Cristina regina di Svezia
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Cristina regina di Svezia

La vita tempestosa di un'europea eccentrica

  1. 420 pagine
  2. Italian
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Cristina regina di Svezia

La vita tempestosa di un'europea eccentrica

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Cristina divenne regina di Svezia a soli sei anni; curiosa, coraggiosa, intelligente, coltivò molteplici interessi ed ebbe amici importanti, tra cui il filosofo Cartesio. Convertitasi al cattolicesimo, nel 1654 abdicò e si trasferì nel Sud Europa, divenendo una delle più importanti figure della cultura romana. Figlia di un secolo caratterizzato da profondi cambiamenti, Cristina si trovò, a sua volta, a un bivio su questioni di religione, potere, politica e sesso. Considerata di volta in volta lesbica, prostituta, ermafrodito e atea, infranse ogni convenzione imposta alle donne del suo tempo per affermare il suo diritto a decidere e a seguire le proprie inclinazioni a prescindere dal ruolo e dal rango. In questa biografia tradotta e apprezzata in molti Paesi, Veronica Buckley dipinge un ritratto a tutto tondo della sovrana colta e anticonformista, vulcanica e imprevedibile, che visse in prima persona tutte le inquietudini e le contraddizioni del suo tempo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852075117

PARTE SECONDA

XII

Il passaggio del Rubicone

Tutto cominciò in modo piuttosto avventuroso. L’impazienza di partire di Cristina si rivelò con evidenza quasi imbarazzante a poche ore dall’incoronazione del cugino. Dopo aver aspettato a fatica la fine del banchetto celebrativo e prima dello scoccare della mezzanotte, si mise in viaggio per Stoccolma, con il nuovo re che le cavalcava accanto per scortarla fino alla prima stazione di posta, certamente in preda ai più vari sentimenti. A Stoccolma, Cristina trascorse alcuni giorni frenetici impegnata negli ultimi preparativi, ma riuscì a trovare il tempo di prendere parte a una funzione pubblica luterana, durante la quale ricevette per l’ultima volta la comunione nella fede dei suoi padri. La sua potrebbe essere stata una partecipazione strategica, allo scopo di dissipare i sospetti di una possibile apostasia e di evitare il diffondersi di voci che potessero convincere il Riksdag, tenacemente luterano, a recedere dagli impegni finanziari presi nei suoi confronti.
Viaggiando a rotta di collo, si diresse quindi verso il confine con la Danimarca con un imbarazzato gruppo di funzionari al seguito. A Halmstad si congedò da loro e, fatto significativo, anche dal suo cappellano luterano. Si trattava di una mossa imprudente, data la sua costante necessità di nascondere le proprie intenzioni, ma Cristina non era nello stato d’animo propenso alla cautela. Con la sola compagnia di quattro gentiluomini privi di incarichi ufficiali, proseguì, a tutti gli effetti come una privata cittadina, per Laholm, un piccolo centro di confine dove fece una sosta per completare gli ultimi cambiamenti cui da tempo anelava. Liberatasi della veste femminile, indossò gli abiti di foggia maschile che, da quel momento in poi, avrebbero costituito il suo abbigliamento preferito; poi si fece tagliare i capelli, che lasciò sciolti sulle spalle secondo la moda maschile dell’epoca, e, per completare il quadro, cinse la spada. Si dice che, non appena lo ebbe fatto, un cavaliere coperto della polvere della strada giunse a consegnarle una lettera da parte del nuovo sovrano, Carlo Gustavo. Conteneva un’ultima richiesta di matrimonio, che probabilmente suscitò un mesto sorriso in Cristina, abbigliata in pantaloni e stivali, una piccola figura mascolina con i capelli corti e la spada che le pendeva dal fianco.
Ma il suo morale era alto. «Finalmente libera!» esclamò, raggiungendo a grandi falcate la sponda danese di un piccolo corso d’acqua che segnava il confine fra Svezia e Danimarca. «Fuori dalla Svezia, dove spero di non tornare mai più!» Questo, almeno, è ciò che riferisce un resoconto francese, ma quel corso d’acqua era un’invenzione, così come molto probabilmente lo erano le esclamazioni di Cristina, create allora, e spesso anche in futuro, da una malevola penna gallica.
Il desiderio di rimanere in incognito, quantomeno, era genuino e rispecchiava una vecchia tradizione di famiglia: suo padre si era travestito per recarsi nel Brandeburgo a conoscere la promessa sposa e, molto tempo prima, il bisnonno, Gustavo Eriksson, il primo sovrano svedese della dinastia Vasa, aveva percorso il paese vestito in abiti da contadino o minatore, fomentando la ribellione contro i danesi. E poi c’era il più recente caso di Leonora Ulfeld: se una danese di alta statura poteva girare il mondo in pantaloni, altrettanto poteva fare una svedese di bassa statura. Non mancarono le malelingue che insinuarono che Cristina fosse incinta.
In ogni caso, per completare la finzione, Cristina decise di prendere il nome di uno dei suoi compagni di viaggio. Ciò che la indusse a decidere quale dei quattro scegliere fu la somiglianza con il proprio nome, o forse fu la vicinanza di età tra lei e il gentiluomo in questione o forse, infine, fu il fatto che il giovane conte Christoph von Dohna era, dei quattro, l’unico di nobili natali. Comunque, tutta quella messinscena che Cristina trovò così eccitante non ingannò le molte spie che la seguirono fuori dalla Svezia. Il suo travestimento, di fatto, metteva in luce più che altro le sue reali inclinazioni e la sua vera personalità. Cristina aveva adesso ventisette anni e, da quel momento in poi, sarebbe stata restia a indossare abiti femminili o a pettinarsi da donna. Si mostrava in pubblico con scarpe da uomo senza tacco o con gli stivali e cingeva spesso la spada; si sarebbe presentata al cospetto di principi e papi con le gambe in mostra e il cappello piumato in mano. Il suo linguaggio sarebbe diventato più rude e le sue abitudini più rozze; perfino il tono della sua voce sarebbe diventato più profondo. Sarebbe arrivato anche l’amore, e, con esso, una breve riscoperta della sua fragile femminilità, ma per ora c’erano solo l’eccitazione della fuga e la sublime euforia della libertà e del movimento. Formalità e responsabilità erano state eliminate insieme ai capelli lunghi, alle scarpe con i tacchi alti e agli scomodi abiti con lo strascico. Il già frenetico ritmo del viaggio aumentò e l’itinerario ufficiale si rivelò ben presto superato. Il re e la regina di Danimarca, che, dopo un lungo viaggio da Copenaghen, erano giunti nella cittadina di Kolding, al di là dello stretto di Kattegat, per tributare a Cristina una degna accoglienza, trovarono solo i resti del suo bagaglio, alcuni domestici stanchi e la polvere lasciata dai suoi veloci cavalli. Ai danesi non rimase che stringersi nelle spalle, mentre gli svedesi si profondevano in scuse; intanto Cristina, irrefrenabile e inarrestabile, si trovava già a cinque giorni di viaggio da lì. La sua era stata un’azione sventata e perfino pericolosa, dati i delicati rapporti diplomatici fra i due paesi che, in effetti, nel giro di due anni, si sarebbero trovati nuovamente in guerra. Ma la sua ansia di andare avanti aveva prevalso su ogni altra considerazione.
Non c’era motivo di spostarsi così in fretta e senza seguito. Carlo Gustavo aveva messo a disposizione di Cristina un’intera flotta di navi e lei avrebbe potuto viaggiare con tutti gli agi attraverso la Germania settentrionale, scortata da cinquemila soldati che dovevano recarsi a Brema. Ma Cristina aveva preferito un’alternativa più melodrammatica. Gli informatori di diverse potenze europee inviavano resoconti sui suoi progressi a ogni tappa e, a ogni tappa, questi resoconti si facevano più straordinari: viaggiava praticamente da sola, indossava i pantaloni, era entrata in una locanda con un’arma da fuoco che le pendeva dal collo. A metà luglio Cristina raggiunse Amburgo. Sarebbe stato uno dei suoi numerosi soggiorni in questo porto trafficato e lei non tardò a dare dimostrazione della sua tempra. I notabili della città le avevano preparato un alloggio, ma lei ci rinunciò senza tante cerimonie, scegliendo invece di abitare nella casa del suo nuovo banchiere, Diego Texeira, il cui invito era stato predisposto da don Antonio Pimentel. Come se non fosse bastato, Texeira era ebreo e addirittura conosciuto anche con il nome di Abraham. La sua famiglia era arrivata lì dal Portogallo qualche decennio prima e aveva prosperato nell’ambiente relativamente tollerante di quella cosmopolita città commerciale. Ma la tolleranza non era tale da consentire alla regina della più importante potenza protestante d’Europa di eleggere a sua residenza la dimora di Texeira e così coloro che avevano sopportato in silenzio i suoi pantaloni cominciarono adesso a protestare. Può darsi che Cristina si sia sentita in dovere di difendere Texeira; a dire il vero, non si preoccupava spesso di giustificare il proprio comportamento, ma, in quell’occasione, rispose in tono risoluto alle critiche da parte dei cristiani che si ritenevano oltraggiati, facendo notare che Gesù Cristo stesso «aveva sempre conversato con gli ebrei» e che lui stesso «proveniva dal loro seme» e «aveva preferito la loro compagnia a quella di tutti gli altri popoli».1 La risposta non fu dettata solo da ciniche considerazioni di carattere finanziario. Il disprezzo di Cristina per la bigotteria religiosa era genuino e i pastori di Amburgo non riuscirono a farle cambiare idea.
Mentre si trovava lì, Cristina decise di far visita al duca Friedrich von Holstein-Gottorp, suo parente per parte di madre, che viveva nella vicina città di Neumünster; si parlava del matrimonio fra una delle sue due figlie e il neoincoronato Carlo Gustavo e proprio in quel periodo il fratello del re, Adolfo, si trovava ad Amburgo per avviare le trattative. Cristina incontrò le figlie del duca e consigliò a Carlo Gustavo di sposare la maggiore. Ma, dopo aver visto i ritratti di entrambe, il sovrano scelse la graziosa e bionda sorella minore e, prima della fine dell’anno, Edvige Eleonora era già insediata come nuova regina di Svezia. Non si sa se gli sforzi di Cristina abbiano favorito o intralciato il matrimonio, ma lei non ne pensò mai un granché e, in seguito, sostenne che Carlo Gustavo si era pentito della sua scelta. Secondo lei, avrebbe detto che sarebbe stato infelice tutta la vita «perché Cristina mi ha rifiutato la gloria di possederla. Niente potrà consolarmi per questo».2
Lei, invece, si consolò con un vivace soggiorno ad Amburgo, suscitando polemiche a ogni passo. Entrava e usciva dalla città quasi senza scorta e, in un paio di occasioni, tornò così tardi che le porte cittadine dovettero essere aperte appositamente per lei. Quando un messo dell’imperatore venne a presentarle gli omaggi di Ferdinando, Cristina gli fece l’onore d’infilarsi una gonna corta sopra i pantaloni. Una spia inglese riferì a Londra i racconti che aveva udito in merito al suo «comportamento da amazzone». «Si ritiene» scrisse «che la natura, nel suo caso, abbia commesso un errore e che lei sarebbe dovuta nascere uomo, perché dicono che, quando parla, lo fa ad alta voce e bestemmia parecchio.»3 Cristina ricevette e fece visite, accettò e distribuì regali e trovò anche il tempo di ricordare i giorni della fanciullezza insieme alla cugina e un tempo compagna di studi Eleonora Caterina, sorella di Carlo Gustavo, che, sposatasi e divenuta contessa tedesca, risiedeva nelle vicinanze di Amburgo.
Una mattina all’alba, con la stessa noncuranza che aveva dimostrato nei confronti del re e della regina di Danimarca, Cristina lasciò la città. I notabili del posto, svegliandosi, si accorsero che se n’era andata senza preoccuparsi di prendere commiato da loro o da chiunque altro. Tutto quello che rimase di lei fu un ultimo, piccolo insulto: la copia di un’opera di Virgilio sulla panca che aveva occupato in una delle chiese luterane della città; l’aveva presa con sé per leggerla durante il sermone e, per distrazione o per provocazione, l’aveva lasciata lì.
Cristina puntava verso occidente e, mentre i gentiluomini di Amburgo erano indignati, perlomeno un gentiluomo di Londra era compiaciuto. Dall’ambasciatore Whitelocke, Cromwell aveva saputo che la regina era diretta a Spa, la città in cui il figlio del sovrano giustiziato attendeva in impaziente esilio. Carlo adesso aveva ventiquattro anni e non era ancora sposato. Un’unione fra lui e la ribelle regina di Svezia avrebbe potuto dare nuovo impulso alla dinastia Stuart e convincere i suoi numerosi simpatizzanti a rivoltarsi contro il nuovo protettorato dell’Inghilterra. Ma Spa era una cittadina della Pomerania e si trovava a oriente. Whitelocke si era evidentemente sbagliato: dopotutto, quella non poteva essere la destinazione della sovrana.
Invece, anche se Cromwell non avrebbe mai potuto immaginarlo, in quel momento c’era chi prendeva in considerazione per la regina un ben diverso matrimonio. Pare che, negli ultimi tempi, la moglie del Lord Protettore non godesse di buona salute e mentre, pallida in volto, si trovava a letto a guardare la sua adorata collezione di ritratti delle teste coronate d’Europa, s’imbatté in un’immagine di Cristina e pensò tra sé e sé: «Se dovessi morire, ecco la donna che potrebbe sostituirmi». Il pensiero di questa unione, vero o no, «è ancora nell’immaginario collettivo».4
L’Olanda, che a malapena merita il nome di terra,
se non come frutto dell’erosione delle Britanniche sabbie;
… questo maldigerito rigurgito del mare…5
Così almeno pensava Andrew Marvell, scrivendo da un paese, l’Inghilterra, in guerra contro il suo acquitrinoso vicino. Cristina passò per l’Olanda nel luglio 1654 e, che condividesse o meno l’opinione del poeta, l’attraversò rapidamente. Fece due sole soste e, in entrambi i casi, si trattò di pause di carattere culturale. A Deventer, s’incontrò con il filologo Johann Gronovius, poi proseguì per la splendida Utrecht, dove fece visita alla famosa studiosa Anna Maria van Schurman. Nativa di Colonia e di una ventina d’anni più vecchia di Cristina, Anna Maria era una brillante linguista e insegnante di filosofia; avrebbe ben presto pubblicato un famoso saggio sull’eventualità che una fanciulla potesse essere un’erudita. Cartesio l’aveva ammirata e gli studiosi alla corte di Cristina ne avevano parlato in termini entusiastici. Non si ha notizia di ciò che Cristina pensò o provò in quell’occasione, ma lei non aveva mai gradito la concorrenza e il piccolo germoglio d’amicizia fra le due intellettuali non fiorì ulteriormente. La regina salì in carrozza e incitò i cavalli verso sud, lontano dalla «terra degli annegati» di Marvell, diretta verso i cattolici Paesi Bassi spagnoli. All’inizio di agosto, arrivò ad Anversa, dove trascorse i primi giorni ospite di Madame Pimentel per poi trasferirsi in Rue Longue Neuve, a casa di García de Yllán, barone di Bornival e banchiere ebreo. Cristina lo conosceva attraverso Pimentel, che era suo amico personale, e Diego Texeira di Amburgo. Si stabilì nella sua splendida dimora e aspettò lì che arrivasse l’invito da Roma.
In fondo, non era un brutto posto dove aspettare. Un tempo principale centro commerciale e finanziario d’Europa, Anversa attraversava adesso un periodo di forte declino. La pace di Vestfalia aveva sancito la sua rovina mettendo fine alla libera navigazione sull’importante fiume Schelda e deviando in tal modo il commercio dalla città per indirizzarlo a nord, verso Amsterdam. Ma il lungo periodo di prosperità aveva assicurato ad Anversa una brillante vita artistica e, quando Cristina vi giunse, la sua ricchezza si vedeva ancora ovunque. Era stata la patria di Rubens e Van Dyck. Jacob Jordaens, adesso il massimo pittore della scuola fiamminga, lavorava ancora ad Anversa e aveva dipinto i trentacinque quadri che si trovavano nella sala del trono di Cristina a Uppsala. Si trovava lì anche Jan Boeckhorst, un artista noto a Cristina tramite uno dei suoi agenti, Michel Le Blon, un’ex informatore di Oxenstierna ed eccellente incisore. Consigliata da Le Blon e dal suo secondo agente, Johan-Philip Silfvercrona, Cristina si mise ad acquistare nuovi dipinti e oggetti artistici che non poteva permettersi, fra cui una statua d’avorio di Rubens raffigurante la dea dell’amore, e posò anche per il proprio ritratto – in realtà due ritratti, come Minerva e come Diana – a opera di Justus van Egmont.
La città offriva molte altre attrattive. A Stoccolma non c’era niente che potesse uguagliare le sue splendide chiese e la deliziosa piazza del mercato. La Storkyrkan, la chiesa in cui Cristina era stata incoronata, sarebbe sparita di fronte alla grande cattedrale gotica di Notre-Dame di Anversa, con la sua alta guglia.6 All’interno, la magistrale arte di Rubens risplendeva nelle magnifiche pale d’altare. Cristina ne amava la forza e la passione, anche se il soggetto raffigurato, la deposizione di Cristo dalla croce, incontrava molto meno il suo gusto. Gli anni di ricerca spirituale e l’imminente conversione non l’avevano avvicinata alla figura di Cristo. Il cuore pulsante del credo cristiano continuava a rimanere muto per lei.
Questo non le impediva di fare frequenti visite ai padri gesuiti e alla loro spettacolare nuova chiesa con i dipinti di Rubens e del giovane Van Dyck. La chiesa, edificata con l’intento di accrescere la fama della Compagnia di Gesù, aveva suscitato solo critiche, in quanto la ricchezza della costruzione veniva giudicata incompatibile con lo spirito di povertà religiosa; ingenti debiti l’avrebbero sommersa per decenni. Ma i debiti non erano mai stati un deterrente per Cristina, la quale riteneva che spendere a piene mani fosse più o meno un dovere per ogni cuore nobile. Lo splendore della chiesa le diede la certezza di aver legato la propria sorte a persone fatte come lei. Ma Anversa poteva vantare anche lo splendore spirituale della povertà cristiana, che Cristina ebbe modo di sperimentare facendo numerose visite a un convento di carmelitane. Qui le suore camminavano scalze e in silenzio, in una pia e pura atmosfera che invogliava alla preghiera, se non all’emulazione. Sebbene i progetti di conversione di Cristina fossero ufficialmente ancora segreti, le sue visite ai gesuiti e alle carmelitane fecero aumentare i pettegolezzi. Da Strasburgo, si diffuse la notizia che lei si era fatta suora e aveva fatto voto di «castità perpetua».7 E, a Londra, il capo degli informatori di Oliver Cromwell ricevette un rapporto stupefacente dal suo agente: «Avvisato da Roma che la regina di Svezia intende andare là ad abbracciare quella religione. Quanto ciò sia probabile non mi è dato sapere».8
A metà settembre, Cristina incontrò un viso familiare dei tempi di Stoccolma: il conte Raimondo Montecuccoli, duca di Melfi, diplomatico e generalissimo, eroe della guerra dei Trent’anni, ambasciatore imperiale, eminente diarista. Era stato lui a portare fuori dalla Svezia i gioielli e le monete di Cristina e lei lo aveva gratificato con l’Ordine dell’Amaranta.
Sebbene Montecuccoli fosse giunto da Vienna apposta per vedere la regina, in realtà i due s’incontrarono per caso mentre passeggiavano in carrozza per le strade di Anversa. Cristina invitò subito il conte a salire sulla sua vettura, a bordo della quale lui trovò altri due gentiluomini (un giovane principe e l’ex governatore di Norvegia imparentato con Leonora Ulfeld e caduto in disgrazia), la cui presenza confermava la duplice propensione di Cristina per la regalità e la ribalderia. Quando poi fu a tu per tu con la regina, Montecuccoli rivelò lo scopo della sua missione: era stato inviato dall’imperatore Ferdinando a consegnare una sua lettera personale. La missiva era gentile, ma non prometteva nulla, esattamente come la missione del conte. Montecuccoli ben presto partì per una vacanza in Inghilterra, ma non prima che Cristina lo avesse messo in allarme dichiarando che stava per sposare il re Filippo di Spagna e assicurandogli che l’intera Olanda protestante ne era convinta. Il re era già sposato, ma non aveva figli maschi e ci si aspettava una sor...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Cristina regina di Svezia
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. Epilogo
  7. Bibliografia
  8. Ringraziamenti
  9. Note
  10. Inserto fotografico
  11. Copyright