La Camera dello Scirocco
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La Camera dello Scirocco

  1. 368 pagine
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La Camera dello Scirocco

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Informazioni sul libro

Mentre l'Europa è scossa dalla guerra, Praga viene sconvolta dal rapimento di una stella del teatro yiddish, il primo di una catena di enigmatici delitti. Il medico ebreo Solomon Meisl e il suo amico Karel Heida, giovane ufficiale di famiglia aristocratica, si lanciano in un'inchiesta intricatissima che da Praga si allarga a tutti i territori dell'Impero per finire nella "Camera dello Scirocco", il luogo misterioso in cui tutte le storie e tutti i destini troveranno il loro imprevedibile scioglimento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852073960
Parte quinta

LA CAMERA DELLO SCIROCCO

Improvviso lo scirocco scuote la porta.
GEORG TRAKL, Die junge Magd

Polonia russa, oltre il confine galiziano
Giovedì 3 settembre 1914

Viste contro il sole brumoso, le ali vibranti dei passeri erano traslucide come madreperla; quasi trasparenti, simili alle pieghe dei ventagli di seta. Heida lo notò, dicendosi che aveva già osservato qualcosa di simile anni prima, durante una passeggiata da qualche parte, e l’aveva dimenticato.
Il sergente Mourek, in sella accanto a lui, sussurrò: «Ho sentito dire che se il vento tira giusto si possono fiutare. I russi, dico».
«Be’, sottovento ci siamo noi.» Heida osservò lo stormo di uccellini tuffarsi in una nuvola di foschia più fitta e svanire, come cancellati. La prima punta di disagio che aveva patito, una volta attraversato il confine con la Polonia russa, era stato il distaccamento del suo squadrone (ai comandi del capitano Rožmberk) dalla IV Armata alla I Armata del generale Dankl, che si stava spingendo in territorio nemico, verso Lublino. Non era l’avanzata a turbarlo – quella era la benvenuta, finalmente! – ma il fatto che per il prossimo futuro non sarebbe stato in compagnia dei colleghi che conosceva bene. Tre settimane prima, Dankl aveva iniziato un’inarrestabile offensiva a nord di Leopoli e, seppure il suo impeto fosse stato fugacemente contenuto a Kielce, il 25 agosto era avanzato di altri centoventi chilometri, per battere i russi a Kraśnik. Le cose nei giorni successivi si erano fatte confuse. Lontano, a sudest di Halicz – che dava il nome alla Galizia – una feroce battaglia era finita in un massacro a colpi di baionetta, e la I Armata vacillava. Per Halicz si combatteva ancora, e inaspettatamente anche per Kraśnik, a trenta chilometri e passa alle spalle della truppa del tenente.
Cavalieri dotati di intraprendenza e sangue freddo erano stati selezionati per il rischioso compito di ricognizione nella terra di nessuno fra le città sconvolte dalla battaglia, indistinguibili se non per l’alfabeto con cui i loro nomi venivano scritti sulle mappe. Heida, la cui calma e buon carattere erano proverbiali, fu una scelta scontata. Quanto al maggiore Theodor Czitó, del decimo reggimento ussaro, la sua era l’azzardata scelta di un burocrate che voleva una promozione. Ci fosse stato il colonnello Trott, lì, lo avrebbe bollato come topo d’ufficio privo d’esperienza. Ungherese dall’aria triste, con una brutta pelle, l’unico pettegolezzo che girava su di lui era che aveva dovuto rinunciare a un matrimonio d’amore per la mancanza di una dote congrua della sua promessa e per due anni, dunque, aveva atteso il momento opportuno, scapolo e amareggiato, finché una svolta nelle fortune della famiglia di lei aveva reso il matrimonio possibile. Per rifarsi del tempo perduto, nei sei anni successivi sua moglie gli aveva dato quattro figli, nati in quattro diverse città di guarnigione. All’inizio della guerra due di loro erano cadetti all’Accademia di Ludovico a Budapest; gli altri due erano ancora troppo piccoli e vivevano a Esztergom. Maliziosamente Rožmberk ipotizzò che ci aveva messo tanto a offrirsi volontario per il fronte serbo che, di conseguenza, era finito in Galizia. Il suo stesso squadrone lo conosceva appena.
«A me sa di vigliacco, cattiva scelta per uno che dev’essere mandato in avanscoperta.»
Ma eccoli lì, una pattuglia diretta a nord ai comandi del maggiore Czitó e una a sud, sotto il tenente Heida. Pur potendosi confrontare con nemici isolati, nella speranza di fare prigionieri, avevano l’ordine di evitare unità di dimensioni cospicue e di tornare quanto prima con le informazioni raccolte. Il campo avanzato della cavalleria – con una parte dell’area di ricognizione delle pattuglie – occupava le terre del conte italo-polacco Urbański von Mazzara.
Gli uomini di Heida procedevano guardinghi. Intorno a loro un silenzio primordiale faceva sembrare il fronte a mondi di distanza. Nei boschi avvolti dalla nebbia, mai tagliati, forse mai percorsi da essere umano, secoli di foglie marce esalavano un odore acuto di decomposizione sotto gli zoccoli dei cavalli. Mosche e zanzare assediavano le radure, dove l’acqua riempiva pozze salmastre e imbevibili.
Quando un unico sparò echeggiò da nordest, Mourek e Heida si voltarono in quella direzione e si scambiarono uno sguardo teso. Non seguì alcun’altra detonazione; era come se quel singolo suono fosse sprofondato per farsi riassorbire dalla nebbia. «Qualche idiota si è lasciato sfuggire un colpo» affermò Mourek. Da quella parte, divisi in due plotoni, gli uomini del maggiore Czitó stavano procedendo in parallelo, con il compito di osservare il nodo settentrionale della ferrovia che portava da Wojsławice alla stazione di Leopoldów. Non c’era dubbio che in quello stesso momento il maggiore o il sottufficiale anziano stessero rampognando il soldato distratto. Concentrati, gli ulani tesero l’orecchio per cogliere altri suoni, il possibile segno di un’imboscata o di una schermaglia. Ma non arrivava alcuna reazione umana udibile, nessun rumore a eccezione del fruscio delle creature che cercavano rifugio nel sottobosco. Davanti a loro una foschia impenetrabile sembrava nascere in un punto specifico, un canale o una diga, ma la mappa indicava solo distese di verde pianeggiante.
«Andiamo» disse Heida, e Mourek fece segno alla truppa di procedere.

Praga

Il motivo “Francesco Giuseppe” consisteva in un disegno geometrico oro e argento che correva lungo i bordi del piatto, della ciotola o della tazza. Tenute contro la luce del giorno, le stoviglie – di porcellana fine – mostravano la luminosità opaca e il pallido color avorio di ossa sottili. Tintinnavano come cristallo a ogni tocco e la superficie liscia e lucida aveva qualcosa di liquido. Meisl si mise il piattino della tazza sotto il naso e lo osservò.
«È pulito, sa?» Frau Platzer scoprì la caffettiera per controllare se fosse necessario riempirla di nuovo. «Cosa vuole che ne faccia dei vecchi piatti? No. Non li darò via, dottore. Darli via, proprio no. A qualche pidocchioso poco di buono che non distingue una tazza da una coppetta lavadita! Chiedevo solo per sapere se vuole che li impacchetti e metta via o che tenga i pezzi buoni nella credenza, nel caso noi si abbia più di ventiquattro persone a tavola.»
«E quando mai abbiamo ventiquattro persone a tavola, Frau Platzer?»
«Ne abbiamo avute venti, sei mesi fa. Dovrebbe saperlo.»
«Molto bene, li metta via impacchettati.» Meisl finì il suo caffè. Aveva ripiegato il giornale sul tavolo per non dover leggere i titoli altisonanti: Komarov occupata dalla gloriosa IV Armata. Dankl a oltre cento chilometri nella Polonia russa! Non aveva dubbi che i biplani tedeschi avessero bombardato Parigi, ma per il resto… Un collega evacuato dalla Galizia nei giorni precedenti aveva portato notizie ben diverse da quelle pubblicate. Leopoli, perla della regione orientale, era a rischio. «Il saliente austriaco intorno alla città non può reggere, Solomon: i russi arrivano da nord e da sud, con i cosacchi che si abbattono sulle nostre linee a ondate…»
Per essere un uomo che odiava la guerra, si disse Meisl alzandosi da tavola, stava compiendo alcuni passi incongrui. Quando le aveva chiesto di mantenere la sua promessa di restituirgli il favore, la principessa Lobkowicz aveva acconsentito ad aiutarlo ad accelerare le pratiche relative al suo ingresso nell’esercito.
«Come volontario» gli aveva suggerito lei la sera prima, quando si erano incontrati privatamente in un piccolo caffè. «Almeno così potrà scegliere il suo veleno. Mio cugino l’arcivescovo, che è ben informato, dice che la Serbia per il momento è persa.»
«Questo lascia aperto il fronte in Galizia, Sua Signoria.»
La matriarca lo aveva spiato, tamponandosi il tè dolce sulle labbra. «O qualunque ospedale militare dell’Impero, dottor Meisl. Compreso quello di Praga.»
Era arrivata dritta al cuore del suo dilemma. Con o senza uniforme, poteva essere utile ovunque si ammassassero le vittime, da Brno a Cracovia, e in ogni presidio ospedaliero nel mezzo. Tuttavia lui, che pure ne percepiva la follia, anelava a raggiungere il fronte.
«Mio nipote deve farlo. Lei no.»
«Combattere è un privilegio riservato a suo nipote?»
«No, il privilegio consiste in quel che Karel è, caro dottore. Ha un prezzo. Quella stupida di mia figlia non lo capisce, e pensando a lui inzuppa i fazzoletti. Non le do consigli perché deve passarci, come io ho fatto con suo padre. La renderà più forte. Oppure no. Ma lei… So come vivevano i nostri ebrei, come tutti gli ebrei che vivevano nelle terre degli aristocratici. La prima linea dovrebbe essere un luogo di privilegio.»
«Sa bene che non è così, principessa. Le reclute contadine vengono mandate al massacro tutti i giorni.»
«È una vergogna: non hanno nulla da guadagnare dalla guerra.»
Quella mattina, con Frau Platzer che si affannava intorno ai piatti vecchi e nuovi, Solomon Meisl aveva un appuntamento al Comando di Corpo d’Armata per discutere il suo desiderio di essere aggregato all’ospedale militare della capitale della Galizia, Cracovia. Perché proprio lì? Scherzava fra sé e sé, dicendosi che era perché l’ospedale sulla cittadella di Wawel era ad appena trecento metri dal quartiere ebraico di sotto e a meno di un chilometro dal cimitero del ghetto e dal mattatoio, siti l’uno accanto all’altro.

Territorio russo

Il confine ucraino si trovava a non più di quaranta chilometri. Gli uomini di Heida avevano seguito un sentiero segnato sulla mappa, che conduceva a un crinale adatto come posto d’osservazione. Una macchia di alberelli ai margini dello spazio aperto – basso, forse saturo d’acqua – fu dove Heida decise di fermarsi per scrutare il terreno prima di attraversare.
La nebbia andava e veniva, a volte trasparente come una garza, altre volte densa come schiuma di latte. Nel campo visivo dei loro binocoli l’ufficiale e il sottufficiale scorgevano le forme fantasma di altri alberi, cespugli, canneti. Passarono diversi minuti, e ancora niente, nessun suono. Secondo gli ordini, le due pattuglie avrebbero dovuto raggiungere la cima separatamente; gli uomini di Czitó sarebbero scesi verso la ferrovia e la pattuglia di Heida avrebbe sorvegliato il territorio dal crinale, per poi scambiarsi le informazioni in un punto concordato. Quel luogo d’incontro, un majdan o radura, cerchiato in rosso sulla cartina di Heida, al momento sembrava così lontano da non poter essere raggiunto. Eppure, nei giorni di marcia, una distanza del genere sarebbe stata coperta rapidamente, su strade diritte e solitarie.
I corvi passavano invisibili sulle teste degli ulani, traditi solo dal loro gracchiare stonato. La stagione era già troppo avanzata perché il sole della tarda mattinata bruciasse la foschia o la penetrasse a sufficienza. Se non avesse saputo che ore erano, nemmeno con una bussola in mano Heida avrebbe intuito da che parte si trovava il sole in quel momento. Poiché si dirigevano verso est, doveva essere sospeso in alto, ancora davanti a loro, sopra la bruma. Stava per dare l’ordine di procedere, quando attraverso le lenti un movimento rapido nella nebbia, come un uccello che si levasse dagli arbusti, calamitò la sua attenzione.
«Soldati…» sussurrò Mourek. «Vengono da questa parte.»
Gli ulani si defilarono dietro gli alberi. Mourek continuò a tenere d’occhio Heida, senza dare l’impressione di farlo. Ormai conosceva i suoi uomini, ma non abbastanza bene il tenente per prevedere come si sarebbe comportato in un caso simile. Heida avvertì l’attenzione del sottufficiale; rimase tanto immobile che un nervo del collo gli lanciò una fitta acuta, come se gli fosse stato conficcato un ago nella carne.
Nella foschia era impossibile distinguere i colori delle divise. Sembravano sagome mutilate dai vapori, dai fianchi in su, che procedevano in ordine sparso da sinistra. Non si sentivano rumori di finimenti, gli zoccoli dei cavalli avanzavano senza fruscii fra l’erba alta.
«Russi?» chiese Heida sottovoce.
«Devono venire più vicini, non riesco a distinguere i copricapo… forse, ora… Sì, russi!»
All’improvviso, senza che la voce tradisse la minima esitazione, il sergente Mourek si fece pallido sotto l’abbronzatura. Heida se ne accorse con un moto d’ansia crescente, perché se Mourek era preoccupato, doveva avere ottime ragioni.
I soldati nemici erano smontati di sella, divenendo riconoscibili. Cauti, rimasero accanto ai loro cavalli a guardarsi intorno, come se davvero si potesse scorgere qualcosa.
«Gli ussari si sono divisi per raggiungere Miedniki» bisbigliò Mourek. «Quindi, anche se hanno visto i russi, hanno dovuto restare nascosti. A seconda del numero, tenente, dovremo fare lo stesso.»
Heida non doveva consultare la mappa per ricordarsi che a sud, verso Wola, un reticolo di paludi rendeva difficile una manovra evasiva. C’era solo da sperare che la pattuglia del maggiore Czitó non fosse caduta in una trappola.
Mourek e Heida comunicavano a gesti, dando voce solo a poche parole, perché non si capiva ancora se il nemico aveva semplicemente mandato un pugno di uomini in ricognizione o se quella era l’avanguardia di un’unità più nutrita. Il fatto che i russi non parlassero suggeriva che anche loro, forse, erano in avanscoperta. «A meno che non si siano persi» fece Mourek, muovendo le labbra sotto i baffi senza emettere quasi suono, ma anche di quello non sembrò convinto. Mentalmente Heida stava contando gli uomini: tre, quattro, dieci… Dieci in tutto contro i loro sedici. Indicò il numero con le dita e Mourek annuì per confermare.
Anche a capo della pattuglia russa c’era un ufficiale inferiore, un podporučik o sottotenente. Mentre nelle settimane precedenti Heida si era preoccupato di dover fronteggiare un antagonista simile (considerando che solo per un capriccio del destino non potevano condividere un caffè o una cavalcata da colleghi), in quel momento non pensò a nulla del genere. Nemmeno provò alcuna simpatia per la sua controparte russa, che era semplicemente il nemico.
Il crinale andava e veniva, a tratti scomparendo del tutto. C’era da sperare, ragionò Heida, che la mancanza d’intricati corsi d’acqua oltre la collina significasse meno nebbia, o nessuna nebbia, e una vista chiara in direzione di Hrubieszów. In quel preciso istante, come un déjà vu, ricordò di aver sognato quel momento la notte prima: una cavalcata con i suoi uomini in cima a una boscosa altura di Galizia. Da quella posizione doveva sorvegliare le terre di sotto, come aveva fatto davvero durante la mattina. Nel sogno, sotto i suoi occhi si erano schierati migliaia, decine di migliaia di uomini in armi, l’esercito russo ordinato in corpi, divisioni, reggimenti, un gigantesco diorama di quelli che aveva visto delle battaglie di Waterloo o Canne attraverso uno spioncino, da ragazzo. E c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La Camera dello Scirocco
  4. Parte prima. LA MORTE E LA FANCIULLA
  5. Parte seconda. LA MORTE E SAN GIORGIO
  6. Parte terza. LA MORTE ALL’ARCIVESCOVADO
  7. Parte quarta. LA MORTE IN GALIZIA
  8. Parte quinta. LA CAMERA DELLO SCIROCCO
  9. Glossario
  10. Nota dell’autrice
  11. Copyright