La Grancontessa
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La Grancontessa

Vita, avventure e misteri di Matilde di Canossa

  1. 264 pagine
  2. Italian
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La Grancontessa

Vita, avventure e misteri di Matilde di Canossa

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28 gennaio 1077: la contessa Matilde domina la scena dello storico incontro a Canossa fra due grandi quanto potenti avversari, l'imperatore Enrico IV e papa Gregorio VII. Ma chi era questa donna che, agendo con discrezione e diplomazia, riuscì a ricomporre il conflitto più furioso fra il potere laico e il potere religioso?
Signora di un ricco e vastissimo territorio esteso dall'alta Lombardia fino al Lazio, dal Mar Tirreno all'Adriatico, legata all'imperatore da vincoli di parentela e di vassallaggio e ancor più al papa per affinità ideale e spirituale, Matilde è diventata presto un personaggio leggendario. La biografia ne ricostruisce l'eccezionale vicenda umana, ricca, contradditoria, variegata. Accanto alla "Grancontessa" sfilano molti altri personaggi mentre sullo sfondo rivive un suggestivo affresco del Medioevo più oscuro e affascinante.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852074226
Argomento
Storia
VII

Come Matilde fu accusata di essere l’amante del papa e il papa scomunicò l’imperatore

Il piccolo e scontroso monaco, nero di occhi e capelli, che il 22 aprile 1073 è stato eletto papa col nome di Gregorio VII, è Ildebrando di Soana. Era arrivato a Roma da bambino, lo aveva ospitato lo zio Lorenzo d’Amalfi, abate del monastero benedettino di Santa Maria sull’Aventino. Era arrivato a Roma perché voleva studiare e aveva studiato in una scuola di preti sotto la guida di Giovanni Graziano, parroco a Porta Latina: non c’era altro. Ancora giovanissimo era diventato il cappellano di Gregorio VI: un papa tedesco eletto da Enrico III e da lui stesso di lì a poco deposto. L’esautorato pontefice era fuggito a Colonia, portando Ildebrando con sé. In seguito, Ildebrando si era trasferito a Cluny, era entrato nell’ordine dei benedettini, e qui aveva studiato e insegnato. In visita a Cluny passò un giorno il vescovo Brunone di Toul, e grande impressione gli aveva provocato la secca e incisiva predica del macilento italiano sulla necessità della riforma del clero e del ritorno al suo celibato. Eletto papa col nome di Leone IX, Brunone lo aveva chiamato a Roma come suo consigliere, gli aveva affidato la direzione del monastero romano di San Paolo fuori le mura, lo aveva mandato in giro per l’Europa come suo ambasciatore e predicatore sulla necessità di riformare la Chiesa.
Ildebrando di Soana è un rigoroso teologo. Aveva presieduto un concilio sulle audaci teorie eucaristiche di Berengario da Tours che rasentavano l’eresia; nel sinodo di Lione, aveva rappresentato il papa dibattendo il tema della simonia; poco più tardi, era stato nominato legato di Stefano IX alla corte imperiale di Poelde; era infine stato molte volte a Milano, per cercare di mettere ordine nei tumulti fra i patarini e i preti simoniaci. Gli piace stare nell’ombra, la sua grande missione è individuare e spostare gli uomini adatti a lavorare per la riforma della Chiesa. A ogni morte di papa, il suo nome figurava sempre il primo dei candidati: finora aveva rifiutato, spiegazioni non ne aveva mai date.
Di aspetto dimesso e umile, in realtà Ildebrando è facile all’ira, autoritario e spietato. Chi lo conosce bene lo definisce «pio coi miseri e tremendo coi potenti». Non ha mai raccontato nulla di sé. Quel che si è venuto a sapere, è per sentito dire. Dicono sia figlio di un falegname di Soana, poche case alle falde dell’Amiata costruite nel fitto della boscaglia, dove la terra si sfalda e frana svelando dirupi muschiosi e umide grotte in una terra grumosa, gialla e rossa, misteriosa e magica. La gente parla di spettri che si aggirano intorno alle arcane e monumentali tombe etrusche scavate nel tufo, chi sente strani versi di misteriosi uccelli durante il plenilunio, chi giura che nei boschi gli agnelli giochino con i lupi. Da Soana è discesa la voce che Ildebrando, quando era bambino, sulla segatura del pavimento della bottega del padre aveva scritto col dito una frase in latino, che pressappoco diceva: «Io camminerò nella luce». Da allora, la gente del borgo aveva cominciato a giurare che, in certi momenti, le sue vesti emanavano raggi luminosi. In verità, non si sa neppure se Ildebrando sia nato a Soana e se oggi abbia, come qualcuno pensa, cinquantotto anni. Questo è dunque Gregorio, il cui nome significa «Colui che vigila», e si è scelto uno stemma orgoglioso: un leone rampante in campo rosso. Gregorio, che non ha annunciato all’imperatore la sua elezione, e tantomeno gli ha chiesto il consenso. Gregorio, che il 26 maggio 1073 ha invitato Beatrice e Matilde di Canossa ad assistere alla sua consacrazione in San Pietro.
Gregorio VII è un uomo ossessionato dal dovere e dall’ordine. Immagina uno stato pontificio sicuro e pacifico. Contro le scorrerie dei pirati saraceni e normanni, che assalgono le imbarcazioni e uccidono i naufraghi sulle coste italiane, ha organizzato una flotta veloce con punti di vigilanza a Ostia e Ancona. Navi agili e ben equipaggiate, dipinte di azzurro e con tantissime vele. Navi costose, che ha affidato a Matilde di Canossa, guardiana intrepida che all’improvviso sbarca nei luoghi più turbolenti e rischiosi: a Livorno, a Civitavecchia, perquisendo marinai e soldati, stanando i ricettatori di merce rubata, requisendo i magazzini e le navi sospette.
Gregorio VII esige che l’ordine e la chiarezza regnino soprattutto a Roma: Roma umiliata e infangata da gente violenta, Roma profittatrice e corrotta, Roma che sfrutta, che imbroglia e che ruba. Il giovane Cencio, figlio del prefetto Stefano, possiede interi quartieri della città, dicono che si sia arricchito spalleggiando le azioni più basse dei nobili romani; non è del resto passato gran tempo da quando, al prezzo di 300 libbre d’argento, aiutò a fuggire l’antipapa Cadaloo. A capo del ponte Milvio, Cencio ha costruito una torretta, obbligando i passanti a pagargli un pedaggio. Gregorio ha ordinato che la guardiola delle ingiuste gabelle sia immediatamente distrutta.
I rapporti di Gregorio VII con l’imperatore di Germania sono ambigui, fumosi. Il papa infatti sta vivendo un momento delicato, non può permettersi di esasperarlo con ritorsioni o minacce: i normanni hanno ripreso le loro tremende scorrerie nelle sue terre, sono già arrivati a Ortona; i turchi catturano i cristiani in pellegrinaggio verso il Santo Sepolcro, li spogliano di tutto, li bastonano, compiono spaventose carneficine. E ancora lui non dispera di schierare Enrico accanto a sé, come sostenitore e difensore della grandiosa campagna per riformare la Chiesa. Subito dopo la sua elezione, ha infatti avvertito il Gobbo di Lorena che avrebbe inviato in Germania i suoi ambasciatori per trattare con l’imperatore «gli interessi della Chiesa e l’onore della corona»; e addirittura ha scritto a Enrico IV che, se partirà per l’Oriente a combattere i turchi, come fortemente desidera, sarebbe felice se «durante la nostra assenza, potessimo affidare la Chiesa alla protezione di Colui che Dio ha posto al vertice delle cose»; concludendo la dolcissima lettera con l’assicurazione che, prima di essere consacrato in San Pietro, aspetterà il suo «placet». Infine, non ancora contento, ha chiesto all’imperatrice vedova Agnese, che vive a Roma già da nove anni, di andare in Germania a rassicurare suo figlio sulle migliori intenzioni nei suoi confronti. Su un solo punto, però, non transige: Enrico rinunci una volta per tutte a investire i più alti rappresentanti del clero, riconoscendo che il privilegio spetta esclusivamente al papa.
Il vescovo di Prenestina e il vescovo Giraldo da Ostia accompagnano Agnese in Germania, in settembre sono già a Norimberga. Enrico li accoglie, li ascolta, ammette di aver compiuto molti errori in passato, riconosce di aver mantenuto rapporti con i suoi consiglieri scomunicati nonostante il divieto del papa, e solennemente si impegna a obbedirgli: non oserà mai più investire un vescovo, un arcivescovo, un abate, né pretenderà di scegliere il pontefice. Non ancora del tutto sicuro delle sue promesse, Gregorio ha coinvolto nell’opera di convincimento anche il conte Rodolfo di Svevia, che di Enrico è cognato e zio, il vescovo Rinaldo di Como, Anselmo vescovo a Lucca e nipote di papa Alessandro, il diacono patarino Erlembardo, il Gobbo Goffredo di Lorena, le contesse di Canossa. Beatrice e Matilde sono infatti le più ferme e risolute sostenitrici del papa. Viaggiano senza sosta avanti e indietro da Roma, discutono direttamente con lui gli affari della Chiesa, riverite e ascoltate per la profondissima fede, la generosità, la disponibilità, l’influenza che esercitano sulla loro gente e sui loro vassalli. Dopo la morte del simoniaco Guido da Velate, Gregorio le ha invitate a discutere l’elezione dei vescovi di Milano e di Lucca, e sono sempre le prime a conoscere i suoi veri sentimenti nei confronti dell’imperatore.
L’invito del papa perché l’imperatore rinunci alle investiture dell’alto clero è fermo, implacabile. Il tono è dolce. Durissima, tuttavia, è la minaccia: «E se poi, malauguratamente, non vorrà ascoltarci, noi non dobbiamo e non possiamo rinunciare agli ordini della nostra madre Chiesa romana, che ci ha nutrito. E certamente per noi è più sicuro resistergli, difendendo la verità fino all’offerta del nostro sangue, piuttosto che precipitare nella morte eterna consentendo insieme a lui, Dio non voglia, alla realizzazione della sua volontà per il trionfo del male». Benché abbia la pazienza di Giobbe, pare infatti che Gregorio sia pronto ad agire con estrema durezza in nome dell’amore che lo spinge a salvare a ogni costo il peccatore. È un atteggiamento che Matilde e Beatrice conoscono fin da quando si era presentato per la prima volta a Canossa per convincerle a non andare in convento, ma a rimanere nel mondo per aiutare la Chiesa ad attuare le riforme che la risanassero e rinforzassero la sua dignità. Come persona, Gregorio afferma di non sentirsi nessuno. Ma in quanto papa è persuaso che Dio lo abbia colmato d’amore, affermando che un cristiano lo sente quando è guidato da Dio nelle sue azioni, che i papi sono tutti santi, che un buon cristiano ha il dovere di fare in modo che tutti abbiano rapporti diretti con la Santa Sede, che l’amore deve spingere il buon cristiano ad agire per salvare dalla rovina l’anima di un altro cristiano, andando anche contro la sua stessa volontà, se è necessario. Concludendo con fermezza incrollabile: «Se tu non rimproveri all’ateo il suo peccato, a causa dei suoi peccati lui perirà; ma io chiederò a te ragione del suo sangue».
Alla fine di settembre, le trattative per un colloquio pacifico fra il papa e l’imperatore sembrano arrivate a un buon punto. Scrive infatti Gregorio a Matilde: «L’imperatore mi ha inviato parole piene di dolcezza e di obbedienza, pareva il figliol prodigo. Ha inoltre ascoltato la mia richiesta di mandare a Roma i suoi cinque consiglieri scomunicati perché davanti a me si discolpino, affermando di non aver mai dato loro l’incarico di corrompere il clero».
Nei primi giorni di marzo del 1074, Beatrice e Matilde di Canossa sono presenti al sinodo quaresimale: il primo, dopo l’elezione di papa Gregorio. Si sono installate nel loro palazzo di Roma, in un continuo andirivieni di abati, arcivescovi, cardinali. Hanno una tribuna fra le più alte e vicine al trono pontificio, hanno diritto di intervenire ed esprimere il loro parere. In quanto generale della Chiesa, il Gobbo Goffredo di Lorena siede accanto a sua moglie: è gentile, galante, ancora si illude di riconquistare questa donna bella e sfuggente che tutti gli invidiano, mentre nessuno immagina in quale inferno lei lo abbia cacciato. Il sinodo si conclude con la scomunica di Roberto il Guiscardo e la richiesta ai principi di fornire armi e soldati per una spedizione contro i normanni. Il Gobbo promette truppe e vettovaglie, si vedrà però di lì a poco che si trattava di una menzogna. Finirà nel nulla anche il rifornimento di 30.000 soldati da parte delle contesse di Canossa per colpa di insanabili rivalità fra i loro capitani.
Subito dopo il sinodo, Gregorio decide che andrà in mezzo ai turchi. Si presenterà come un semplice sacerdote, e non come papa; predicherà contro i pagani e soccorrerà i pellegrini derubati e torturati; andrà come testimone della Chiesa di Cristo, e per liberare il sepolcro di Cristo sarà disposto a morire. Mentre si prepara a partire, scrive a Matilde. Le scrive che sarebbe felice se in questo viaggio ci fosse anche lei, e meglio ancora sarebbe se insieme a lei ci fosse l’imperatrice vedova Agnese: Matilde e Agnese, le due donne che rappresentano i massimi poteri laici in Europa, a fianco del papa in difesa del Santo Sepolcro. «Io mi vergogno quasi a dire a qualcuno con quanta insistenza desidero attraversare il mare per soccorrere i cristiani, che come bestie al macello vengono uccisi dagli infedeli» le scrive. «Ma a te, o carissima figlia prediletta, non esito a confidare tutto ciò che anche tu potresti dire. Fammi avere il tuo consiglio; anzi, meglio: procura un grande aiuto al tuo Creatore. Se, come dicono i poeti, è bello morire per la patria, io dico che è bellissimo ed estremamente degno di gloria offrire questa carne mortale per Cristo, che è vita eterna.» Alla fine, però, il papa non parte. Nessuno può accompagnarlo, nessuno vuole lasciare l’Europa. Il pericolo è qui, ai confini con la Germania; oggi, più che mai, è necessario controllare le mosse dell’imperatore. Fra Roma e la sede imperiale si è infatti andata creando una tensione fortissima. Nonostante le belle promesse, Enrico IV continua a investire vescovi e arcivescovi. Spazientito, il papa ha reagito con durezza. Durante il sinodo quaresimale del 1075, un diluvio di scomuniche piomba sull’arcivescovo Liemano di Brema, su Werner di Strasburgo, su Enrico di Spira, su Ermanno di Bamberga, su tutto l’alto clero tedesco che rifiuta di sottomettersi alle regole della riforma, sui vescovi di Milano, di Aquileia, di Ravenna, Guglielmo di Pavia, Dionisio di Piacenza e Cuniberto da Torino, tutti colpevoli di continuare a esercitare il loro ministero benché investiti da Enrico e non dal papa.
Enrico ha scelto la tattica del silenzio, accetta le ritorsioni del papa senza reagire col dispetto e la forza. Ha infatti bisogno di una tregua, sta attraversando un momento difficile. Si è ribellato a lui il potente arcivescovo di Magonza, ci sono preoccupanti sollevazioni in Sassonia, una provincia forte e battagliera che lo contesta, rifiuta di pagare le tasse, pretende l’indipendenza. L’imperatore ne è tanto preoccupato da scrivere al papa perché preghi per lui. Per tutta risposta, il papa manda in Sassonia un suo ambasciatore senza aspettare l’autorizzazione di Enrico, e addirittura vietandogli di marciare contro gli insorti finché il suo inviato non avrà fatto ritorno. La precipitosa e arrogante iniziativa del papa indispettisce l’imperatore: non sia mai detto che lui obbedisca a qualcuno che non sia il suo Signore Iddio, l’unico autorizzato ad avere rapporti diretti con lui. Dopo una lunghissima marcia, Enrico arriva infatti nella sassone cittadina di Homburg. Goffredo di Lorena è con lui. Enrico ordina che siano piantate le tende e che la truppa riposi. I soldati si liberano delle armature, fumano intanto le zuppe dentro i paioli appesi a tre pali piantati nel terreno riarso, già qualcuno è ubriaco e sbraita nel sonno. Enrico si è disteso nudo sul letto, boccheggia dal caldo, è sfinito. All’improvviso, gli si para davanti il duca Rodolfo di Svevia: i sassoni sono al di là del colle, gli annuncia. Enrico è già in piedi, e sommariamente vestendosi ordina di schierare le truppe. Enorme è la confusione e l’eccitazione nel campo. Enrico ordina il silenzio, con un cenno della mano saluta Rodolfo: è una tradizione della casa di Svevia, avere l’onore della prima linea e di attaccare battaglia. È quasi il tramonto. I sassoni stanno gozzovigliando mentre, nudi e storditi dal vino, sono assaliti dalle truppe imperiali. È una carneficina, e non è ancora calata la notte quando Enrico ritorna all’accampamento in trionfo, sollevato sulle spalle dei suoi capitani.
La notizia del massacro di Homburg inorridisce l’Europa. Qualche vescovo tedesco dissente: non c’era bisogno di insanguinare fino a questo punto la terra. Sconcertante è invece la reazione di Gregorio VII, che manda a Enrico le congratulazioni per la vittoria. Matilde è furente con suo marito Goffredo, che è passato dalla parte dell’imperatore e gli ha offerto il suo aiuto, trascurando di soccorrere il papa contro il Guiscardo. Il padre, morendo, gli aveva trasmesso il vessillo e il titolo di generale della Chiesa: mentre si è comportato indegnamente, da traditore.
«Ecco che cosa ci ho guadagnato, ascoltando mia madre e le ragioni della Chiesa» scrive amareggiata a Gregorio. «Avevo per marito un uomo ributtante e violento; e adesso è anche spergiuro.» Risentita, l’ammonisce la madre: «Se tu fossi stata accanto a lui a sorvegliare i suoi passi, così com’è dovere di tutte le mogli, così come io stessa fino all’ultimo ho fatto con Goffredo il Barbuto, il Gobbo sarebbe rimasto al suo posto». Ma oramai, il tradimento è compiuto. Disperate, madre e figlia scrivono al papa: le illumini su che cosa devono fare, come devono comportarsi con lui. L’11 settembre 1075, Gregorio risponde:
«Quanto al consiglio che ci chiedete su che cosa dovete rispondere a Goffredo, non lo sappiamo, dal momento che ha apertamente infranto il giuramento che vi aveva fatto e noi non siamo in grado di credere alcunché di sicuro delle sue promesse.» Matilde si aspettava qualcosa di più. È già difficile, per lei, barcamenarsi fra il papa e l’imperatore. Un marito che sceglie definitivamente di stare dalla parte di Enrico IV, compromette la sua politica di equilibrio, il suo stare un po’ da una parte e un po’ dall’altra, il suo compito di mediatrice sommessa e solerte, così da impedire uno scontro frontale. Non dorme, non mangia, come una freccia esce a cavallo da sola, la vedono inoltrarsi sui boschi dell’Appennino, scendere a valle, allontanarsi nella pianura, nascondersi nella foresta fitta sulle rive del Po:
«Morirà, singhiozza la sua nutrice; la mia signora morirà di dolore.»
Ancora una volta Matilde scrive a Gregorio: lui, che può tutto, la liberi dal marito, dichiari nullo il matrimonio. Quanto a lei, si ritirerà in un convento. È stanca di affrontare pericoli, di prendere decisioni pesanti, di rinunciare alla sua esistenza di donna per occuparsi di papi e di imperatori in perenne conflitto, di mariti che passano da un partito all’altro, di preti scomunicati, della sua gente che vive nel terrore di essere travolta dalla guerra. Il papa la convoca a Roma, questi non sono argomenti che si possano trattare per lettera. Intanto preghi, si penta di questo suo insano desiderio, si confessi, faccia la comunione, non pensi a divorziare, non può:
«Smettila di peccare, prostrati davanti alla Santissima Vergine, la Santissima Vergine che è dolce con i peccatori e tenera con i convertiti, la esorta. Prostrati davanti a lei, effondi le lacrime del tuo cuore contrito e umiliato.» Le proibisce di ritirarsi in convento: «C’è bisogno di stare nel mondo a rendere testimonianza. Tu hai un altro compito. Benché il potere ti faccia orrore, tu lo detieni. Impara a esercitarlo. Tu devi agire come un uomo. Non è tempo di giocare alle dame e ai cavalieri. È tempo di lupi, di lupi che mangiano gli agnelli».
La vittoria sulla Sassonia ha insuperbito l’imperatore: si sente più forte, si sente di nuovo il padrone del mondo. Scrive infatti a Gregorio usando un tono arrogante, lo esorta a scomunicare i vescovi che avevano cercato di proteggere i sassoni. Gregorio gli risponde, sferzante: non se la prenda coi vescovi, sarebbe meglio se invece risarcisse i danni che ha provocato, quella terra martoriata non si è ancora ripresa.
Durante l’estate, il papa si ammala e si allontana da Roma. Senza interpellarlo, Enrico nomina i vescovi di Spira, di Bamberga, di Colonia e di Liegi, e sfidando la sua pazienza giun...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA GRANCONTESSA
  4. L’arazzo di famiglia
  5. I. Come il conte Bonifacio, chiamato il Tiranno, fu ucciso a tradimento da una freccia avvelenata
  6. II. Come Bonifacio sposò la bellissima Beatrice di Svevia, figlia adottiva e nipote dell’imperatore
  7. III. Come Madonna Beatrice riprese marito per amore di Dio e la contessina Matilde fu fidanzata al figlio del suo patrigno
  8. IV. Come Matilde si trovò erede universale del padre e finì prigioniera dell’imperatore
  9. V. Come Matilde si sottomise alla volontà del monaco Ildebrando di Soana
  10. VI. Come Matilde sposò e in fretta si liberò del Gobbo di Lorena
  11. VII. Come Matilde fu accusata di essere l’amante del papa e il papa scomunicò l’imperatore
  12. VIII. Come Enrico IV, sfuggendo ai principi tedeschi, scese in Italia per incontrare papa Gregorio VII
  13. IX. Come Enrico IV implorò il perdono del papa e andò a Canossa a fare pubblica penitenza
  14. X. Come l’imperatore fu scomunicato per la seconda volta da papa Gregorio e come papa Gregorio fu a sua volta dichiarato deposto dall’imperatore
  15. XI. Come l’imperatore punì Matilde di Canossa dichiarandola bandita e chiamandola semplicemente signora
  16. XII. Come Matilde sposò un principe di sedici anni mentre lei ne aveva più di quaranta e per dispetto sconfisse definitivamente l’imperatore
  17. XIII. Come Matilde riuscì a mettere Enrico IV contro suo figlio Corrado, mentre il papa bandiva la prima crociata per liberare il Santo Sepolcro
  18. XIV. Come Enrico IV morì e la contessa di Canossa dichiarò il figlio di lui, Enrico V, suo erede universale
  19. Morte della grancontessa e fine di tutto il suo mondo
  20. Bibliografia
  21. Copyright