Ho sparato a Garibaldi
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Ho sparato a Garibaldi

La storia inedita di Luigi Ferrari, il feritore dell'Eroe dei Due Mondi

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Ho sparato a Garibaldi

La storia inedita di Luigi Ferrari, il feritore dell'Eroe dei Due Mondi

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«Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion!» Non c'è adulto o bambino che non conosca questa canzone. Ma in pochi sanno chi fu a ferire davvero Garibaldi: si chiamava Luigi Ferrari ed è l'unico eroe del Risorgimento che non può vantare un posto di primo piano nella stagione che fece nascere l'Italia. Non solo, se per Garibaldi l'Aspromonte è sinonimo di gloria, per Ferrari ha rappresentato la più grande umiliazione della vita. Un'onta che il luogotenente dei bersaglieri si trascinò fino al suo paese natale, Castelnuovo Magra, dove tornò, ferito a sua volta e con un piede di legno, in veste di sindaco con il segno indelebile della sua poco onorevole impresa.

Giovane volontario nell'esercito sabaudo, Ferrari è un tipo sveglio, agile, volitivo. Ottiene incarichi importanti, partecipa alla battaglia di Goito, viene inviato in missione segreta nel Ducato di Modena a fomentare le rivolte popolari, diventa sergente dei bersaglieri e partecipa all'assedio di Gaeta dove, dopo centotré giorni, Francesco II e Maria Sofia si arresero segnando la fine del Regno delle Due Sicilie e l'inizio dell'Italia unita. Per concludere la sua carriera militare sull'Aspromonte, dove, appunto, ferisce Garibaldi e viene poi colpito da un garibaldino.

Le camicie rosse sono state fermate. Ferrari ottiene la medaglia d'oro, ma la motivazione rappresenterà il suo cruccio e la sua rovina: «Adempì all'amaro compito di comunque fermare il generale Garibaldi in marcia verso Roma. Aspromonte 1862». Lui, che aveva mirato al piede anziché al cuore, seguendo gli ordini ma evitando l'irreparabile («Mi avete colpito volontariamente in basso?» gli aveva in seguito chiesto l'Eroe dei Due Mondi. «Fin da ragazzo sono stato abituato a tirare di caccia. Ho preso un merlo a trenta metri quando avevo dodici anni» gli aveva risposto Ferrari, confermando), morirà in solitudine, assistito dalle amorevoli cure della sorella Natalina Livia nella casa paterna. Il suo ultimo, straziante desiderio: «Voglio raggiungere Garibaldi così come l'ho lasciato a Scilla».

Arrigo Petacco e Marco Ferrari, entrambi discendenti di Luigi Ferrari, si sono messi sulle tracce dell'ex bersagliere e ci svelano la sua vita sconsolata e maledetta, segnata dall'amore mai vissuto per la bella Martina e da quell'episodio dell'Aspromonte, sino alla redenzione finale, restituendoci il ritratto di un'epoca, di un piccolo borgo di confine, di una comunità e di una famiglia che ha sempre difeso quel povero soldato che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852070631
X

LO SPARO INFAMANTE

«Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba / Garibaldi che comanda / che comanda il battaglion» sono parole conosciute, ancora cantante e fischiettate ai giorni nostri. Nel ritornello c’è chiaramente il tentativo di confondere le idee e far diventare tutti buoni e uguali gli italiani che fecero il Risorgimento. Ciò che non poté la storia, poté la canzone. Se la filastrocca in musica è rimasta viva nella memoria popolare anche a distanza di un secolo e mezzo la ragione forse è proprio quella di voler interpretare lo spirito italico al di là del bene e del male. Il merito va ai valori del Risorgimento italiano che, alla fine, sono diventati un tutt’uno, un insieme indivisibile nonostante spaccature, partizioni, lotte intestine e persino fatti di sangue fratricidi come all’Aspromonte. Tutti gli italiani da bambini, almeno una volta, hanno fatto il gioco di cantare questa canzoncina mutando le vocali oppure intere strofe che hanno subito un cambiamento, a seconda dei tempi e delle necessità. In una versione la seconda strofa è la seguente: «Mamma non piangere / che è ora di partire / vado alla guerra per vincere o morire / se vincerò, che bandiera prenderò? / se perderò il capo di battaglia resterò».
In un’altra versione addirittura si confonde la storia: «Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba / Garibaldi che comanda / che comanda i bersaglier». Anche nella seconda strofa i fanti restano protagonisti: «I bersaglieri passano con la piuma sul cappello, / avanti colonnello, avanti colonnello, / i bersaglieri passano con la piuma sul cappello, / avanti colonnello, avanti colonnello». Ma, come si sa, Garibaldi mai comandò i bersaglieri, anzi fu ferito proprio da uno di loro, il nostro Luigi Ferrari.
Più veritiera è questa versione: «Garibaldi fu ferito / fu ferito in Aspromonte / porta scritto sulla fronte / di volersi vendicar / di volersi vendicar». In questa ballata si arriva a intuire chi è stato a sparare al prode eroe: «Disi ’n po’ oi Garibaldi / chi l’è stait che l’à ferito? / s’al è stait mio primo amico / coronel dei bersaglier». Negli archivi molte di queste versioni sono state depositate da Paolo Castagnino «Saetta», noto partigiano di Chiavari che aveva fondato un gruppo di cantori popolari. Uno degli LP più famosi in cui compare la canzone è Camicia rossa. Antologia della canzone giacobina e garibaldina. Così la storia di Garibaldi e del suo feritore ha corso nel tempo, anche grazie a una canzone.
Quando Giuseppe Garibaldi traversò per la seconda volta lo Stretto di Messina, respirò ad ampi polmoni sulla tolda della nave Dispaccio, sequestrata nel porto di Catania al pari del Général Abbatucci, sotto gli occhi di inermi unità della regia marina che si limitò a seguire a distanza i due vapori colmi di tremila volontari. Si sentiva rigenerato. Aveva ritrovato tutta la baldanza giovanile anche se, ogni tanto, per via del vento starnutiva. Era il 24 agosto 1862, erano passati due anni e cinque giorni dallo sbarco dei Mille sulla punta del continente. Una volta a terra dispose la truppa tra Melito e Capo dell’Armi. Poco distante, cercando, avrebbe potuto rintracciare lo scheletro arrugginito del Torino, il piroscafo che si era arenato nella prima spedizione dei Mille. E si sarebbe ricordato di tanti compagni di viaggio che non c’erano più.
Qualcuno del paese ancora conosceva questo o quel garibaldino e se ne faceva presentare di giovani e novelli. Il caldo era oppressivo fin dalla mattina, essendo agosto, e molti dei neofiti che accompagnavano l’Eroe dei Due Mondi si gettarono in mare mezzi vestiti o nudi, starnazzando sulla battigia o giocando a tirarsi l’acqua. Erano divertiti, ingenui e sinceri, pieni di voglia di vivere e lottare, conoscere e cambiare il mondo. Erano euforici per le imprese realizzate e per quello che avrebbero fatto di lì a poco. Sembrava che il vento della storia li stesse trasportando verso la celebrità, come confermato dalla tranquillità dello sbarco sotto gli sguardi vigili ma lontani della flotta regia che si era mantenuta a distanza di sicurezza. Insomma, c’era da credere o da pensare che esistesse un tacito accordo tra Garibaldi e il re per unificare l’Italia. I veterani, lisciandosi la barba folta venata di bianco, dove si annidavano storie e avventure, drammi e vittorie, raccontavano ai giovani come era andata la prima volta: i paragoni si sprecavano. Questa marcia sarebbe stata ancora più facile e diretta. La gloria era dietro l’angolo, anzi la gloria era a Roma, perché questa volta la spedizione si sarebbe conclusa in riva al Tevere, non a Napoli. Uno di loro, che aveva visto Roma, spiegava agli altri come si sarebbe svolta la marcia trionfale nella futura capitale italiana, tra resti romani e chiese antiche, suntuosi edifici e impressionanti monumenti.
Si misero in marcia cantando e scherzando, a parte le avanguardie e le retroguardie che controllavano la strada e la scia del gruppo. Un grido si propagava per tutta la fila: «O Roma o morte!». A differenza di quanto avvenuto in Sicilia, in Calabria il corteo sfilava nell’assoluto silenzio, rotto solo dal ronzio delle mosche attirate dal sudore dei cavalli e dei muli. I contadini guardavano a distanza quei forestieri vestiti di rosso che chissà perché se ne andavano a piedi o a cavallo nella stessa direzione dalla quale erano partiti, a giudicare dal loro accento. Qualche monello, poi, arrivava a tirare i sassi alle bestie tanto per innervosirle. L’altra volta i garibaldini si erano trovati davanti un esercito, quello borbonico, che non aveva voglia di lasciarci la pelle; ora i soldati erano quelli del regio esercito che, seppure a distanza, mostravano una certa organizzazione e preparazione. Forse la differenza era che in questa occasione erano proprio le camicie rosse a non aver voglia di sprecare sangue. Quando il generale fu informato che le truppe regie, rafforzate da elementi venuti dalla città, erano schierate all’ingresso di Reggio Calabria e non avevano alcuna intenzione di muoversi di là o lasciar passare la truppa dei volontari, arricciò le labbra e si fece pensoso. Bloccò la carovana e ascoltò i più maturi, quelli che portavano ferite sul corpo, cicatrici sulle guance e nell’anima, che sapevano annusare la terra e interpretare la mutevolezza del vento. Si decise di inoltrarsi nell’impervio Aspromonte per evitare uno scontro fratricida. La milizia si affidò quindi a guide esperte del territorio messe a diposizione dal comitato reggino.
Più o meno alla stessa ora, Luigi Ferrari stava sistemando lo zaino di ordinanza, dove aveva nascosto qualche galletta di riserva per i momenti peggiori. Il generale Enrico Cialdini passò in rassegna con i suoi occhi gelidi i sei battaglioni dei bersaglieri al comando del colonnello Emilio Pallavicini di Priola. «Non verremo a patti con Garibaldi e non accetteremo altro fuorché la resa a discrezione» garantì Cialdini. Fresco di nomina a duca di Gaeta, dopo la conquista della piazzaforte assediata, Cialdini aveva ottenuto la delega alla lotta al brigantaggio nell’Italia meridionale, comandando tutte le forze in campo: sessanta battaglioni di fanteria e due reggimenti di cavalleria, per un totale di centocinquemila uomini, circa i due quinti delle forze armate italiane del tempo. Quando aveva saputo che i garibaldini avevano attraversato lo Stretto, si era trasferito da Napoli a Reggio Calabria per dirigere personalmente le operazioni. Aveva un conto in sospeso con il nizzardo, che lo aveva sfidato a duello quando si era attribuito il falso merito di aver salvato i garibaldini dal disastro dopo la battaglia del Volturno. Nonostante il duello non avesse avuto luogo per volontà del sovrano, tra i due era rimasto un certo astio accentuato dai ruoli repressivi che il Cialdini aveva assunto nella sua fortunata carriera militare. Ora meditava una subdola rivincita. E quando scoprì che Garibaldi si era inerpicato sull’Aspromonte, diede il perentorio ordine di «cercarlo e seguirlo senza dargli posa e di attaccarlo e distruggerlo se accettasse il combattimento».
Luigi Ferrari storse il naso vedendo affisso l’ordine di comando del generale modenese. Chiamò a sé i subalterni del 4° reggimento bersaglieri per un conciliabolo che non era formale. Si portava addosso le ferite di tutte le guerre d’indipendenza e non voleva che quella pagina finisse nel triste confronto tra fucili amici. A bassa voce rammentò che le cose stavano cambiando: se all’inizio della spedizione era stato consentito agli ufficiali e ai soldati provenienti dall’esercito garibaldino di astenersi dal servizio in caso di scontro armato con i seguaci dell’Eroe dei Due Mondi, ora era venuto a conoscenza che la tolleranza non era più ammessa. Così trentadue ufficiali della brigata Piemonte che avevano chiesto l’esonero erano stati arrestati e sottoposti al giudizio del consiglio di guerra.
Si lisciò perplesso il pizzo sul mento, più volte, pensando che il destino lo stava mettendo di fronte a una prova estrema, senza appello. Lui come gli altri commilitoni erano colmi di dubbi: se fosse toccato a uno di loro sparare, cosa avrebbero fatto? E se avessero dovuto colpire un amico, un parente, un conoscente, magari un vicino di casa? Negli occhi dei bersaglieri corsero volti conosciuti, persone incontrate, soldati con i quali si erano divisi ideali, campagne, avventure. Ma un ufficiale torinese, che sapeva bene come andavano le cose di corte, spiegò agli altri che i Savoia erano in panico per quella nuova spedizione garibaldina che tirava diritto verso la Roma papalina, difesa dai francesi. Sarebbe stato un massacro umano e politico. Proprio non era il momento di mettersi contro Napoleone III! E poi c’erano gli austriaci che non aspettavano altro che una gaffe piemontese per rimettere le mani sulla Lombardia. Se Napoleone III avesse lasciato la strada aperta, i governanti di Vienna erano pronti a ripassare le Alpi e andare a mangiarsi un bel piatto di pasta a Milano! Luigi Ferrari tastò il polso ai suoi uomini: ora era luogotenente, aveva fatto tutta la gavetta, non poteva sciupare la carriera per quella intricata situazione in cui l’arte politica valeva più di quella militare. In fondo il suo compito era semplice: obbedire agli ordini. Non aveva alternativa. Non ebbe neppure il tempo di porsi il dubbio perché, dopo le parole di Cialdini, la colonna sabauda era in marcia nell’assolata Calabria verso una montagna che sapeva di ginestra e mirto, di sudore e sangue.
Più su il paesaggio era diverso: pioveva a dirotto, i sentieri erano impervi e scivolosi, la marcia difficile da effettuare. Inoltre c’era l’incognita dei briganti che spadroneggiavano in quelle zone. Garibaldi guidava il suo manipolo di uomini in testa, procedendo a piedi con la sciabola sulla spalla, attorcigliata dalle cinghie. Sulla strada incontrò scarsi incoraggiamenti, ma soprattutto scarsi rifornimenti. Solo il 28 agosto le truppe videro comparire delle giovani inviate da Giuseppe Romeo, patriota di Santa Eufemia, che portavano sul capo ceste di pane e insaccati, dolci e formaggi oltre a un gregge di pecore. L’allegria riprese il sopravvento in un bel banchetto con canti e balli. Giuseppe Garibaldi aveva ordinato la macellazione delle povere pecore e quindi mise su un asado, una serie di enormi graticole verticali sulle quali poggiavano le carni fresche. Era un metodo che aveva appreso sulle sponde del Río de la Plata. Ricamò il pranzo con i racconti sui gauchos, sulle pianure sterminate, sui fiumi larghi e dai delta impressionanti. Appena si sentirono sazi, i volontari ripresero il cammino sino alla fattoria Patania, sul pianoro dei Forestali, cosiddetto perché un tempo abitato da quelle guardie. Si accamparono per la notte con tende e ripari di rami, la mattina dopo tergiversarono in attesa degli eventi che puntuali si verificarono poco prima di mezzogiorno. Verso le 11.50 Garibaldi fece togliere il campo dai forestali di Aspromonte, volendosi dirigere verso nord per evitare spiacevoli incontri con i regolari. Ma le sentinelle gli segnalarono l’arrivo delle truppe sabaude, a piedi e a cavallo.
Luigi Ferrari aveva il fiato grosso, forse non aveva più il fisico di un tempo. Ricevuto l’ordine di partire, il maggior generale Pallavicini aveva mosso la truppa di gran carriera lungo la strada per Gallico e da lì si era inoltrato lungo il greto di un fiume quasi in secca che portava lo stesso nome del villaggio. Quando arrivò alle misere case di Podargoni, diede l’ordine di accamparsi e di passare lì la notte.
Alla flebile luce del fuoco, il maggior generale Pallavicini immaginava quello che sarebbe accaduto il giorno seguente. Lui aveva l’abitudine di prestare attenzione alle parole delle ordinanze ma anche di leggere quello che vi stava dietro. Le ordinanze vivevano sulla carta, poi la realtà era un’altra cosa, sosteneva. Le ordinanze modificavano la vita di interi reggimenti, di uomini semplici, al di là delle parole scritte. Emilio Pallavicini era un genovese assai concreto, di origini nobili, ma non per questo capace di adattarsi alla vita militare spicciola e disagevole, come in quel frangente.
Stimava Luigi Ferrari perché conosceva il senso pratico di quella gente della Val di Magra, anche se sapeva che avevano un animo un po’ ribelle per natura. Ma sapeva anche che Luigi Ferrari aveva scelto deliberatamente, come volontario, di votarsi anima e corpo alla missione così speciale e particolare dei bersaglieri che all’epoca erano un po’ i marines dell’esercito sabaudo. Lui stesso era entrato tra i soldati piumati nel 1848, combattendo, come Ferrari, già nella prima e seconda fase della Prima guerra d’indipendenza. Aveva dunque conosciuto sul campo il baffuto castelnovese, apprezzandone le doti umane e militari. Quando restò ferito a San Martino, fu proprio Luigi Ferrari uno dei primi a prestargli soccorso. Lì si era guadagnato l’Ordine militare di Savoia e la promozione al grado superiore, mentre la medaglia d’oro la conquistò nell’assedio della fortezza di Civitella del Tronto conclusosi il 20 marzo 1861. Per questo era stato scelto per le operazioni antibrigantaggio e per la delicata missione di bloccare Garibaldi prima che giungesse al cospetto dello Stato pontificio. In quelle ore tra veglia e sonno Pallavicini riusciva a trasmettere ai commilitoni il senso politico del loro impegno, creare l’Italia e impedire nuove guerre. Molti approvavano, altri tacevano, amareggiati dal dover affrontare dei fratelli italiani.
All’alba erano già a lavarsi la faccia nel torrente scherzando tra loro, come se dovessero fare una gita in campagna. La salita era ripida e scoscesa, spesso i sassi cadevano giù e si trascinavano in basso, diventando pericolosi per i fanti che stavano in fondo alla colonna. I due corpi si facevano dei segnali a distanza per proseguire compatti. Le vedette avevano trasmesso delle segnalazioni sul luogo dove Garibaldi, inaspettatamente, si era quasi fermato ad attenderli invece che proseguire diritto, la mattina presto, per sentieri meno impervi. Più avanzava e più sentiva dolori ai piedi, il povero Ferrari. Non essendosi tagliato le unghie, ora ne pativa le conseguenze. E dovendo salire sulle punte dei piedi faticava parecchio, specialmente quando faceva forza sugli alluci. Quando il colonnello Carlo Eberhardt, ex garibaldino, diede l’ordine di disporsi a ventaglio, Luigi Ferrari prese il suo plotone e si collocò sul lato centrale, il più prossimo all’altra colonna che avanzava guidata dal tenente colonnello Giovanni Parrocchia, assai in difficoltà tra le selve dell’Aspromonte. «Con questo ventaglio faremo fresco a Garibaldi» sentenziò conoscendo le grandi capacità militari del generale.
Pallavicini aveva sotto il suo comando circa duemila uomini ben equipaggiati e attrezzati, addestrati per le azioni contro il brigantaggio, corpi rapidi e agili, adatti alla sorpresa. Truppe scelte, gente coraggiosa, conscia delle difficoltà che si incontravano in quel terreno: il 4° reggimento fanteria del colonnello Eberhardt; il 4° battaglione del 29°; il 4° battaglione del 57°; il 6° battaglione bersaglieri; due compagnie del 25° battaglione bersaglieri, comandate dal maggiore Macedonio Pinelli. Più avanzavano nel declivio e più fremevano. Sapevano che i garibaldini li tenevano sotto tiro. Era abbastanza facile per le camicie rosse puntare alle teste piumate che spuntavano lungo la collina. Si vedevano solo loro, dall’alto. Per questo tenevano l’occhio puntato alla canna e il dito sul grilletto. Quando furono a portata di tiro, i due schieramenti aprirono il fuoco.
Le versioni su chi sparò per primo sono contrastanti. Quelle ufficiali dicono che a premere il grilletto per prime furono le truppe regie e che a rispondere furono dei giovani volontari, malgrado il ripetuto divieto di Garibaldi. E proprio il generale vedendo quello sciagurato confronto armato tra italiani si fece avanti urlando «Non sparate, non sparate!». E poi chiamò per nome i suoi ufficiali ordinando loro di estendere il comando a tutta la linea. Ma i bersaglieri non si fermarono, continuarono a guadagnare posizioni, a sparare, trovandosi oramai a pochi passi dagli altri. Il colonnello dei bersaglieri ordinò: «Sparate ad alzando», che tecnicamente voleva dire «colpite».
Garibaldi si era esposto troppo, era facilmente individuabile nella piana dei Pastorelli. Oltretutto indossava un vistoso mantello grigio foderato di rosso il cui lembo sinistro era rovesciato sulla spalla e in testa portava il suo caratteristico berretto tondo. Era ben visibile sulla sommità della collina da cui controllava il dispiegarsi delle forze di Pallavicini. C...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. HO SPARATO A GARIBALDI
  4. INTRODUZIONE
  5. I. L’INFANZIA A CASTELNUOVO MAGRA
  6. II. IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI
  7. III. L’AMICIZIA CON PIETRO FRECCIA, SCULTORE A FIRENZE
  8. IV. LA RICERCA DELLA PROMESSA SPOSA
  9. V. 1848: VOLONTARIO NELL’ESERCITO SABAUDO
  10. VI. LA BATTAGLIA DI GOITO E IL PRIMO CORPO A CORPO
  11. VII. LA MISSIONE SEGRETA NEL DUCATO DI MODENA
  12. VIII. SERGENTE DEI BERSAGLIERI, MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALORE MILITARE
  13. IX. L’ASSEDIO DI GAETA
  14. X. LO SPARO INFAMANTE
  15. XI. UN CONGEDO PIENO DI RIMORSI
  16. XII. LUIGI FERRARI SINDACO DI CASTELNUOVO
  17. XIII. LA VERITÀ
  18. XIV. UNA NUOVA VITA ALLA SPEZIA
  19. XV. L’ONORE È SALVO
  20. XVI. «VOGLIO RAGGIUNGERE GARIBALDI COSÌ COME L’HO LASCIATO A SCILLA»
  21. EPILOGO
  22. Copyright