Mio padre era fascista
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Mio padre era fascista

  1. 168 pagine
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Mio padre era fascista

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«Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei "ragazzi di Salò".

«Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla "gabbia del gorilla" in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di "esule in Patria" nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata.

«Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine.

«Per scoprire, alla fine, che gli esseri umani non sono monoliti, figure unidimensionali sulle quali incollare un'etichetta semplificatrice, ma persone vitali e vitalmente piene di contraddizioni. E per capire che i concetti più cari a noi italiani, la "parte giusta" e la "parte sbagliata", sono molto più friabili e complicati di quanto ci piacerebbe immaginare.» Pierluigi Battista riapre le ferite di un rapporto irrisolto con il padre fascista, e gli concede idealmente l'onore delle armi. Così, riannoda i fili spezzati di una tormentata vicenda familiare e trova un modo adulto di confrontarsi, in un libro indimenticabile, con un pezzo non meno tormentato della nostra storia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852070600
Argomento
Historia
II

«Guarda!»

Io, il fascismo, l’ho conosciuto andando in macchina, e mio padre era l’autista che mi faceva da cicerone. Non potevo guidare, mi mancavano ancora un po’ di anni per la patente, ma ero un impeccabile compagno di viaggio, attentissimo ai segnali stradali, ai cartelli, agli svincoli, alle frecce che indicavano le direzioni da prendere. «Ecco, per Littoria di qui» diceva lui. «Ma no, papà, guarda: sul cartello c’è scritto Latina.» «Tranquillo, è Littoria; Latina l’hanno messa i vincitori, dopo.» Avrei dovuto immaginarlo. La risposta era sempre la stessa, ma ci cascavo ogni volta. «Ecco via dell’Impero» mi diceva per esempio imboccando, dopo doverosa seppur fugace sosta per l’ammirazione del celebre balcone, la grande arteria che da piazza Venezia andava verso il Colosseo. «Veramente, la professoressa che ci ha portato in visita la scorsa settimana l’ha chiamata via dei Fori Imperiali» provavo timidamente a interloquire. «Tranquillo, è via dell’Impero, il nome della tua professoressa l’hanno messo i vincitori, dopo.» Sempre «dopo», diceva. Sempre «i vincitori».
«Dopo» era l’Italia postfascista e antifascista che vivevamo «adesso». Lui, mio padre fascista, mi voleva portare invece in pellegrinaggio – il fascismo in macchina, appunto – tra le splendide vestigia del «prima». Non credo per un progetto di banale indottrinamento. Per forgiare attraverso di me un piccolo balilla tardivo. No, la sua missione era, immagino ora, quella di trasmettermi il gusto dell’esplorazione tra i ruderi di una civiltà sepolta, la ricerca curiosa e appassionata delle tracce di una gloria che era andata svanendo nella mediocrità del presente. E così «via dei Fori Imperiali» era il grigio adesso, ma «via dell’Impero» il luminoso passato. «Latina» era solo una città del basso Lazio come tante altre, ma «Littoria» era la città gloriosa costruita dal nulla e voluta dall’Uomo della Provvidenza, che soltanto «dopo» gli italiani ingrati avevano appeso a testa in giù. Era come se mio padre fascista, con questi vagabondaggi automobilistici, mi invitasse a strappare il velo dell’abitudine, diciamo pure dell’Italia normale, e a scoprire il prezioso lascito dell’epoca che stupidamente non piaceva più a quell’Italia normale, ma piaceva ancora tantissimo, e fanaticamente, a lui, cioè a un assoluto anormale nell’Italia antifascista. L’età dell’oro in cui era cresciuto lui. In nome della quale lui, insieme a quelli che le avevano buscate nel ’45, aveva combattuto senza speranza.
Mio padre erano due e, come per una materializzazione in marmo e in pietra di quella frattura interiore, molte cose attorno a mio padre, e dunque attorno a me, si modellavano su quella duplicità e subivano lo stesso processo di sdoppiamento. Per dire, la destinazione del nostro viaggio nei pressi di Littoria-Latina poteva essere sì Sabaudia, ma non quella delle dune e del mare, che poi era la Sabaudia di tutti quelli che ne godevano spensieratamente, beati loro. No, era l’altra Sabaudia, la piccola città fascista cui dovevamo rendere omaggio, la torre civica («Guarda!») che mio padre giudicava un capolavoro architettonico, la squadrata purezza geometrica del suo profilo urbanistico e dei suoi edifici pubblici, la forma regolare della piazza: «regolare», gli piaceva sempre molto. Tra l’altro era la Sabaudia immersa nelle bellezze e nell’atmosfera finalmente salubre dell’Agro Pontino, il cui nome veniva da mio padre fascista immancabilmente accompagnato dalla sempre ribadita notazione storico-mitologica: «bonificato dal Duce», ovviamente.
Oppure, ma dappertutto era così, c’era Firenze, o meglio, le due Firenze, perché lo sdoppiamento era legge implacabile («regolare») ovunque ci fossero segni architettonici del regime del «prima». Quale padre, una volta percorsi gli itinerari turistici più frequentati, il Duomo, gli Uffizi, Ponte Vecchio, piazza della Signoria, avrebbe condotto con entusiasmo i suoi familiari già sopraffatti da tanta arte e tanta bellezza alla volta della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella? E non, banalmente, per prendere il treno come tutti, ma per ammirare «l’altra» stazione, quella sconosciuta ai turisti distratti, quella costruita in epoca fascista su progetto dell’architetto Giovanni Michelucci? Diceva mio padre che già Margherita Sarfatti, l’amante e la musa artistica di Mussolini prima di essere brutalmente ripudiata ed esiliata perché ebrea, ammirasse nella pianta di quella stazione l’inequivocabile forma di un fascio littorio. Si ripromise perciò di farmi vedere, tornati a casa, la foto scattata dall’alto che avrebbe confermato quella congettura. La promessa non è mai stata mantenuta, e ciò ha rafforzato successivamente in me il sospetto che questa della stazione di Firenze a forma di fascio littorio non fosse che una delle tante leggende destinate a gonfiarsi nell’aria chiusa e catacombale del mondo dei vinti. E, del resto, scoprii da solo negli anni a venire che proprio l’ebrea Sarfatti era stata mandata in esilio dopo le leggi razziali (razziste, meglio). Mio padre, spesso reticente sui dettagli imbarazzanti, aveva tenuto per sé questo orribile particolare.
Questo continuo sdoppiarsi dei luoghi, queste visite nel passato mimetizzato nel presente, questo incessante confronto tra lo splendore del «prima» e lo squallore del «dopo», era destinato a procurare a un incolpevole ragazzino pressoché dodicenne molti svantaggi e qualche vantaggio. Lo svantaggio maggiore è che, al tempo, mi sembrava una vera tortura, un atto di sopraffazione da parte di un adulto nei confronti del suo scalpitante figliolo, l’instancabile e un po’ ossessivo trascinarmi di mio padre fascista nei suoi giri barbosamente nostalgici, facendomi spesso rinunciare a qualche partitella domenicale nel campetto dietro la chiesa di Cristo Re, peraltro progettata, ma questo allora non lo sapevo e secondo me non lo sapeva nemmeno lui, proprio dal superfascista architetto Marcello Piacentini: «il grande Sventratore», come sarà ribattezzato dagli architetti del postfascismo. Invece il vantaggio, direi l’unico vantaggio, di aver avuto un padre fascista che ti portava in giro per farti ammirare le (a suo dire) strabilianti meraviglie architettoniche del trascorso Ventennio, è che poi non hai bisogno di aspettare le tardive revisioni e riabilitazioni decretate da chi decide di volta in volta ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è morale e ciò che non lo è. Dopo averne detto tutto il male possibile, ripudiandoli come monumenti esteticamente indecorosi della più infame delle dittature, si sono infatti accorti, decenni più in là, che quella trascurata piazza anni Venti era in realtà un gioiellino dell’architettura, che quel palazzo anni Trenta era all’avanguardia, che quell’affresco misconosciuto era stato troppo a lungo sottovalutato nell’Italia antifascista. Che l’architetto Adalberto Libera era un genio, e pure i suoi colleghi Moretti, Del Debbio, Michelucci, Piacentini e tanti altri. Ma io, grazie ai tour coatti con mio padre fascista, non avevo bisogno di tutte quelle giravolte. Ecco il vantaggio, l’unico però: io lo sapevo già.
Tutto era sdoppiato, perché quelle architetture del passato non erano musei a cielo aperto come la Roma dei Cesari e dei Papi, rovine antiche o capolavori del Barocco da ammirare senza toccare, tracce inerti di una civiltà morta, ma rivivevano nell’uso quotidiano che tutti noi italiani del «dopo», e abitanti a Roma in particolare, facevamo di quegli stessi spazi, di quegli edifici, di quelle strade. Perciò, in quei pellegrinaggi mi toccava rivedere i luoghi che frequentavo abitualmente, ma come trasfigurati in reperti di un glorioso regime, scioccamente diffamato e desacralizzato dai «vincitori». Il Foro Italico, per esempio. Io sapevo tutto del Foro Italico, perché le nostre madri ci portavano al Bar del Tennis e prendevano il gelato chiacchierando sedute ai tavolini che scricchiolavano sulla ghiaia, mentre io e i miei amici giocavamo a nascondino tra le siepi accuratamente tosate. E poi c’era lo Stadio Olimpico, immerso in quel Foro Italico, dove mio padre regolarmente mi portava a vedere le partite, anche se lui, come mio fratello, era della Roma e io invece della Juventus («Ti perdono, pure Almirante è juventino»). Poi lui, barese trapiantato nella Capitale e quindi sentimentalmente poco attaccato ai colori della città, smise improvvisamente di tifare giallorosso solo perché la Roma di Ciccio Cordova e dei «palazzinari rossi», così li chiamava ricalcando gli stilemi della pubblicistica di destra di allora, si era permessa di prender parte a una Festa dell’Unità. E quindi alle partite ho continuato ad andarci senza di lui, dandomi però appuntamento con gli amici, come tutti i miei concittadini, nei pressi di quello strano monumento a sfera a due passi dallo stadio che tutti chiamavano e continuano a chiamare la «Palla»: «Ci vediamo alla Palla».
Ma questa era la versione profana di quei luoghi. Era la dozzinale «Palla». Era il tifo sguaiato delle curve. Era dove si andava a nuotare in piscina, a giocare a tennis, a fare atletica leggera nello Stadio dei Marmi, a muoversi con i pattini a rotelle sui vialoni malamente asfaltati. Era il Foro Italico. Nelle rituali visite cui mi costringeva mio padre, invece, il Foro Italico si smaterializzava, si risacralizzava e ridiventava, come per magia, Foro Mussolini («Italico l’hanno messo i vincitori, dopo»). Tutta un’altra musica, altro che la «Palla», anche se i luoghi erano fisicamente gli stessi.
Quegli edifici sacri del Foro Mussolini, monumenti del «prima» ripudiati dai vincitori, erano stati voluti, mi spiegava mio padre con fierezza, dall’Opera nazionale balilla. E infatti «Guarda!», mi intimava indicando l’obelisco in marmo di Carrara (un po’ ingrigito dal tempo), che pure io conoscevo benissimo per via delle mie frequentazioni profane. «Ma guardo che cosa? L’ho visto mille volte.» «No, testone, guarda la scritta: “Mussolini Dux”, questa i vincitori non hanno avuto il coraggio di graffiarla via.» E poi era un continuo, implacabile «Guarda!». «Guarda» una sessantina di statue di aitanti atleti ignudi a circondare lo Stadio dei Marmi («altro che Leni Riefenstahl»); «guarda» il Palazzo dell’Accademia Fascista di Educazione Fisica di Enrico Del Debbio, che nel frattempo era diventato la sede del Coni; oppure il Palazzo dell’Accademia di Musica. «Guarda» il piazzale pavimentato con i fasci littori e i parallelepipedi ai lati, con i disegni che celebravano enfaticamente la «Proclamazione dell’Impero» o la «Marcia su Roma»; i mosaici a sfondo atletico (lotta, giavellotto, pugilato, tuffatori, eccetera) che decoravano le pareti della piscina coperta progettata da Luigi Moretti.
C’era anche, poco più in là, la Farnesina da «guardare». Ma mio padre capiva che sarebbe stato chiedermi troppo mentre il mio livello di attenzione stava scemando visibilmente di minuto in minuto, e dunque bonariamente soprassedeva. Bastava tuttavia che sapessi chi era stato, e quando, a metter su quel grande palazzo. Il fascismo, ovviamente: che lo aveva costruito appositamente per dare una grandiosa sede al Partito nazionale fascista, dopo aver rinunciato all’edificazione di un immenso complesso che su via dell’Impero avrebbe dovuto rivaleggiare addirittura con il Colosseo. Adesso quel palazzo ospitava il ministero degli Esteri dell’Italia «nata dalla Resistenza», come diceva con tono marcatamente irridente per fare il verso ai portabandiera ufficiali di questa Italia che non gli piaceva. Come se il solo fatto di poter vantare un ministero degli Esteri potesse rientrare, persino questo, tra i luminosi meriti del fascismo misconosciuti dall’Italia «nata dalla Resistenza».
Malgrado gli innumerevoli e imperiosi «Guarda!», tuttavia, la mia ammirazione era destinata a riversarsi pressoché esclusivamente, profanamente, su tutti quegli impianti per l’atletica leggera, il tennis, la scherma, il nuoto, insomma per gli sport che mi piacevano, lasciando molto sullo sfondo, in quanto a adesione emotiva, i pur valentissimi architetti che ne avevano reso possibile la pratica grazie agli alacri picconi messi all’opera dal Duce. D’accordo, la costruzione era avvenuta nell’èra del «prima», nel passato luminoso pieno di statue e mosaici contrapposto a un presente incolore. Ma la fantasia di un undicenne totalmente digiuno di storia e di politica stentava ad accendersi nella contemplazione del regime che tanto appassionava mio padre. Ero immerso nel presente desacralizzato. Ero troppo contaminato dalla mentalità dei «vincitori», avrebbe forse detto mio padre se avesse captato i miei pensieri più segreti. Ma vivendo a Roma, e tendendo a volgarizzare infantilmente i fasti di un ventennio che non avevo mai conosciuto, era naturale che, conclusa la tappa del Foro Mussolini, pure nel pellegrinaggio di rito a Cinecittà io fossi ipnotizzato più dagli studi da cui sarebbero usciti i film meravigliosi della mia vita che non dal regime amato da mio padre, il cui Capo aveva deciso di tirar su proprio quegli stabilimenti nel cuore degli anni Trenta.
Cinecittà metteva allegria. Era il cinema, una cosa viva. Padiglioni, macchinari, fondali che divoravo avidamente con lo sguardo, contento e fiero che mio padre avesse provveduto a tutti i permessi necessari per entrare in quel tempio. Archeologia fascista? Davvero non me ne importava nulla. Il nome di Gino Peressutti, l’architetto che aveva costruito quella città del cinema seguendo alla lettera le indicazioni mussoliniane, evocava solo una figura del passato, che dimenticavo subito. Sembrava che persino mio padre, dentro Cinecittà, fosse più sciolto e allegro, fino al punto di permettersi l’irriverenza di una goffa caricatura del Duce quando proclamava stentoreo: «La cinematografia è l’arma più forte». Stavolta non mi diceva «Guarda!», perché già ero febbrilmente intento a guardarmi in giro per cercare qualche volto conosciuto, un regista famoso, un attore celebre, una bella attrice, la scenografia di un vecchio film da riconoscere, la fedele riproduzione di qualche villaggio del Far West, persino una comparsa, un figurante, un trasteverino vestito da antico romano, chiunque, un macchinista, un fonico, anche se la gran parte degli studios della Hollywood sul Tevere era, già in quegli anni in cui il cinema non era tanto in crisi, desolatamente vuota.
Non me ne importava nulla dell’«arma più forte», di Mussolini e delle sue trovate urbanistiche. Volevo solo il set di un film per raccontarlo agli amici e per procurarmi qualche autografo. E a Cinecittà, la pedagogia fascista attraverso l’arma dell’architettura non riuscì a dare i frutti sperati. Il nesso tra Cinecittà e il fascismo si era già completamente dissolto, nella mia testa, ma soprattutto in quella dei miei contemporanei. E negli anni successivi sarebbe stato ancora peggio. Mio padre già non c’era più, e una volta che in una riunione del giornale saltò fuori la parola «Cinecittà», un ragazzo molto giovane disse che la conosceva, certo: era il nome di una stazione lontana della metro A, quella subito dopo la fermata Subaugusta e subito prima della fermata Anagnina. E, stavolta, non era colpa dei «vincitori».
E «Guarda!» non aveva funzionato nemmeno all’Eur, un gioiello del passato regime che solo la guerra perduta, mi raccontava mio padre con pazienza didattica, ne aveva interrotto l’integrale edificazione, impedendo così all’Italia di centrare l’onorevole traguardo che avrebbe fatto schiattare d’invidia tutto il mondo. Una meta fascisticamente obbligata che mio padre mi descriveva rapito, durante il tragitto di avvicinamento, lodando l’ambizione mussoliniana di saldare Roma con il suo mare attraverso una strada, quella che appunto stavamo cominciando a percorrere, destinata a compiere il destino storico che spettava alla nostra Nazione. Una Nazione che purtroppo, aggiungeva con rimpianto e disappunto, aveva ripudiato se stessa abdicando a quella missione entusiasmante. E che si era miserabilmente accontentata, priva oramai di ambizioni e senza la bussola di un grandioso Destino, di costruire nei paraggi del nostro glorioso mare, vicino a Ostia, Casal Palocco (per i «nuovi ricchi», deplorava con una punta di disgusto). A me, però, l’Eur non piaceva per niente, allora. Né mi sarebbe piaciuto dopo. Tutti «Guarda!» sprecati.
Mio padre mi indicava («Guarda!») il Palazzo dei Congressi, quello delle Forze armate, quello delle Milizie, quello delle Corporazioni, quello che ospitava l’Archivio centrale dello Stato. Ma soprattutto il Palazzo della Civiltà italiana, il «Colosseo quadrato», venerato con la stessa ammirazione di un turista abbagliato dal Colosseo vero: «Guarda, ma guarda!». E ricordo con una certa tenerezza i suoi maldestri e ripetuti tentativi, chissà perché sempre infruttuosi, di portarmi con l’automobile in qualche punto da dove avrei potuto decifrare con orgoglio italiano la storica frase scolpita lassù, in alto in alto, su una delle facciate di quel palazzo, in stampatello, disposta su tre righe: «Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori».
Ma niente da fare: l’Eur non mi prendeva. La mia sensibilità di ragazzino ignorante lo trovava già molto freddo, scostante, rarefatto. Gli stessi difetti che invece, capii anni dopo, venivano esaltati come straordinarie qualità estetiche da tutti quegli adulti colti e pensosi che ne apprezzavano, a cominciare da Federico Fellini, l’atmosfera vagamente onirico-metafisica, fino a farne una delle location cinematografiche più ricercate. E se già allora tutta quell’esaltazione di colonne, archi e romanità non mi faceva impazzire, poi, negli anni successivi, i luoghi sacri del regime saranno da me ripetutamente profanati da un uso davvero poco imperiale. Nel mio cuore e nei miei ricordi l’Eur resterà per sempre, indelebilmente, associato alle partite di pallacanestro e agli psichedelici concerti rock dei Pink Floyd e dei Jethro Tull al Palazzo dello Sport, saturo di fumo, e fuori, tutte le volte, i cancelli sfondati e le camionette della polizia con le sirene. Oppure, anzi soprattutto, alla figura umiliante, vomito e tutto il resto, per via di un attacco di nausea e vertigini nemmeno tanto inatteso, da me rimediato sulla grande ruota del luna park affrontata stoicamente sperando di far colpo su una ragazza, mai più incontrata per la vergogna di quel desolante fallimento. E il destino storico? E la missione? E la scritta sul Colosseo quadrato? Anche lì, come nelle visite al Foro Italico, anzi Foro Mussolini, e come a Cinecittà, il fascismo di mio padre non era riuscito a catturarmi. E ogni volta che vedo la ruota di quel luna park oramai mezzo dismesso, mi capita ancora di arrossire per l’umiliazione.
Il cuore fascista di mio padre vibrava per l’architettura monumentale. Per l’imponente, il grandioso. Il suo fascismo ideale, realizzato in strade e edifici, era sempre smisurato, maestoso. Anche se il clericalismo gli era estraneo, per esempio, la sua infatuazione per la grandiosità urbanistica del fascismo ne faceva un entusiasta persino del Concordato. In una tappa obbligata dei nostri tour sulle tracce del (suo) rimpianto passato, percorrevamo via della Conciliazione, e mio padre si inebriava spiegando che quella grande opera, dopo aver smantellato con fascistica determinazione tutto il disordinato, l’«irregolare» viluppo di case e di antiche viuzze del Borgo, doveva magnificare attraverso uno stile architettonicamente solenne la storica pace dei Patti Lateranensi siglata dall’Italia mussoliniana e dal Vaticano incantato dall’«Uomo della Provvidenza». Ma erano sempre grandi strade, viali giganteschi, scorci monumentali in grado di competere con cupole e rovine antiche.
Le bellezze dell’edilizia residenziale tirata su in epoca fascista, invece, gli erano semplicemente indifferenti. Non ne parlava. Per lui neanche esistevano. Non erano mete degne dei nostri pellegrinaggi. E io le ho scoperte soltanto dopo la rottura con mio padre, tra paradossi e coincidenze. La Garbatella, per esempio, il non plus ultra dell’edilizia popolare costruita durante il fascismo a Roma, seppur progettata subito prima e anche in uno stile che non combaciava affatto con il monumentalismo del regime. Mio padre fascista non mi ci aveva mai portato. La prima volta che mi accorsi della sua esistenza fu durante un violento tafferuglio con la polizia, coda guerrigliera di uno di quei cortei in cui la prima fila era munita di caschi, tascapane rigonfi e fazzoletti sulla faccia. Corteo antifascista, naturalmente. Perché io intanto, erano i primi anni Settanta, ero diventato il figlio antifascista di un padre fascista. Antifascista «militante», per giunta; e chi ha vissuto quei tempi conosce la differenza e il senso di questa specificazione, purtroppo tutt’altro che superflua. Militante, ma fortunatamente non tanto accecato dall’ideologia, almeno questo, da non capire che lo stile della Garbatella sarebbe diventato una delle più belle scoperte della città in cui ho avuto la fortuna di nascere e di vivere. Se mio padre mi ci avesse portato, magari la lezione sarebbe stata più efficace di quella, un po’ troppo scolastica, dell’Eur e del Foro Mussolini. Ma alla Garbatella non si celebravano i sacri destini dell’Italia fascista. E dunque, niente processione. Niente «Guarda!».
Poi c’era la Città Universitaria. Finalmente un posto pieno di magia, di mistero: parlo di allora, di quando ero dodicenne, non dopo. Per mio padre, lo scrigno di un segreto conturbante che forse racchiudeva la cifra nascosta del suo destino di fascista sconfitto. Per me era una tappa affascinante, la perlustrazione preventiva degli edifici che avrei voluto frequentare dopo qualche anno, non sapevo ancora esattamente dove, ma certamente lì. Sentivo come un privilegio unico la possibilità di mescolarmi per un’intera giornata, da ragazzino delle scuole medie, con i ragazzi grandi che passeggiavano per i viali e che sembravano felici con i loro libri sotto braccio, le sigarette e i caffè e le risate e i corteggiamenti dopo chissà quante ore di lezione. Mi apparivano già adulti ma scanzonati, esperti della vita e del mondo ma senza darsene le arie, baciati dalla fortuna di avere accesso a un sapere superiore, eppure senza spocchia: non che lo fossero veramente, però così mi apparivano allora, e questo bastava. Del resto, anche mio padre mi sembrava meno pedestremente didascalico del solito. Singolarmente infi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mio padre era fascista
  4. I. «Tutto si è rotto»
  5. II. «Guarda!»
  6. III. «Togli quei gomiti»
  7. IV. «Nati in un cupo tramonto»
  8. V. «Latrina della storia moderna»
  9. VI. «Il boogie-woogie della sconfitta»
  10. VII. La «parte giusta»
  11. VIII. «Sudare sangue»
  12. IX. Addio alle armi
  13. Copyright