I cuccioli non dormono da soli
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I cuccioli non dormono da soli

Il sonno dei bambini oltre i metodi e i pregiudizi

  1. 208 pagine
  2. Italian
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I cuccioli non dormono da soli

Il sonno dei bambini oltre i metodi e i pregiudizi

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"Questo libro vuole aiutarvi a scegliere dove e come dormire serenamente con i vostri figli. Sfogliandolo, troverete qualche consiglio pratico e alcune semplici strategie che spero vi aiuteranno a gestire i risvegli dei vostri bambini con serenità e, perché no, con un pizzico di fantasia. Cercheremo di sfatare i pregiudizi più comuni nella nostra cultura riguardo al sonno dei bambini da 0 a 3 anni. A noi sembra normale che i bambini debbano dormire il prima possibile da soli per tutta la notte, che debbano lasciare il seno entro il primo anno di vita, che i genitori possano o debbano 'fare tutto' esattamente come prima, che i piccoli si debbano adattare ai ritmi degli adulti e che la dimensione di ignoto, incertezza e novità determinata dall'arrivo di un neonato debba essere in qualche modo controllata. È un ignoto che spaventa, per questo si pensa di poterlo evitare ricorrendo a un metodo o al parere di esperti. Ricordiamoci però che i processi volti a modificare i ritmi fisiologici e naturali del sonno non servono al bambino. Servono invece ai genitori, che vengono illusi sulla necessità di applicarli. Non esistono metodi dolci o metodi rigidi: esistono adulti che, a causa dei ritmi frenetici imposti dalla nostra società, credono di poter interferire in ciò che è naturale e innato in ogni bambino. Lasciar piangere un figlio perché impari a dormire da solo è fonte di stress soprattutto per chi è ancora troppo piccolo per capire le parole e le motivazioni dei genitori. E finora non abbiamo strumenti che ci consentano di valutare l'impatto emotivo a breve e a lungo termine di quella forte sensazione di abbandono, ma sappiamo che c'è ed è potenzialmente dannoso.

"Le ricerche scientifiche cui si ispira questo libro promuovono il bisogno dei bambini di essere rassicurati anche di notte, suggerendo un intervento attivo da parte degli adulti. Occorre tener conto della fisiologia del sonno infantile e considerare i risvegli notturni come una normale tappa di crescita del sistema nervoso, mirando a una gestione dei risvegli capace di rispettare le esigenze di tutti, grandi e piccini." Alessandra Bortolotti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852070617
1

SONNO, ACCUDIMENTO E CULTURA A CONFRONTO

Natura o cultura?

Prendersi cura di un bambino non è qualcosa che si può fare a ore; è una relazione umana viva che modifica i caratteri di entrambi. Le cure materne non possono essere valutate in termini di ore al giorno ma solo in termini di piacere reciproco che madre e figlio riescono a ottenere.
John Bowlby
Anna va di fretta, ha un impegno imprevisto: afferra la borsa, le chiavi della macchina, il cellulare, esce di casa e chiama l’ascensore. Le porte si aprono e appare l’inquilina del piano di sopra, quella con due figli piccoli che di notte non fanno che piangere. Ha la faccia stanca e il più grande in braccio. Anna non sa cosa dire. Restano tutti in silenzio, tranne il piccolo Giovanni che guarda Anna negli occhi per tutto il tragitto e, poco prima di scendere, le chiede sorridente: “Vieni con noi al parco?”.
Una scena del tutto inventata, che potrebbe insinuarsi in una qualsiasi delle nostre giornate. Siamo così occupati a correre dietro a impegni, svaghi e doveri da non accorgerci dei ritmi che ci impone la società e di quanto siamo diversi dai nostri figli. Diamo tutto per scontato, come se ciò che accade intorno a noi fosse la regola e dovesse valere dappertutto. Spesso, però, ciò che ci sembra normale non lo è affatto in altri luoghi. Basta aver viaggiato qualche volta per accorgersene.
A molti può sembrare imbarazzante scambiare due chiacchiere in ascensore con una vicina con cui non si condivide niente, a parte i fastidiosi rumori che i suoi figli fanno quotidianamente al piano di sopra. Forse, anzi, preferiremmo che quell’ascensore fosse vuoto ogni volta che lo prendiamo, per non dover improvvisare spiacevoli conversazioni con un estraneo. Ma per i bambini non è altrettanto imbarazzante. Loro sono naturalmente spontanei e socievoli, non si fermano davanti a presunte norme di “buona educazione”: invitano anche uno sconosciuto a giocare e a divertirsi con loro; comunicano come possono, con semplicità e istinto di condivisione, anche con persone che conoscono poco o non conoscono affatto.
Un antico proverbio africano dice che per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio, sottintendendo che è più facile farlo in compagnia, in una cerchia di adulti che collaborano e condividono gli aspetti pratici ed emotivi legati al prendersi cura di chi dipende completamente da loro. Dubbi, incertezze, soluzioni personali a questioni comuni: la con-divisione, ossia il fatto di “dividere” compiti e punti di vista con persone della propria comunità, rende tutto più umano e meno solitario. Aiuta a non sentirsi inadeguati e a considerare i bambini per quello che sono, ovvero piccole persone con grandi bisogni che, il più delle volte, vengono offuscati dai pregiudizi tipici di culture come la nostra e da una mentalità che mette al centro soltanto l’adulto. La condivisione, fra l’altro, aiuta i bambini a crescere in una collettività di grandi e piccini che stanno volentieri insieme attraverso esempi di collaborazione e cooperazione in situazioni sociali condivise.
Un adulto da solo, invece, può essere messo a dura prova a contatto con un bambino. Diventare genitori nella nostra società occidentale richiede notevoli risorse personali, sia a livello fisico che emotivo, legate non solo al compito in sé, ma all’influenza della propria storia, dell’assetto societario a cui si appartiene e di ciò che il proprio ambiente culturale considera normale e appropriato per un genitore.
Nella nostra cultura sembra normale, per esempio, che i bambini debbano dormire da soli e per tutta la notte prima possibile, che debbano lasciare il seno entro il primo anno di vita, che i genitori possano o debbano “fare tutto” esattamente come prima, che i piccoli si debbano adattare ai ritmi degli adulti e che la dimensione di ignoto, incertezza e novità determinata dall’arrivo di un neonato debba essere in qualche modo controllata. È un ignoto che spaventa, per questo si pensa di doverlo evitare o colmare ricorrendo a qualche metodo o al parere di esperti. La società attuale, fra l’altro, è segnata da una profonda crisi economica che obbliga le famiglie a fare i conti con impieghi da tenersi stretti e orari difficili da conciliare con l’accudimento di un figlio piccolo. Spesso lo stipendio è uno solo ed è difficile arrivare a fine mese. Altrettanto spesso, se le mamme hanno un’occupazione, rischiano di perderla quando rimangono incinte e vivono il rientro al lavoro come un momento difficile e delicato, a cui non possono rinunciare per ragioni puramente economiche.
Come siamo arrivati a questo, e che cosa significa per le famiglie e per i bambini? Quali ripercussioni possiamo aspettarci sulla società? Perché abbiamo difficoltà a scambiare due parole con il vicino di casa, se l’istinto sociale degli esseri umani è proprio ciò che ne ha permesso la sopravvivenza? C’è qualcosa che possiamo imparare dai bambini?
L’argomento è ampio e profondo, e coinvolge variabili culturali e antropologiche di non facile discussione. Nella nostra cultura, i bisogni universali dei bambini vengono comunemente visti in quanto abitudini da etichettare come giuste o sbagliate e dunque da reprimere, non come espressioni della natura stessa del bambino.
Viviamo in una società che mette al centro l’adulto, chiamato a produrre e a consumare. Il marketing e la cosiddetta “crescita economica” condizionano fortemente i genitori che, nel diventare tali, si ritrovano improvvisamente a dover fare i conti con una dimensione affettiva tanto intensa e inaspettata, tanto urgente e necessaria quanto quella di crescere i propri figli. Finché questi non nascono, la dimensione intergenerazionale può sembrare poco importante, se non addirittura superflua. La nostra società tende a ignorare tutto ciò che riguarda le emozioni dei bambini, specie quelle considerate negative: diciamo loro di non urlare e non piangere, invece li lodiamo se sono allegri e felici. È bene chiarire che i bambini prendono queste indicazioni come un messaggio implicito, pensando di essere sbagliati se provano tali emozioni negative. Questo succede perché non si percepiscono come identità differenziate dalle proprie emozioni e dai propri sentimenti. Può anche succedere che molti genitori si trovino alle prese con istinti sorprendenti e forse dimenticati legati all’accudimento dei figli – per esempio il contatto fisico –, che però contrastano con la cultura educativa imperante nel nostro paese. Questa infatti è orientata al distacco precoce dei bambini in nome della loro presunta autonomia e indipendenza, più che alla reale possibilità di stargli vicini per il tempo necessario al cuore e nel modo che sembra più opportuno a entrambi. Ecco, quindi, che quando nasce un figlio nasce anche la sensazione di un intoppo, di un divario culturale difficilmente risolvibile fra ciò che molti bambini e molti adulti sentono per istinto e ciò che invece indicano le norme culturali e sociali condivise dalla maggioranza. I genitori sono confusi dall’idea che esista un modo migliore di un altro per crescerli e su quale sia questo modo. Non danno abbastanza credito al proprio istinto, perché lo ritengono troppo diverso (benché comunissimo) da ciò che propone la maggior parte degli esperti; credono di doversi uniformare alle norme culturali per non finire nel mirino dei giudizi spesso negativi di chi li circonda. Questo accade perché non è facile sentirsi diversi, in un momento che per sua natura è già caratterizzato dall’incertezza, dal bisogno di condivisione e di sostegno a livello familiare e sociale. Si creano così i presupposti per una frattura comunicativa e affettiva profonda fra adulti e bambini, fra società e famiglia. A quel punto, cosa possiamo fare?
In realtà, sarebbe tutto molto più semplice se riuscissimo a scindere ciò che dipende dalla cultura a cui apparteniamo da ciò che invece è comune a tutti gli esseri umani, indipendentemente da dove nascono o vivono.
La cultura è quell’insieme di norme, di regole e valori condivisi che contraddistingue un gruppo di persone all’interno di una società. Questi vengono trasmessi grazie alla socializzazione, che permette ai nuovi membri di un gruppo, per esempio i bambini, di acquisire le norme necessarie a interagire con gli altri e a quelle norme di tramandarsi da una generazione all’altra. La capacità di uniformarci ai valori della nostra cultura ci qualifica in quanto individui e ci infonde un senso di appartenenza alla comunità in cui viviamo. In questo senso, fra la società, la cultura e gli individui che la compongono esiste un rapporto inscindibile. I valori e i riferimenti culturali modellano non solo la nostra personalità in quanto individui, ma anche la struttura della nostra società: da un lato, grazie alla socializzazione siamo noi a tenere viva la cultura e a darle la possibilità di trasmettersi; dall’altro, la società fornisce il contesto grazie al quale la socializzazione può avvenire, dando modo a quella cultura di sopravvivere nel corso delle generazioni. Gli individui passano, mentre la cultura resta, e riuscire a cambiarne le norme è un processo lungo e complesso.1 Alcune di queste norme, però, possono essere riscontrate ovunque e vengono definite “universali culturali”, perché presenti in tutte le culture del mondo e insite nella natura umana.
Secondo molti antropologi, gli universali culturali possono essere spiegati attraverso le costanti fisiologiche che caratterizzano la specie umana: l’esistenza di due sessi, il bisogno di cibo, il bisogno dei bambini di essere accuditi, ecc. In altre parole, gli universali culturali e la fisiologia dell’essere umano vanno a braccetto nel costruire le nostre vite, indipendentemente dall’età, dall’etnia e dal luogo in cui viviamo.
È questo il nodo centrale che intendo approfondire nelle prossime pagine. Gli universali dell’essere umano passano dalla conoscenza della fisiologia, cioè di come siamo fatti, tanto nel corpo quanto nella mente, due aspetti impossibili da scindere perché in costante comunicazione fra loro, giorno e notte, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, per dodici mesi all’anno. L’etimo della parola “fisiologia” ci rimanda alla lingua greca, nella quale physis e logos significano rispettivamente natura e insegnamento. Si tratta, quindi, di una disciplina che studia ciò che è naturale e normale per ogni persona in una prospettiva transculturale, capace di andare oltre i modelli e le credenze dettate dalla cultura di appartenenza e di considerare invece ciò che accomuna tutti gli esseri umani da un punto di vista naturale.
Oltre alla fisiologia, credo sia necessario considerare anche le dimensioni emotive e affettive, altrettanto prioritarie per la sopravvivenza della specie umana. Sapere come funzionano i normali ritmi del sonno e dell’alimentazione di un bambino e riuscire a integrare queste conoscenze con le sue dinamiche emotive, infatti, può offrire ai genitori un quadro più completo, capace di spingersi molto al di là dei metodi proposti da altri. Questi metodi sembrano voler uniformare tutti i bambini, non sulla base della fisiologia dell’essere umano, ma con il preciso intento di reprimere comportamenti che gli adulti non gradiscono, o perché non conformi alle norme culturali di appartenenza o perché viene fatto credere loro che questi comportamenti potrebbero perfino causare gravi danni psicologici ai bambini.
A volte una sottocultura sviluppa aspetti che si oppongono alla cultura principale, e in questo caso si parla di controcultura. Fra cultura dominante e controcultura avviene uno scambio reciproco. Col tempo, di solito, gli aspetti più estremi delle controculture tendono a smussarsi e alcuni elementi vengono introiettati dalla cultura dominante, che finisce per farli propri. In questo processo di assorbimento svolgono un ruolo fondamentale i mass media e tutto ciò che si trova in rete.
Ai genitori, quindi, spetta il difficile compito di orientarsi fra i propri vissuti e i propri istinti; fra le aspettative che hanno nei confronti di se stessi, del partner e del bambino e ciò che è invece la realtà; fra le norme e i pregiudizi culturali; fra le indicazioni degli esperti, spesso contrastanti fra loro, e le informazioni presenti in rete, su libri e giornali o in televisione. Un compito tutt’altro che facile, che spesso ci fa sentire strani, diversi: fa vacillare le certezze che avevamo prima di diventare genitori e, spesso, può farci sentire profondamente soli e inadeguati nei confronti dei nostri figli. Ma questa sensazione svanisce se cominciamo a pensare alla responsabilità che abbiamo nei loro confronti, più che alla società o agli adulti che abbiamo intorno. Che cosa vogliamo trasmettere ai nostri figli? Una serie di norme volte all’omologazione passiva a modelli preconfezionati o la capacità di scegliere secondo la nostra testa e il nostro cuore, anche se il prezzo da pagare sarà quello di essere considerati a-normali nel vero senso della parola, cioè senza norme? Perché non offrire ai nostri figli la possibilità di seguire le proprie emozioni e i propri istinti, anche se ai più questi possono sembrare qualcosa di strano o difficile da gestire? Ogni genitore desidera una cosa per sé e per il proprio figlio: essere capace e, soprattutto, libero di scegliere, partendo da informazioni chiare, disinteressate e svincolate da interessi commerciali o politici. Allo stesso modo, penso che ognuno di noi desideri un figlio capace di diventare adulto e di mettere in discussione le proprie scelte senza mettere in dubbio se stesso e la propria identità. Si può sbagliare: anche gli errori fanno crescere e rendono migliori. Se non altro, impariamo a confrontarci con gli altri dando valore a noi stessi e alle nostre emozioni, senza sentirci messi in discussione come persone ed evitando il confronto.
A volte, essere percepiti come strani o diversi vuol dire soltanto aver avuto la fortuna e l’intuizione di vedere le cose in un modo nuovo, che forse non era venuto in mente ad altri. Il tempo e le emozioni daranno ragione alle nostre scelte, senza che ci sia bisogno di fornire troppe spiegazioni a chi non ci comprende. Non si tratta di un compito facile, ma credo possa valere la pena rifletterci e accettare la sfida.

L’importanza dell’educazione affettiva

Per tutti quelli che mi dicono: “Perché non la metti nel passeggino?”, “Perché non la fai dormire nel suo lettino?”, “Perché al primo ah! le offri il seno?”, questa è la risposta: voglio crescere una persona che sappia riconoscere i propri bisogni e chiedere che vengano soddisfatti. E, soprattutto voglio che sappia di potersi fidare di me.
Camilla, mamma di Elettra,
Demetra, Niccolò e Morgana Ermione
Quando pensiamo all’educazione da dare ai nostri figli, riflettiamo sulle regole che vorremmo vedere rispettate. Vogliamo che siano educati, che si sappiano comportare bene e non ci facciano fare brutte figure: in altre parole, che abbiano ben chiaro come si sta a tavola, che sappiano che non si alza la voce a sproposito, non si fanno versacci e via dicendo. Ciò che sembra appartenere alla buona educazione deriva da norme comportamentali dettate dalla nostra cultura di appartenenza, che noi adulti ci incarichiamo di trasmettere ai più piccoli. Si tratta sicuramente di aspetti importanti, comunemente accettati come pilastri educativi, con cui tutti siamo chiamati a confrontarci. Ma questo tipo di educazione deve fare i conti con una serie di limiti e regole condivise fondate sull’autorevolezza e sulla responsabilità di noi adulti nei confronti dei bambini e anche della società. Per questo le librerie pullulano di pubblicazioni di esperti che suggeriscono ai genitori come esercitare la propria autorevolezza sui figli. Tuttavia, solo una minoranza di queste pubblicazioni tiene conto degli stati mentali dei bambini, dei loro sentimenti e delle loro emozioni, e sono ancora meno quelle che considerano la vita del feto come degna di attenzione emotiva. Il feto è visto dai più come un insieme di cellule in via di sviluppo; pochi sanno che, già nelle primissime settimane di gestazione, inizia a rispondere agli stimoli tattili. Eppure, è scientificamente dimostrato che madre e bambino instaurano una comunicazione profonda già nell’utero. Jean-Pierre Relier, neonatologo francese di fama internazionale, insiste sulla «necessità assoluta di informare le madri non tanto su ciò che oggettivamente rappresenta una gravidanza, ma piuttosto sul ruolo assolutamente determinante del legame affettivo madre-figlio che si instaura nel corso della gestazione».2
Nel corso degli anni la neonatologia ha approfondito moltissimo la ricerca scientifica, dandoci modo di conoscere meglio le capacità percettive e sensoriali del feto e di identificarne i bisogni. Sembra impossibile pensare che un feto che cresce e si sviluppa nel grembo materno abbia percezioni emotive e bisogni, eppure è proprio così: questi sono legati al suo patrimonio genetico e agli stimoli che gli arrivano dall’esterno, principalmente da sua madre. Fra i due, fin dall’inizio, si instaura un legame biologico e affettivo profondo, destinato a un progressivo allontanamento e alla “separazione” resa possibile dalla nascita. Non sempre le donne e le famiglie sono informate su questi aspetti: la cultura imperante oggi è quella che rimanda alle tecniche per partorire, ai manuali con metodi dolci per respirare durante il travaglio, a qualcosa che s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I cuccioli non dormono da soli
  4. PREFAZIONE
  5. 1. SONNO, ACCUDIMENTO E CULTURA A CONFRONTO
  6. 2. FISIOLOGIA DEL SONNO E CICLO VITALE
  7. 3. CIÒ CHE DOVREMMO SAPERE SUI METODI PER FAR DORMIRE I BAMBINI
  8. 4. SONNO CONDIVISO: RISCHI E VANTAGGI
  9. 5. DIVENTARE GENITORI E PROMUOVERE LA SALUTE
  10. 6. TU E IL TUO BAMBINO: UN PICCOLO VADEMECUM
  11. 7. VOCI DI GENITORI
  12. NOTE
  13. BIBLIOGRAFIA
  14. RINGRAZIAMENTI
  15. Copyright