È il 2570 a.C. Siamo in Egitto, e più precisamente a Lamadiha, un piccolo villaggio alla periferia del Cairo. È una notte fresca e tranquilla, quando improvvisamente la vallata del Nilo è squassata da un urlo. «Kalaho! Kalaho!», che tradotto sarebbe: «È nato! È nato!».
«Kalaho! Kalaho faraoh!» ripetono tutti. «È nato! È nato il faraone!»
In quella fresca notte di luna piena, gli occhi della gente sono puntati al palazzo reale del faraone. Qui è appena nato il piccolo Stephan. Il padre, Tutankhamon, non riesce a trattenere la gioia, ma, appena vede il neonato, l’urlo di gioia si trasforma in un rantolo di dolore.
Ha capito, infatti, che qualcosa non va. Si è reso conto che i lineamenti del piccolo Stephan non sono tipicamente egiziani. I suoi tratti hanno qualcosa di italiano, e più precisamente di romano, e Tutankhamon con i Romani, che a quel tempo spopolano, non ci va tanto d’accordo.
Così il grande faraone, che non è uno stupido, guarda sua moglie, la regina Cleopatra, e le chiede: «Senti un po’, Cleo, ma quel tuo amico, Giulio Cesare, quello che viene sempre a casa nostra, è veramente un idraulico, come dice?».
Lei ricambia lo sguardo e l’unica cosa che riesce a dirgli è: «Il dado è tratto, caro. È pronta la minestra. Ne parliamo domani?».
Non ne parleranno mai più, ma questa è un’altra storia!
Il piccolo Stephan cresce senza conoscere esattamente le sue origini. Questo fatto lo segna molto, perché Stephan è parecchio diverso dagli altri: la sua pelle è più chiara di quella dei suoi compagni, e in quegli anni di grandi guerre è una cosa che può fare la differenza. Le voci girano, e nel cortile della scuola i bambini iniziano a chiamarlo «Steph-ano l’italiano» e a deriderlo con una stucchevole filastrocca: «Steph-ano: pizza, spaghetti, mafia, mandolino…». Sono solo luoghi comuni, ma il piccolo Stephan trascorre inevitabilmente un’infanzia difficile, e per questo si chiude in se stesso. L’unico amico che ha è una palla, che usa tutti i giorni.
Gli piace giocare in un grosso piazzale del cimitero, davanti alla tomba di suo nonno Cheope, a cui hanno dedicato una sobria «lapide», una piramide.
Quando si ritrova lì davanti, Stephan ripensa sempre a suo nonno, al quale era legatissimo. Era stato lui a infondergli la passione per il calcio, uno sport davvero esotico nell’Antico Egitto. Tutti lo deridevano per quella passione, ma a Stephan quel gioco con una palla, ventidue giocatori e due porte era sempre maledettamente piaciuto. Mentre palleggia, Stephan ripensa a ciò che nonno Cheope gli ripeteva sempre:
«Stephan, tu sei forte con la palla. Sei bravo! Ma qui in Egitto non puoi giocare. Qui ci sono solo il deserto e i cammelli. Dovresti andare in Europa; magari, che so io, in Italia! Lì sì che si gioca veramente al calcio.»
Già, in Italia. Ma ai tempi era praticamente impossibile. Bisognava attraversare il Mediterraneo, e ovviamente non c’erano aerei, e le navi erano quello che erano. Era troppo rischioso.
Il piccolo Stephan, quasi rassegnato, ripensa per l’ennesima volta alle parole del nonno e sale sulla Sfinge, osserva il mare e sogna di potersene andare; sogna di essere portato via dal vento come un granello di sabbia. Sogna di diventare come il Divino Jonathan, che con i granelli di sabbia ci palleggiava.
Ma una mattina come tante, Stephan decide di farsi un giro a Sharm El Sheik e, proprio mentre sta immaginando per sé un futuro da campione, alza lo sguardo al mare e vede che proprio lì, sulla spiaggia, c’è un uomo che gesticola ripetendo continuamente lo stesso movimento: unisce le braccia e poi le allarga.
Stephan, lì per lì, pensa: “Sarà uno dei soliti coglioni che fa acquagym”.
Quasi calamitato da quella immagine, guarda bene e nota che effettivamente alle spalle dell’uomo c’è un gruppo di persone che lo sta osservando, ma nessuno ripete i suoi gesti. Nessuno fa acquagym con lui. Anzi. Quelle persone sembrano molto spazientite, come da una lunga attesa. A un tratto iniziano a urlare: «Mosè, sbrigati! Muoviti! Apri ’ste cazzo di acque!».
Già, perché quell’uomo non è il classico animatore turistico. Quell’uomo è un certo Mosè. Sta cercando di aprire le acque, ma è in grossa difficoltà.
Stephan, incuriosito, si avvicina e gli chiede cosa intende fare.
«Non lo vedi?» gli risponde Mosè. «Sto cercando di separare le acque! E devo anche fare in fretta, perché se no qui finisce male per me!»
Stephan, un po’ perplesso, gli chiede come mai voglia aprire le acque.
«Sto organizzando una gita» gli risponde Mosè. «Si chiama Esodo. Vedi, non ci stiamo dentro coi soldi e le navi costano troppo. Separo le acque e ce ne andiamo a piedi!»
Dietro di lui, intanto, un intero popolo sta perdendo la pazienza: «Mosè, ci hai preso in giro, qui non si va da nessuna parte!» urla qualcuno. «Ridacci i soldi!» gridano altri. «Sei solo un ciarlatano!» si arrischia a dire qualcuno. I più coraggiosi arrivano addirittura a dargli del «Mago Otelma», insulto al quale Mosè risponde a male parole. Ma niente, quelle acque sembrano proprio non volerne sapere di aprirsi.
«È meglio la concorrenza! A saperlo andavamo con Noè!» sbotta infine un tale.
Già, perché dalla riva opposta, a Marsa Alam, sta partendo la più grande nave da crociera di tutti i tempi. È nuova, è bellissima: è l’Arca di Noè.
Qualche anno dopo un certo Leonardo Di Caprio dirà di Noè:
«Se il capitano del Titanic avesse avuto metà del suo talento, non saremmo mai affondati e io avrei vinto l’Oscar.» E, infatti, l’Oscar non lo vincerà mai.
La concorrenza per Mosè è dura da battere. Ovviamente lui punta sul low cost, ma vuoi mettere il comfort dell’Arca? Puoi portarti pure il cagnolino o l’uccellino in vacanza. Anzi. Più ne porti, meglio è. Noè, infatti, è un noto sostenitore di Greenpeace e del WWF. Se ti porti fido o la tua scimmietta, lui è solo contento.
Mosè è in crisi. Molti hanno abbandonato il gruppo, e alcuni stanno già salendo sull’Arca. Deve fare in fretta. Deve aprire quelle maledettissime acque.
Stephan, che di natura è un buono, decide di aiutarlo. Raccoglie un bastone sulla spiaggia, glielo passa e dice: «Prova a muoverlo nell’acqua. Magari si crea un mulinello e riesci ad aprire queste acque».
Mosè lo appoggia nelle acque e improvvisamente: si separano!
L’Esodo ha inizio. Mosè guarda Noè con aria di sfida e gli urla: «La tua Arca sarà anche bella, ma vuoi mettere l’effetto scenografico delle acque? Neanche Spielberg…».
Stephan decide di seguirlo. Prima di incamminarsi, Mosè prende due grosse tavole di pietra, molto pesanti, e dice a Stephan: «Io porto queste. Tu, per favore, prendi le altre due».
Come sempre, Stephan ha in mano la sua palla, non può portare tutto. Deve scegliere. E cosa sceglie, secondo voi? Ovviamente la palla!
Mosè, Stephan e tutti gli altri attraversano il mare, e le acque si chiudono dietro di loro. Dopo un po’ Mosè si gira e si accorge che tra le mani di Stephan c’è soltanto una palla. «Ragazzo, ma le tavole?» gli chiede esterrefatto.
«Le ho lasciate là, Mosè» risponde Stephan, che non conosce l’importanza di quelle tavole di pietra. Erano i venti comandamenti. Per forza di cose diventeranno dieci. Peccato, perché anche gli altri dieci non erano malaccio…
Il tredicesimo, poi, pare recitasse «Chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni», ma è solo una supposizione, perché di fatto le tavole furono inghiottite dal mare e gli altri dieci comandamenti non si trovarono mai più.
Mosè e tutti gli altri arrivano a Lampedusa. Qui Stephan è spaesato. “Devo ricominciare da zero” pensa ad alta voce mentre cammina sulla spiaggia. E proprio la parola «zero», pronunciata da Stephan, attira un certo Adriano Galliani, che a Lampedusa sta cercando dei giocatori a parametro zero. Non appena lo vede palleggiare, poi, telefona al presidente Berlusconi e lo ingaggia subito.
Galliani lo porta al Milan, e per il presidente Berlusconi diventa un idolo.
«Adriano, per caso anche questo El Shaarawy è nipote di Mubarak?»
«No, ma è figlio del faraone Tutankhamon.»
Il faraone, nel frattempo, si è accorto che suo figlio è scomparso, o meglio: è scappato in Italia con il traditore Mosè. Non può tollerare un affronto simile, è una cosa inaccettabile. Decide dunque di lanciare la maledizione del faraone, «le dieci piaghe di Stephan». Da quel momento El Shaarawy comincia a essere tormentato dagli infortuni: stiramenti, strappi, sindrome di Pato, morbo di Puppenaz. Ha provato a riprendersi nel Principato di Monaco, ma non ha funzionato. La maledizione, evidentemente, era ancora in corso. Ora tenterà di guarire a Roma. Chissà, la speranza è l’ultima a morire. E come dice lui stesso in un famoso spot: «La palla che aspetti arriva anche all’ultimo minuto».
Il Pallone d’Oro è il premio individuale più importante nella carriera di un calciatore. Solo i grandissimi (anche se non sempre è andata così…) hanno alzato questo trofeo. C’è anche chi, come Messi o Cristiano Ronaldo, ha avuto la fortuna di vincerlo più volte. CR7, per esempio, può vantarne addirittura tre in bacheca. Un fenomeno, senza ombra di dubbio.
Ma chi è realmente Cristiano Ronaldo?
Siamo in Portogallo, e più precisamente a Saudaghisho, un piccolo paese in provincia di Lisbona. Qui vive il giovane Miguel Ronaldo.
Il giovane Miguel è un bambino molto devoto alla Chiesa cattolica. Fa il chierichetto nella piccola parrocchia di Saudaghisho e trascorre in oratorio tantissime ore della sua giornata.
Ma mentre in oratorio i bambini della sua età giocano a calcio, sognando di diventare il nuovo Pelé, Miguel se ne sta a osservarli dal campanile, dove all’ora convenuta fa suonare le campane. Se i suoi coetanei nella loro camera hanno i poster di Maradona, Van Basten o Eusebio, lui ha quelli di papa Wojtyla, Padre Pio e Paolo Brosio. Il suo sogno non è quello di diventare un calciatore o un divo di Hollywood. Lui, da grande, vuole diventare papa.
Tutti i pomeriggi sua madre gli dice: «Miguel, perché non vai a divertirti con gli amici?».
Lui ogni volta la guarda, sorride e le risponde: «Mamma, io di amico ne ho uno solo, e basta per tutti. Si chiama Dio. Scusa se è poco…».
Visto il suo attaccamento alla religione, a Saudaghisho tutti iniziano a chiamarlo «Cristiano» Ronaldo.
Un giorno, proprio mentre è intento a servire una delle tante messe, accade qualcosa che gli cambierà per sempre la vita. Il parroco di Saudaghisho, tale don Francisco, un prete argentino trasferitosi in Portogallo, urta per sbaglio il calice, che rischia di cadere e rovinarsi. Sarebbe un disastro, un vero sacrilegio. Ma Cristiano, con un gesto istintivo, allunga il piede e, prima che il calice tocchi terra, riesce a dargli un colpetto e a riportarlo sull’altare. Cristiano ha appena fatto un miracolo: ha appena palleggiato con il calice.
Alla scena ha assistito tale Ferdinando Pauliño De Sousa, ovvero il più grande osservatore di calcio portoghese, che si trovava in chiesa per il battesimo della nipote. Ferdinando capisce subito che il ragazzo ha un talento straordinario. Un gesto del genere avrebbero potuto farlo soltanto tre persone: Diego Armando Maradona, Pelé e ovviamente il Divino Jonathan. A dire il vero, il Divino avrebbe fermato il calice col pensiero, ma questa è un’altra storia.
Finita la messa, Ferdinando lo chiama subito a sé: lo vuole portare immediatamente allo Sporting Lisbona. Per farlo, però, deve passare da don Francisco. E il prete non lascerà andar via tanto facilmente il suo chierichetto migliore.
Ferdinando propone a don Francisco uno scambio: «Tu l...