Fare i conti con l'ignoto
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Fare i conti con l'ignoto

Governare l'incertezza: epidemie improvvise, catastrofi naturali, attentati terroristici

  1. 264 pagine
  2. Italian
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Fare i conti con l'ignoto

Governare l'incertezza: epidemie improvvise, catastrofi naturali, attentati terroristici

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Nel luglio 2014, mentre l'epidemia di ebola che ha colpito Liberia, Guinea e Sierra Leone preoccupa il mondo intero, Patrick Sawyer, un avvocato liberiano che sa di aver contratto il virus, atterra a Lagos, in Nigeria. Lì, con l'unico scopo di contagiare quante più persone possibile, riesce, mentendo e corrompendo medici e infermieri, a esportare il morbo in uno dei paesi più popolosi dell'Africa. Così, quello che all'inizio si configurava come un rischio grave ma controllabile, assume le sembianze di una tragedia potenzialmente devastante: diventa un «cigno nero» assoluto, un evento imprevisto e imprevedibile, capace di stravolgere nel profondo la realtà.

Nella nostra vita non possiamo fare a meno di confrontarci con l'ignoto, tanto più oggi, visto il disordine che sembra dominare il mondo: dagli attentati terroristici alle crisi economiche, dalle catastrofi naturali ai venti di guerra, siamo circondati da potenziali «cigni neri» che minacciano la nostra stabilità, e ciò accade non solo a livello economico e politico, ma anche nel nostro microcosmo personale, per decisioni che riguardano la carriera o l'organizzazione delle prossime vacanze. Non possiamo pensare di poter controllare ogni singola variabile, e spesso percepiamo di essere in balìa del caso.

Maurizio Barbeschi, scienziato dell'Organizzazione mondiale della sanità, per lavoro è chiamato a gestire emergenze sanitarie, come l'epidemia di ebola, o rischi collegati all'uso di armi chimiche o biologiche ed è perciò allenato ad affrontare l'imprevedibile, stimando i potenziali rischi ed elaborando adeguati piani di risposta. In questo libro, nato dall'incontro con il giornalista Paolo Mastrolilli, la sua esperienza nei vari contesti di crisi nel mondo – dalla Siria all'Iraq, dall'Africa al Messico – offre lo spunto per ragionare sui diversi tipi di ignoto e sugli strumenti che possiamo mettere in campo per esorcizzarne la minaccia, imparando a comprendere gli atteggiamenti mentali che spesso guidano i nostri comportamenti, e fornendo esempi pratici per porsi in maniera positiva dinanzi all'incertezza che ci circonda. Perché l'ignoto offre anche possibilità di crescita e sviluppo, spazi da riempire, e non è «negativo» per definizione; se da un lato ci spaventa, dall'altro presenta anche una grande opportunità: ci obbliga a reagire, a rompere gli schemi e stimola tutta la nostra creatività.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852073946
Conclusione

L’ignoto è un’opportunità

Le pagine che avete letto finora forse vi hanno preoccupati, magari impauriti, eppure l’ignoto che domina la nostra epoca rappresenta anche una grande opportunità potenziale per tutti. Un impulso per la nostra creatività, che viene sempre stimolata dalle necessità; certamente uno spazio vuoto da riempire, anche sul piano politico. Il modo in cui lo faremo determinerà il futuro non solo delle nostre vite personali, ma della stessa civiltà di cui siamo parte.
Una volta un ufficiale dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, con cui stavamo lavorando per la prevenzione degli attacchi chimici e biologici, mi rivelò che per ogni attentato riuscito nello Stato ebraico ce n’erano in media almeno altri nove che venivano sventati, senza che ne venisse diffusa alcuna notizia. La percentuale di successo era dunque molto alta, superiore al 90%, ma per loro si trattava comunque di un numero inaccettabile. Quel 10% di fallimenti, infatti, poteva significare la morte di decine di cittadini, in un paese costantemente minacciato da atti di violenza.
Questo era il cigno nero assoluto, con cui l’ufficiale dello Shin Bet si confrontava ogni giorno della sua vita professionale e personale. Nonostante alla base ci fosse un ignoto del primo tipo, il più imprevedibile, il governo israeliano aveva deciso di provare a fronteggiarlo, per ricavarne il maggior numero possibile di vantaggi – o ridurre al minimo gli svantaggi – per la popolazione. L’ufficiale mi spiegò che lo scenario in cui lo Stato ebraico eccelleva non era la prevenzione degli attentati, comunque assai elevata rispetto al resto del mondo, ma la capacità di risposta una volta avvenuti, incluse le diverse e ormai consolidate forme di assistenza alle vittime.
Ogni anno tutti gli ospedali israeliani sono obbligati a fare almeno un drill, ovvero una prova di risposta all’emergenza, come se fosse in corso un vero attacco catastrofico. Talvolta scelgono di fingere un attentato con armi chimiche, altre volte con armi biologiche o radionucleari, e via dicendo. Ipotizzano sempre le situazioni più difficili e potenzialmente imprevedibili, per mettere alla prova l’intero sistema in maniera estrema e verificare che tutto funzioni alla perfezione. Nella maggior parte dei casi, per fortuna, questi ospedali non si troveranno mai ad affrontare crisi estreme come quelle inscenate durante i drills, ma se dovessero accadere davvero sarebbero comunque pronti. Nel frattempo, però, le capacità sviluppate per rispondere a queste emergenze simulate rendono il personale e i diversi sistemi d’allarme straordinariamente abili nel gestire quelle vere, purtroppo quasi quotidiane. L’addestramento e la particolare sensibilità ai diversi tipi di emergenza permettono alle strutture sanitarie di essere pronte ad aiutare i propri cittadini negli incidenti tipici della vita comune, che probabilmente a livello statistico uccidono o feriscono più del terrorismo.
In sostanza, dunque, la costante minaccia della violenza estremista è stata trasformata dallo Stato ebraico nell’impulso a costruire un sistema di assistenza sanitaria e di protezione civile senza eguali al mondo. L’ignoto è stato gestito in modo da farlo diventare una grande opportunità, con effetti positivi sulla qualità della vita delle persone. Se poi dovesse capitare la disgrazia di un vero attacco con armi di distruzione di massa, il sistema sarà comunque più pronto a rispondere. Nel frattempo, però, in questo modo saranno state salvate o aiutate migliaia di persone, che altrimenti avrebbero rischiato la vita per errori e limiti anche banali, prevedibili e prevenibili.
L’atteggiamento scelto dal governo israeliano per fronteggiare la minaccia terroristica – e quindi l’ignoto – può e dovrebbe essere usato in ogni aspetto della nostra vita. È un metodo che andrebbe adottato dai governi, dalle istituzioni pubbliche, dalle aziende, ma anche dalle singole persone nella propria vita quotidiana. Tutto l’ignoto può essere trasformato in un’opportunità, se viene affrontato nella maniera giusta e propositiva. L’alternativa spesso può essere secca: prosper or perish. «Prosperare o perire», come dicevano i giudici britannici ai condannati spediti a scontare le proprie pene nelle colonie.
I nostri maggiori rimpianti in genere sono legati a qualcosa che avremmo potuto – o dovuto – dire o fare, soprattutto quando accade un evento che potenzialmente ha un effetto destabilizzante per noi.
L’esempio più calzante che viene in mente è la prima esplosione nucleare indiana, che sfuggì a tutti i servizi di intelligence mondiali. Al contrario, il modo con cui determinate persone hanno vissuto da vicino questo avvenimento è una perfetta sintesi di quello che potremmo definire un «ignoto pianificato», una delle possibili evoluzioni dei cigni neri assoluti.
I preparativi necessari per la costruzione della bomba e del sito dove venne eseguito il test nucleare difficilmente sarebbero passati inosservati a un occhio attento, vista la loro complessità e dimensione, specie considerando la situazione internazionale nei primi anni Settanta. Per dare un’idea della potenza di quell’esplosione è emblematico il ricordo di Sohanram Vishnoi, preside dell’unica scuola di Khetolai, un piccolo villaggio del Rajasthan di milleduecento abitanti. Vishnoi, quindicenne il 18 maggio 1974, quando fu fatto il primo test, percepì quel giorno uno smottamento del terreno così forte che temette per la sua casa. Ricorda ancora le parole di un mendicante locale, che provò a spiegare il terremoto immaginando la Terra come sorretta dal corno di una vacca, sul quale ruotava. Ebbene, il bovino, stanco del peso della sfera terrestre, quel giorno d’estate aveva deciso di spostare il globo da un corno all’altro, con un «piccolo» saltello.
«Smiling Buddha», questo il nome in codice del test, fu condotto dall’esercito indiano nella base militare Pokhran Test Range, nella regione del Rajasthan, sotto la supervisione di un numero consistente di alti ufficiali. Tuttavia, il terreno desertico non permetteva un’adeguata copertura del sito, perché i pochi cespugli che crescevano non erano in grado di nascondere a eventuali satelliti da ricognizione le strutture necessarie al test. I militari decisero quindi di spostare le dune di sabbia di riporto in direzione del vento, così che i satelliti militari non si sarebbero accorti di nulla, e utilizzarono nomi in codice talmente semplici da sembrare innocui.
Ventiquattro anni dopo, nel maggio 1998, Sohanram Vishnoi notò un progressivo aumento delle attività nella vicina base militare, e presto ipotizzò che sarebbe accaduto qualcosa di molto serio. La mattina dell’11 maggio, il maggiore Mohan Kumar Sharma si diresse nella scuola di Vishnoi e gli chiese di far allontanare gli scolari per un paio d’ore, senza addurre alcuna spiegazione. «Non si preoccupi,» rispose il preside «sappiamo bene che state pianificando un altro test. Vi siamo appresso.» Gli abitanti di Khetolai avevano compreso cosa stesse accadendo ben prima dei principali e meglio preparati servizi di intelligence internazionali. In un certo senso, questo flop è peggiore del non essere riusciti a prevedere la caduta del Muro di Berlino. Quanti passi diversi avrebbero dovuto fare i servizi internazionali per poter intuire prima cosa stava succedendo?
In termini di ignoto, il piccolo Sohanram visse la vicenda del primo test nucleare come un cigno nero puro, mentre l’esperienza ha trasformato in un ignoto pianificato il secondo test.
I sistemi vanno letti e capiti, è questa la lezione imparata da molti paesi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Gli Stati Uniti, così come molte altre nazioni occidentali, hanno reagito a quella tragedia cercando di comprendere in cosa avessero sbagliato, e come non ripetere lo stesso errore una seconda volta. Così l’ignoto è diventato uno stimolo per migliorare, dotandosi di nuovi strumenti di prevenzione, per quanto non tutti di successo.
Affinché l’ignoto possa davvero trasformarsi in un’opportunità, però, è necessario per ogni sistema riconoscere che continuare a fare le cose come in passato, mantenendo lo status quo, non porta da nessuna parte. La stessa minaccia terroristica, per esempio, nel tempo si è evoluta, e quello che poteva funzionare contro i talebani si è rivelato non più sufficiente contro l’Isis, come dimostrano i tragici avvenimenti di Parigi, Ankara e Bruxelles.
La disposizione costante al cambiamento è fondamentale in ogni campo, per fare dell’ignoto un nostro alleato. I centri che studiano l’evoluzione tecnologica, per esempio, dimostrano come il successo possa rendere vulnerabili tanto le imprese, quanto le istituzioni. Ci abituiamo a fare una certa cosa in una determinata maniera, e smettiamo di pensare al futuro, supponendo che il presente continuerà all’infinito. Non è così, naturalmente. Se un’impresa non comincia a pensare e a progettare la sua prossima mossa proprio quando è all’apice del successo per quella precedente, si condanna a un fallimento quasi certo. La Apple ha fatto di questa filosofia quasi uno status symbol, immaginando il «nuovo» in continuazione. Così compriamo adesso un prodotto che va benissimo per le nostre esigenze, ma se un anno dopo non lo abbiamo ancora cambiato siamo fuori tempo e fuori moda. Forse non sapevamo neppure che il nuovo gadget servisse ai nostri bisogni, ma una volta provato ci sembra impossibile aver prima vissuto senza.
Immaginiamo ora di fare lo stesso con le nostre vite. Spostare la base del successo dalla ricerca del risultato allo sviluppo del processo, modificando così la definizione dei nostri traguardi. Questo ragionamento si applica in pieno anche a Stati, aziende e a tutti i sistemi umani.
Ogni evento positivo nella nostra vita può diventare un ostacolo, se ci spinge a fermarci. Guardare l’ignoto come un’opportunità, invece, ci impone di immaginare il prossimo obiettivo che vogliamo o che dobbiamo realizzare. La sfida dell’incertezza, quindi, costringe la nostra forza creativa, positiva, a mettersi in moto. In altre parole, prosper or perish, seppur inteso – questa volta in sistemi occidentali privilegiati – in senso principalmente metaforico.
Il prodotto che funziona oggi diventerà comunque obsoleto, prima o poi. Quando funziona, quando siamo in piena fase di crescita, i dirigenti dell’azienda – così come le istituzioni statali e noi nella nostra quotidianità – devono pensare a come rimpiazzarlo quando diventerà datato. Allo stesso modo, quello che può renderci una persona di successo oggi quasi sicuramente non servirà più domani, o comunque non nella stessa maniera.
Gli esempi pratici sono innumerevoli. Abbiamo già parlato degli adeguamenti che le Poste Italiane fecero nel 2001, dopo il drammatico caso delle lettere all’antrace spedite negli Stati Uniti. Quell’attacco in realtà poi non si ripeté più, né in America, né in Europa, ma le pratiche di sicurezza adottate dall’azienda per fronteggiare quel genere di ignoto sono rimaste, e continuano a migliorare oggi il servizio, senza che i clienti neppure lo sappiano.
Quando nel 2006 l’intero Medio Oriente era terrorizzato dall’epidemia di influenza aviaria, ci trovammo in una condizione di grande difficoltà, perché stavamo per spedire esperti in ogni paese dell’area mediorientale, prima ancora che fossero messe a punto le linee guida scientifiche per avviare il nostro intervento (H5N1 era un ceppo virale «nuovo» rispetto ai protocolli fino ad allora utilizzati). Non c’era però tempo da perdere, e quindi convocammo al Cairo gli esperti indicati dal Global Outbreak Alert and Response Network (Goarn), il bacino di agenzie internazionali che forniscono gli specialisti per la risposta alle epidemie. Arrivarono circa una quarantina tra epidemiologi, clinici, veterinari, che poi sarebbero stati divisi all’interno dei team inviati per la prevenzione nei vari paesi interessati, cioè Iraq, Iran, Territori palestinesi, Israele, Siria, Libano, Egitto e altri. Ci chiudemmo per due giorni all’interno di una stanza dell’ufficio regionale dell’Oms, e provvedemmo direttamente noi a scrivere quattro, cinque pagine di questionario per la raccolta delle informazioni necessarie alla composizione del risk assessment nazionale, uguali per tutti i paesi, che poi sarebbero state usate nei vari teatri. Quindi, sulla base di queste indicazioni, i singoli governi avrebbero redatto con il nostro aiuto i piani di risposta, che dovevano mettere insieme le esigenze della salute pubblica, la sicurezza, le comunicazioni e i trasporti, in una regione del mondo sempre molto complicata come il Medio Oriente. L’emergenza dell’aviaria poi passò, ma le basi di questo lavoro e il modus operandi sono rimasti come patrimonio di conoscenze in tutti i paesi coinvolti, e ancora oggi vengono utilizzati per affrontare situazioni simili.
Nessuno avrebbe scommesso prima del 2010 sulla capacità del Sudafrica di organizzare i Campionati del mondo di calcio e, soprattutto, di riuscire a garantire la sicurezza delle squadre e dei tifosi. Il governo però si era impegnato a fondo, e aveva costruito una struttura di risk assessment enorme, con dodici organismi che si occupavano dei vari settori: l’ambiente, l’affidabilità del cibo, l’acqua, gli ospedali pubblici e privati ecc. Il primo giorno del torneo, tuttavia, ci accorgemmo in fretta che il sistema non stava funzionando come avrebbe dovuto: nessuno sapeva davvero cosa stava succedendo, chi stava male, dove erano sopraggiunte eventuali emergenze. Ciò accadeva per vari motivi, come capita spesso in molti paesi semifederali. Ma anche, per fare un esempio molto più vicino alla nostra realtà, tra grandi città non adeguatamente connesse fra loro come Roma e Milano. In Sudafrica, Città del Capo non «parlava» con la capitale Pretoria; a Durban era al potere un partito di orientamento diverso, e quindi non c’era piena sinergia fra gli operatori coinvolti; i vigili del fuoco erano strutturati su base locale e non comunicavano con il personale della protezione civile nazionale…
Il secondo giorno, la dottoressa Lucille Blumberg, vicecapo del National Institute for Communicable Diseases, venne in ufficio con una grande cheesecake e la posò sul tavolo. «Questa torta» disse «rappresenta il Sudafrica: possiamo dividerla, darne una fetta a tutti e completare bene il nostro lavoro, oppure litigarcela e fare una figuraccia davanti al mondo intero che ci guarda. Scegliete voi.» Decidemmo di cambiare registro. Il mio team aveva l’incarico di fungere da consulente di questo nuovo comitato interno all’intero sistema operativo della sicurezza, che doveva raccogliere e gestire le informazioni locali, aggregarle facendo un’analisi giornaliera dei rischi e delle possibili soluzioni, e portare tutti i settori assieme a stilare un situation report, un rapporto della situazione a livello nazionale. Alla presidenza del comitato si alternavano, a rotazione ogni tre giorni, tutti i responsabili dei dodici sotto-organismi, in modo che nessuno potesse sentirsi offeso o trascurato, e tutti avvertissero invece di essere parte integrante del team e protagonisti delle scelte prese. Le comunicazioni cominciarono a girare più velocemente e in automatico, e i Mondiali si svolsero senza il minimo intoppo.
Per l’occasione fu allestito anche un tavolo di lavoro incaricato di gestire l’intera fase di risk assessment preliminare alla manifestazione. In questo gruppo, che prese il nome di Public Health Cluster (Phc), sedevano insieme, sperando che lavorassero sinergicamente, i diversi soggetti coinvolti nelle attività di sorveglianza e risposta relative alle possibili malattie trasmissibili, che avrebbero potuto minare la riuscita dell’evento. A questi si aggiungevano poi altri stakeholders, per esempio quanti erano impiegati a gestire i mezzi e le strutture di comunicazione. Fra i soggetti, nazionali e internazionali, che partecipavano regolarmente alle riunioni del Phc, figuravano il National Department of Health e il National Institute for Communicable Diseases sudafricani, i Centers for Disease Control and Prevention statunitensi e la stessa Organizzazione mondiale della sanità.
I diversi attori coinvolti si riunivano ogni giorno per condurre congiuntamente analisi multidisciplinari sui possibili rischi di natura sanitaria, elaborando piani di risposta e di gestione delle minacce sulla base dei possibili scenari prospettabili. Questo modello era stato ripreso dall’organizzazione delle Olimpiadi invernali di Vancouver 2010, dove a ogni possibile fattore di rischio veniva attribuito un punteggio scalare, da uno a cinque secondo l’incidenza e la gravità, nonché secondo la capacità di risposta da parte delle autorità nazionali. Inoltre, il Phc elaborava report quotidiani sulla base di quanto emerso nei suoi incontri, che venivano trasmessi su due diversi canali, a livello «basso» alle persone che lavoravano e operavano sul posto, e a livello «alto» ai coordinamenti del National Health Operations Centre e alle riunioni del National Joint Operations Centre.
Quell’esperienza era stata così positiva che il governo aveva deciso di codificarla in un protocollo permanente d’azione. Così, quando l’anno successivo il Sudafrica fu chiamato a ospitare con scarsissimo preavviso la Coppa d’Africa, dal momento che a causa della guerra civile la Libia non era più in condizione di farlo, le autorità si limitarono a tirare fuori dal cassetto quelle procedure già assimilate e il paese fu subito pronto a gestire l’emergenza. Lo stesso accadde poco tempo dopo, per il funerale di Nelson Mandela, dove in tre giorni fu organizzato un evento a cui parteciparono milioni di persone e decine di capi di Stato e di governo. Ancora una volta, un momento di forte incertezza, un potenziale cigno nero, era stato trasformato in un’opportunità sistemica per l’intero paese.
Un’esperienza simile ci fu in Ucraina, dove come Oms siamo dovuti andare in diverse occasioni dopo l’inizio della guerra a seguito dell’annessione russa della Crimea, per assicurare assistenza alle vittime del conflitto. Gli unici ospedali che funzionavano bene erano quelli delle quattro città che avevano ospitato gli Europei di calcio. Come mai? Perché la partecipazione a quell’evento aveva obbligato le autorità locali a rispettare certi standard internazionali, che poi erano rimasti come risultato dell’investimento fatto a beneficio dell’intera popolazione. Le diverse autonomie territoriali erano fra loro strettamente connesse: il comune doveva lavorare con la provincia, che a sua volta doveva cooperare con il governo centrale, secondo pratiche funzionali ormai consolidate. Gli ospedali avevano continuato a usare questo sistema anche durante la guerra, ottenendo risultati opposti a quelli che si sono visti in genere nei paesi post-sovietici, dove la sanità pubblica arranca.
Durante eventi ad alto rischio, o peggio ancora quando scoppiano le guerre, gli Stati non si possono permettere il lusso di contrasti settoriali al loro interno. Bisogna sedersi allo stesso tavolo, come in Sudafrica con la cheesecake, e tentare di tutto per far funzionare l’intero sistema al meglio. È triste che in Ucraina questo sia avvenuto a causa di un conflitto, ma la lezione vale per ogni possibile situazione di stress: siamo sulla stessa barca, dobbiamo usare l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fare i conti con l’ignoto
  4. Introduzione. Le quattro categorie di ignoto
  5. I. Un esempio di ignoto ignoto
  6. II. Cos’è l’ignoto ignoto
  7. III. Con quali strumenti si affronta l’ignoto ignoto?
  8. IV. Un esempio di ignoto conosciuto
  9. V. Cos’è l’ignoto conosciuto
  10. VI. Con quali strumenti si affronta l’ignoto conosciuto?
  11. VII. Un esempio di ignoto dinamico
  12. VIII. Cos’è l’ignoto dinamico
  13. IX. Con quali strumenti si affronta l’ignoto dinamico?
  14. X. Esempi dell’ignoto emotivo e relazionale
  15. XI. Cos’è l’ignoto emotivo e relazionale
  16. XII. Con quali strumenti si affronta l’ignoto emotivo e relazionale?
  17. XIII. Breve riferimento agli studi sull’ignoto
  18. XIV. Lo strumento degli scenari
  19. XV. Gli algoritmi per prevedere l’ignoto
  20. XVI. L’ignoto nel mondo in via di sviluppo
  21. XVII. Oggi c’è più ignoto che in passato?
  22. XVIII. Il terrorismo e l’ignoto
  23. Conclusione. L’ignoto è un’opportunità
  24. Copyright