapiro, che girava in Rolls-Royce bianca mentre io avevo la 500 targata Foggia, nel bagagliaio il plaid messicano che la Fiat vendeva come optional. Quarto piano: Franco Califano, bellissimo e invidiatissimo; allora viveva con Mita Medici. Io stavo all’ammezzato. Di fronte, Alberto Durante, direttore della Ricordi. Da lui passava sempre Lucio Battisti, che poi veniva a trovare me.»
E lo faceste esordire a «Bandiera gialla».
«Me l’aveva segnalato la moglie del mago Zurlì.»
Chi?
«Christine Leroux, moglie di Cino Tortorella: c’è un ragazzo che suona con I Campioni di Tony Dallara, è bravo… All’epoca Lucio scriveva canzoni per i Dik Dik e l’Equipe 84 e rifiutava di cantare: “Ho una vociaccia, canto peggio di Mogol”, diceva. Gli mettemmo in mano una chitarra. Cantò Per una lira. Fu subito un successo clamoroso.»
È vero che Innocenti evasioni la ispirò lei, quando stava con Vanna Brosio?
«Lasci stare…»
C’è nel libro.
«Quella sera aspettavo un’altra. Battisti vide le luci soffuse, il vino, i dischi, e mi disse: “Se Vanna rientra all’improvviso, come te la cavi?”. L’idea della canzone nacque così.»
L’elenco degli artisti che ha lanciato è impressionante.
«Sono cento.»
Qualcuno l’ha deluso?
«No.»
Neppure Benigni?
«Lo incontrai per la prima volta in uno di quei premi di provincia, presentato da Corrado. Roberto mi ballonzolava intorno, palesemente per farsi notare… Era impossibile non notarlo. Veniva a casa mia ogni settimana a registrare la sua rubrica dell’“Altra Domenica”, in cui recensiva in modo esilarante un film che non aveva visto. Abbiamo un rapporto splendido. Nessuno mi ha deluso. Tranne la Rai, in certe fasi.»
Quando?
«Ad esempio quando mi tolsero il mio programma, “Speciale per voi”. Mi impedivano di trasmettere il filmato di John Lennon che cantava Give peace a chance, l’inno della protesta contro la guerra in Vietnam, con il pretesto che costava 500 mila lire. Le misi di tasca mia. Mi rimborsarono, John Lennon andò in onda, ma l’anno dopo mi mandarono a casa.»
In tv il grande successo arrivò con «L’Altra Domenica».
«Fino a quel momento, a p...