Terrore e idiozia
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Terrore e idiozia

Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista

  1. 144 pagine
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Terrore e idiozia

Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista

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Venerdì 13 novembre i terroristi sono tornati a colpire Parigi e con gli attentati allo Stade de France, al Bataclan, ai bistrot, hanno mirato al cuore della civiltà europea. Dopo l'attacco a «Charlie Hebdo», siamo scesi nelle strade a difendere le nostre libertà e gridare la nostra indignazione; dopo la strage al Bataclan siamo scesi in guerra. Le forze di polizia e gli organi di sicurezza europei non sono riusciti ad arginare la sfida lanciata dal terrorismo islamico. Daesh, ISIS, Is, le definizioni cambiano, ma le bandiere nere del califfato continuano a svettare su un'ampia porzione del medioriente e a seminare morte e terrore in Europa. La Francia, e prima la Russia, hanno scelto ora dopo molte esitazioni del fronte occidentale di bombardare le posizioni dello stato islamico. Ma siamo sicuri che questa guerra si vinca con i bombardamenti a tappeto? L'Afghanistan con il ritorno dei talebani e l'ingovernabilità dell'Iraq sono un monito che l'Occidente dovrebbe tenere in seria considerazione. In Terrore e idiozia Franco Cardini e Marina Montesano riflettono su quali siano gli strumenti per affrontare questa guerra asimmetrica: «Le armi delle quali disponiamo sono le seguenti: intelligence, infiltrazione, informazione corretta, massima collaborazione tra musulmani e non musulmani contro il comune avversario terrorista, mantenimento della calma e svolgimento di una normale, serena vita civile nelle nostre città».

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Informazioni

Il 2015, annus horribilis

Gennaio: dalla Giordania a Parigi

Gli attentati del 13 novembre avvengono al culmine di un anno nel quale la minaccia del terrorismo islamista in Europa sembra essere cresciuta con un’intensità nuova. Cominciamo, quindi, a ripercorrere le vicende del terribile, sanguinoso 2015 e a comprendere con chi o con cosa abbiamo a che fare.
Avevamo seguito gli avvenimenti dell’attentato alla redazione di «Charlie Hebdo» e al negozio della catena Hyper Cacher, e poi la caccia ai fratelli Kouachi, mentre eravamo in Giordania. Una Giordania invasa dai profughi siriani e irakeni, con una Amman trasformata da borgo di seminomadi a megalopoli, qua e là perfino elegante (e debitamente costosa), un Kerak di Moab scosso dal vento e reso inagibile per la neve, una Aqaba dalle spiagge bigie e deserte come Viareggio in dicembre. Siamo rientrati in fretta e furia (correvano allarmanti notizie sulla chiusura dei voli) a Parigi quando, tra il 10 e l’11 gennaio, la tragedia si era conclusa e un milione e mezzo di francesi scendevano in piazza. La sensazione di quei giorni era ed è rimasta inquietante: per l’atmosfera di una città ferita, ma anche per l’amarezza registrata in Giordania dinanzi agli eventi degli ultimi anni.
Una prospettiva che sarebbe diventata ancora più drammatica poco dopo, il 3 febbraio, con il rogo dell’aviatore giordano «celebrato» in un video dall’IS. La provocazione ha funzionato in pieno. Il rogo del tenente colonnello è parso a molti una grossolana e vigliacca barbarie: ebbene, senza dubbio barbarie è stata, e anche vigliacca, ma tutt’altro che grossolana. Chi ha acceso il rogo era un criminale imbecille, ma chi gliel’ha ordinato è un criminale raffinatissimo (il punto è: chi ha predisposto uno spettacolo arcaico per innescare un sofisticatissimo processo mediatico-militare?).
La Giordania è uno degli anelli più deboli della catena vicino-orientale: ha un re altamente impopolare che governa attraverso la repressione di molti oppositori, sempre più filojihadisti, in un paese che, come diremo, ormai rigurgita di profughi principalmente palestinesi, siriani e irakeni; un paese privo di risorse (a parte il turismo e i fosfati) che vive degli aiuti soprattutto americani e sauditi e che sta, vaso di coccio tra vasi di ferro, incuneato tra Israele e Arabia Saudita. Questo paese è adesso in prima linea contro un nemico in realtà semisconosciuto, forse manovrato astutamente da un mandante senza scrupoli il cui scopo finale è far letteralmente saltare il precario equilibrio vicino-orientale e ridefinirlo. L’ultima volta che tale equilibrio è stato ridefinito, ne è nata la crisi irakena voluta da George W. Bush: ma allora il quadro delle forze che oggi si definiscono jihadiste era, almeno in apparenza, più chiaro e meno pericoloso.
È anche un paese che si può definire, senza esitazioni, filo-occidentale: a partire dal suo governo sino all’atteggiamento e alla cultura diffusi; molti parlano l’inglese, sono abituati al turismo, i ceti medi e alti hanno costumi non dissimili dai nostri. La Giordania, però, è in crisi: la sua popolazione si avvia a toccare gli 8 milioni; di questi, circa 2 milioni sono rifugiati dalla Palestina, insediatisi nel paese tra il 1948 e il 1967, ormai in larga parte cittadini giordani; altri 200.000 sono arrivati in anni più recenti dalla Striscia di Gaza. Poi ci sono tra 700.000 e 1 milione di profughi irakeni, conseguenza dell’invasione della coalizione americano-europea e delle guerre interreligiose che si sono scatenate in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein. A essi si aggiungono 15.000 libanesi, fuggiti dalla guerra israelo-libanese del 2006, quasi 30.000 curdi di provenienza turca, irakena e siriana. Ma, soprattutto, le zone settentrionali della Giordania accolgono ormai un numero imprecisato di rifugiati dalla guerra in Siria: erano ufficialmente mezzo milione già nel 2012, oggi non si contano più, ma potrebbero essere quasi 2 milioni.
Quello che gli amici giordani denunciavano, ancor prima dell’esecuzione del pilota, era la sensazione di esser tirati con la forza in un conflitto ormai totale nel Vicino Oriente; la sensazione di non poter controllare e aiutare i troppi profughi (dei quali nessuno ci ha mai detto, però, che il governo avrebbe dovuto ricacciarli oltre confine); e la consapevolezza che a provocare la destabilizzazione dell’area fossero stati i paesi «alleati»: gli europei, gli americani, insomma l’Occidente. Che da quella instabilità traevano profitto, ma della quale non calcolavano i danni immensi e irreparabili che generava in quelle zone.
Non sfugga poi l’importanza del dato tribale, sempre connesso a queste vicende, nel mondo arabo. Le forze armate giordane sono saldamente in mano ad alcune grandi famiglie beduine, imparentate da vicino o alla lontana con i nobilissimi hashemiti della casa regnante, uno dei due rami (l’altro è lo shamashita) discendenti dai kuraishiti, la dinastia del Profeta. Quel pilota, fino all’ultimo così dignitoso e coraggioso, era membro di una schiatta guerriera di discendenti dai compagni di lotta del leggendario sharif Hussein, il compagno d’arme di Lawrence d’Arabia, il principe beduino innamorato dell’Inghilterra che sognava un’Arabia libera e unita, dotata di una «Camera dei Lord» ereditaria dove si sarebbero seduti gli sceicchi e di una «Camera dei Comuni» censitaria dove avrebbero trovato posto le borghesie produttrici del Cairo, di Alessandria, di Damasco, di Baghdad, di Bassora. Un mondo arabo dall’Oronte e dal Tigri fino al Negev e al Hijaz (l’area occidentale della penisola arabica), che sarebbe rimasto incrollabilmente fedele alla parola di Dio e all’eredità del Profeta, e avrebbe al tempo stesso accolto lealmente le novità che venivano dall’Occidente. Ma a Parigi e a Londra avevano altri piani, come diremo meglio nel prossimo capitolo, e l’ideale dell’unità araba com’era stata sognata da Lawrence e Hussein fu lasciato cadere.
Ma riveniamo a noi due e a quel gennaio 2015. Ecco, tornare a casa, in Europa, dalla Giordania, durante la crisi di inizio gennaio ci ha dato la sensazione, forse non del tutto reale (almeno, speriamolo!), che il Vecchio Continente avrebbe dovuto abituarsi ad assaggiare alcuni dei frutti avvelenati che aveva contribuito, in parte volontariamente, in parte con criminale leggerezza, a diffondere.

I nostri valori

Ma dov’erano quindi finite le nostre buone intenzioni, la nostra democrazia, i nostri diritti umani, il nostro Stato di diritto, i tesori che avevamo cercato di esportare mentre importavamo petrolio? Che cos’era andato storto, che cosa ci aveva trasformato da civilizzatori e liberatori in despoti e sfruttatori, che cosa ci aveva fatto tanto odiare?
Un nostro comune amico, stimato docente in una grande università, inviò il 14 gennaio 2015 questa lettera a Corrado Augias per la sua rubrica sulla «Repubblica»:
Gentile Augias,
condivido in pieno l’orrore per le stragi di Parigi e la soddisfazione per la reazione dell’Europa. Ma perché si va protestando che gli islamisti «odiano le nostre libertà», «la nostra tolleranza», che noi siamo «liberté, égalité, fraternité» e che l’Europa è fondata su questi valori? Dovrebbe essere fondata su di essi; ma la fraternité ce la siamo scordata da tempo; dell’égalité si parla poco e solo di rado la si pratica. Men che mai le abbiamo praticate nel rapporto con asiatici e africani, musulmani e non. Verso di loro abbiamo applicato i nostri disvalori (che hanno sempre accompagnato i nostri valori, come faccia oscura di uno stesso pianeta): libertà di essere avidi, sopraffattori, sfruttatori, egoisti, cinici; libertà nel consumismo e nella mercificazione, che mettono in serio pericolo gli autentici valori spirituali dell’Islam e di altre culture (cominciando dalla nostra). No, non ci odiano perché siamo liberi; ci odiano perché presentiamo come libertà e progresso una realtà basata sull’ingiustizia e sull’amoralità. Rifondiamo l’Europa sui suoi valori autentici di giustizia, e allora sarà possibile l’incontro con altri popoli di tradizioni culturali millenarie. Già un secolo fa Conrad ha visto nel profondo dell’Europa un «cuore di tenebra»: solo prendendone coscienza e combattendolo potremo ridare all’idea di libertà il suo valore inestimabile.
Parole nobilissime; prospettiva ineccepibile; proposta condivisibile. Non risulta che a tutt’oggi la lettera, pur firmata da uno studioso di fama, sia stata pubblicata. Ma va detto che le notizie, che quasi immediatamente all’indomani di quelle tragiche giornate parigine cominciarono a circolare in Francia, in Europa e in tutto il mondo, non furono affatto incoraggianti. Era stata unanimemente chiesta e auspicata una reazione dignitosa e responsabile della società civile, che inchiodasse gli attentatori all’ignobile viltà del loro atto. Quel che si raccolse fu, purtroppo, di ben diverso tenore.
Per cominciare, i cinque milioni di copie del nuovo «Charlie Hebdo» che furono diffuse a tempo di record subito dopo la tragedia ebbero il loro immediato effetto in termini che, visto il contenuto, era fin troppo facile aspettarsi: indignazione in tutto il mondo musulmano per nuove vignette considerate offensive e blasfeme (certo, il diritto alla libertà d’espressione, ci mancherebbe: ma era davvero opportuno servirsene senza discrezione, provocatoriamente, gettando benzina sul fuoco?); assalti a sette chiese cattoliche nel Niger, con dieci morti (truce ironia degli eventi: per molti musulmani, Occidente e Cristianità fanno tutt’uno, ed è pertanto assolutamente ovvio e normale assaltare le chiese cattoliche a titolo di ritorsione contro le vignette pubblicate da un giornale anticlericale); a Gaza, imbrattato il centro di cultura francese; in Inguscezia, migliaia di manifestanti per strada; a Kabul, una lunga tirata del presidente afghano Ashraf Ghani contro le «irresponsabili vignette sul Profeta».
Più grave ancora la notizia (per fortuna poi sgonfiatasi) secondo la quale un numero imprecisato di cittadini francesi di religione ebraica si sarebbero davvero apprestati a lasciare la propria patria «dove non si è più sicuri», «dove si può morire solo perché si è ebrei». Era il contraccolpo dell’eccidio del 9 gennaio nel supermarket kosher della Porte de Vincennes, ma forse anche – e soprattutto – dell’allocuzione dell’11 tenuta dal presidente Netanyahu nella Synagogue de la Victoire e rivolta agli ebrei francesi, culminante con l’appello «Israele è la vostra casa». Invito a una Aliyah, a un nuovo Esodo. In altri termini, cambiate patria. Il tutto detto esplicitamente da un capo di Stato straniero in visita e in presenza del capo di Stato del paese ospitante. Certo, «Bibi» non è mai apparso come un gentleman e Hollande è uno che gli schiaffi in faccia se li tira, ma l’episodio era obiettivamente inammissibile. Eppure si è verificato: e se in seguito a ciò fossero partiti anche solo qualche centinaio di ebrei francesi alla volta di Eretz Israel, il governo guidato da colui che sarebbe stato in gran parte responsabile dell’evento non avrebbe senza dubbio esitato a requisire altre porzioni di quel territorio palestinese che ormai non esiste quasi più per insediarvi quei nuovi cittadini, quei correligionari, costretti a fuggire dall’Europa come accadeva un’ottantina di anni fa. Né vale obiettare che oggi, in Francia come in tutto l’Occidente, gli ebrei sono sì minacciati, ma non lo sono di meno i cristiani, i musulmani e gli agnostici.

Un’utopia rivoluzionaria

L’episodio della Synagogue de la Victoire, già gravissimo in sé, acquista toni davvero inquietanti se lo confrontiamo con quanto tornò subito a sottolineare al riguardo uno dei più seri, competenti ed equi osservatori delle cose vicino-orientali, il politologo e islamologo Gilles Kepel, riprendendo un argomento da lui già affrontato nel suo libro Oltre il terrore e il martirio (Feltrinelli). La chiave di tutto stava in un appello-progetto elaborato, fin dall’ormai relativamente lontano 2004, da un ingegnere siriano allora legato a bin Laden e noto con il laqab (soprannome) di Abu Mussab al-Suri (appunto, il Siriano), che fece girare su Internet un chilometrico documento dal titolo Appello alla resistenza islamica globale e da noi in Italia preso sul serio solo da pochissimi, mentre prevalse la posizione di chi preferì cestinarlo insieme alle notizie astratte e velleitarie.
Abu Mussab, criticando la strategia terroristica che aveva condotto all’11 settembre 2001, sosteneva che non erano gli Stati Uniti a dover essere attaccati, bensì l’Europa; e, al tempo stesso, non già da gruppi di terroristi subordinati a un rigido comando centrale, bensì da indipendenti che appartenevano a una minoranza islamica radicale o disposta a farsi educare in direzione estremistica, ma lasciata poi libera di affidarsi alla sua iniziativa tattica, con il solo indirizzo strategico di compiere azioni tendenti a scatenare in Europa il panico e la guerra civile indiscriminata sia tra i musulmani (appunto la fitna), sia tra musulmani e non musulmani.
Tra gli obiettivi degli attentati, Abu Mussab indicava gli ebrei, che però andavano colpiti fuori delle sinagoghe: come avrebbero fatto, appunto, Merah nel 2012 a Tolosa, Nemmouche nel 2014 al Museo ebraico di Bruxelles, Coulibaly il 9 gennaio 2015 alla Porte de Vincennes. Poi, bisognava punire gli «apostati», cioè i musulmani in un modo o nell’altro troppo legati ai kuffar, agli infedeli: come il poliziotto francese musulmano Ahmet Merabet, ucciso il 7 gennaio 2015 da uno dei due fratelli Kaouchi, o i musulmani caduti durante la tragedia del 13 novembre successivo, per quanto in quel caso i terroristi, sparando nel mucchio, non potevano certo scegliere a una a una le loro vittime. Infine, proseguiva Abu Mussab, era necessario attentare a intellettuali e ad artisti esplicitamente impegnati a favore del dialogo con l’Islam, in modo da ostacolare qualunque forma di mediazione e approfondire il fossato tra «fedeli» e «infedeli», rendendo inevitabile, a quel punto, un vero e proprio «scontro di civiltà» o qualcosa che comunque gli somigliasse.
Un’utopia rivoluzionaria: ecco la sostanza del pensiero strategico di Abu Mussab. Ma in che cosa consiste un’utopia rivoluzionaria? Esattamente nel mentire oggi programmando le cose in modo che, in futuro, la nostra menzogna si trasformi in realtà; quindi, nello specifico, sostenere l’esistenza e la necessità dello scontro fra musulmani e musulmani e fra musulmani e non, che non è né nella volontà né nelle realistiche aspettative della stragrande maggioranza dei circa 3 miliardi e mezzo di persone che oggi al mondo sono cristiani, ebrei e musulmani, facendo in modo che esso inevitabilmente si verifichi. L’utopista rivoluzionario mente oggi in quanto vuol essere, con tutte le forze, veridico domani, in conseguenza della sua menzogna.
Secondo Kepel, una decina di anni fa la proposta di Abu Mussab fu scartata dai vertici di al-Qaeda, allora fedeli al principio «leninista» di prassi rivoluzionaria gerarchica e piramidale e timorosi che azioni di cellule isolate comportassero il rischio, non solo dell’avventatezza, ma anche della rapida infiltrazione e quindi della distruzione.
Tuttavia oggi, ha osservato Kepel, «YouTube, Twitter e Facebook consentono il cosiddetto fishing informatico negli enormi spazi di arruolamento creati dai social network…»; inoltre «la decomposizione delle rivoluzioni arabe offre al prezzo di un volo low-cost il facile accesso ai campi di addestramento jihadisti, dietro l’angolo dell’Europa. Istanbul, per esempio, che grazie al flusso del turismo di massa si raggiunge con due lire e senza visto, è oggi l’ingresso di quest’altro turismo jihadista, che porta i figli delle banlieues verso gli orrori dello Stato Islamico» («la Repubblica», 14 gennaio 2015, p. 14). Attaccare l’Europa e gli ebrei d’Europa per «costringerli» a emigrare in Israele e quindi, in conseguenza del loro forzoso insediamento entro confini già troppo ristretti, indurre il governo israeliano ad ampliare la sua annessione de facto dei territori palestinesi necessari ai nuovi insediamenti, e con ciò spingere la crisi vicino-orientale, già grave, ai limiti dell’esplosione. Era questo il piano del califfo al-Baghdadi? Lo è ancora? È questa la ragione perché egli, sistematicamente e non certo casualmente, esclude dai suoi attacchi (forsennati ma generici) contro «l’Occidente» e «gli ebrei» proprio gli Stati Uniti e Israele? Ed è questo il punto di congiunzione dove gli opposti ma convergenti progetti geopolitici dei servizi segreti statunitensi, israeliani e califfali potrebbero incontrarsi, in un Armageddon che avesse come teatri contemporanei Europa e Vicino Oriente? Quod Deus avertat!

Due libri a confronto

L’ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (pubblicato in Italia da Bompiani) – un caratteristico esempio di «successo annunciato» –, è un caso di «triste fortuna»: dal momento che parla di una Francia futuribile nella quale trionfa, in libere elezioni, un candidato musulmano «moderato» che, in modo soft, con le armi di una corruzione strisciante e sorniona, riesce ad assoggettare il paese a un regime che a poco a poco ne assopisce la vitalità e le capacità immergendole nel bagno tiepido di una società dove prevalgono agricoltura, artigianato, piccole imprese, moralità comunitaria e familiare eccetera; insomma, una Francia egemonizzata da un’ideologia religiosa che la riduce all’antimodernità e che per questo piace anche a molti cattolici, magari tradizionalisti. Insomma, alla fine la Francia cade vittima di una sorta di congiura islamo-cattolica, scopo della quale è la restaurazione di un regime di vita patriarcale.
Houellebecq è una strana figura di uomo e d’intellettuale votato alla marginalità, incurante del suo aspetto (è noto che per trascuratezza abbia perso diversi denti), i cui libri – e i cui personaggi – sono perennemente sospesi fra erotismo e frustrazione. Tuttavia, negli ultimi anni era riuscito a farsi una fama cavalcando l’islamofobia su corsie simili a quelle della signora Bat Ye’or, una britanno-egiziana nota per aver immaginato una futura Europa divenuta «Eurabia», che ha abdicato alle sue radici cristiane (come se non lo avesse già fatto da tempo…) e che è caduta preda del missionarismo musulmano.
Su «Le Monde», e quindi sul «Corriere», Emmanuel Carrère pone Sottomissione sulla stessa linea di 1984 di George Orwell e di Il mondo nuovo di Aldous Huxley: una linea «profetica» stando alla quale, nel 2022, la Francia diverrebbe uno Stato musulmano.
La «triste fortuna» consiste nel fatto che questa «visione-profezia» è contenuta in un libro uscito si può dire contemporaneamente alle stragi parigine del 7-9 gennaio scorso, e ciò lo ha condotto a un picco insospettabile e inatteso di vendite...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Terrore e idiozia
  4. Introduzione
  5. Il 2015, «annus horribilis»
  6. Un po’ di storia
  7. Il «Great Game» del XXI secolo
  8. Tutti contro l’IS?
  9. Conclusione
  10. Copyright