Storia invisibile della razza umana
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Storia invisibile della razza umana

Come il DNA e la storia danno forma alla nostra identità e al nostro futuro

  1. 416 pagine
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Storia invisibile della razza umana

Come il DNA e la storia danno forma alla nostra identità e al nostro futuro

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Miliardi di dati personali immagazzinati nel cuore di granito delle Montagne Rocciose, archivi polverosi contenenti i registri dei deportati nelle prigioni della Tasmania, un laboratorio di Oxford che segue le tracce delle popolazioni dell'antica Britannia, moderne società private che custodiscono in immense banche dati il DNA di milioni di individui e nuovi detective della genetica in grado di documentare un'ascendenza diretta con Gengis Khan... Come si conserva il passato dell'umanità? Quale ruolo svolgono i cromosomi dell'uomo di Neanderthal nel nostro corredo genetico attuale? In che modo l'eredità biologica e culturale caratterizza la nostra specie?

Attingendo a ricerche all'avanguardia nel campo della genetica, Christine Kenneally, pluripremiata giornalista australiana, in Storia invisibile della razza umana risponde a queste e ad altre domande, le stesse che da sempre gli uomini si pongono riguardo alle proprie origini, come del resto testimoniano le innumerevoli genealogie dell'Antico Testamento, le ossessioni dinastiche delle famiglie reali e, più di recente, il crescente interesse per la genealogia reso possibile dai progressi nella decodificazione del genoma. Infatti, se l'eredità della razza umana è un tesoro che ci è stato trasmesso sotto forma di antichi manufatti storici, essa è custodita anche nel nostro DNA, e quindi nei nomi che portiamo, nelle emozioni e persino nelle credenze e negli atteggiamenti che si tramandano da un'epoca all'altra e da una cultura all'altra, come dimostrano – e sono solo alcuni esempi fra i tanti – la sopravvivenza attraverso i secoli dell'antisemitismo, le conseguenze, psicologiche prima ancora che economiche e sociali, della tratta degli schiavi sulle odierne popolazioni africane o la disponibilità a cooperare in vista di un fine comune tipica di particolari comunità agricole dell'Estremo Oriente che non hanno conosciuto la civiltà dell'aratro.

Per indagare questo passato, Christine Kenneally supera la dicotomia tra natura e cultura, integrando le recenti scoperte della biologia e della genetica in una più ampia prospettiva storica e umanistica e invitandoci a guardare con maggiore curiosità e rispetto alla genealogia, una disciplina spesso banalizzata e avversata dagli storici di professione, foriera talvolta di visioni spaventose, come quella dell'eugenetica nazista, e tuttavia capace di far affiorare i tanti segreti sepolti nelle storie individuali e familiari. Storia invisibile della razza umana si rivela così una fonte sorprendente e imprescindibile per ripercorrere il cammino intrapreso duecentomila anni fa dall' Homo sapiens nell'Africa subsahariana, per fare luce sul nostro presente e, soprattutto, per capire cosa potremmo diventare in futuro.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852071560
Parte seconda

CHE COSA VIENE TRAMANDATO?

V

Silenzio

La storia è importante. Se non conoscete la storia è come se foste nati ieri. E se foste nati ieri, chiunque lassù, in una posizione di potere, potrebbe raccontarvi qualsiasi cosa e non avreste modo di verificarla.
HOWARD ZINN
Nel 1937 Geoff Meyer, di appena quattordici mesi, comparve davanti a un magistrato che fece di lui un minore sotto tutela dello stato e lo consegnò a un orfanotrofio pubblico. Quando aveva quattro anni, Meyer viveva in un «centro per ragazzi», che ospitava da trenta a cinquanta maschi fino a quando venivano dati in affidamento, anche se molti venivano assegnati a una famiglia affidataria, restituiti e ridati in affidamento. In tutti gli anni che vi trascorse, Meyer non imparò mai il nome degli altri ragazzi. «Non eravamo autorizzati a parlare tra noi,» disse, «e il personale diceva sempre: “Ehi, tu” o usava brutte parole.»1
Al centro ogni giornata iniziava con una resa dei conti per i bambini che bagnavano il letto. Il personale avvolgeva le lenzuola fradice di urina intorno alla testa dei malcapitati e li faceva sfilare per il dormitorio. Gli altri ragazzini ridevano, disse Meyer, finché non capitava a loro. «Io ero troppo piccolo per ridere di chiunque» mi raccontò. «Avevo paura di prenderle.» Il cibo era spesso andato a male, e quando Meyer vomitò dopo avere mangiato porridge infestato da insetti fu costretto a ingoiare il suo stesso vomito. I ragazzini venivano fustigati e costretti a strofinare il pavimento con uno spazzolino da denti, ma il castigo più temuto era il piccolo armadio nel sottoscala. I bambini venivano rinchiusi senza cibo né acqua e si sporcavano finché non venivano liberati. «Non parlavamo mai» disse Meyer. «Ci tenevamo per mano.»
Quando arrivavano in visita i potenziali genitori affidatari, i bambini venivano messi in fila sotto il portico per l’ispezione. Meyer fu dato in affidamento otto volte, l’ultima sistemazione fu presso una donna anziana a Wentworthville, nel Nuovo Galles del Sud. Meyer non sapeva chi fossero i suoi genitori, perché fosse sotto tutela, né se avesse parenti; e (come ogni altro adulto nella sua vita) il suo nuovo genitore affidatario non intendeva dirgli nulla. Fu solo per caso, mentre lo iscriveva alla scuola locale, che scoprì per la prima volta il giorno del suo compleanno. A scuola tutti sapevano che era un minore sotto tutela perché il vicepreside lo fece alzare in piedi insieme a un altro ragazzo annunciando alla classe: «Sono in carico ai servizi sociali perché le loro madri non li hanno mai amati».
Il 10 maggio 1954, il giorno del suo diciottesimo compleanno, Meyer fuggì e non tornò mai più. Aveva ventiquattro sterline e diciotto scellini, gli abiti che aveva indosso, una racchetta da tennis, una mazza da cricket e nessun amico, conoscente o familiare di cui fosse a conoscenza. Non aveva idea di come trovare un lavoro o un posto dove stare.
Nel secolo scorso in Australia almeno mezzo milione di bambini fu affidato a un istituto. Oggi negli Stati Uniti più di trentamila bambini sono in situazioni analoghe, e in Africa, Asia e America Latina i dati ufficiali sono dell’ordine delle decine di migliaia, anche se si ritiene che vi siano molti altri casi non ufficiali. Questi bambini furono a lungo ignorati, ma negli ultimi vent’anni sono venute alla luce molte storie di maltrattamenti in istituti e delle lunghe e rovinose conseguenze. In tutto il mondo occidentale, adulti che un tempo erano bambini istituzionalizzati hanno riferito esperienze molto simili di fustigazioni, lavoro coatto, abusi sessuali e torture emotive. In alcune case i bambini non erano autorizzati a guardarsi l’un l’altro negli occhi.
Anche le conseguenze a lungo termine di un simile trattamento sono state le stesse in tutto il mondo. Raggiunta una certa età, i bambini erano espulsi dalle loro «case» ed entravano nel proprio paese come dei «rifugiati», senza sapere nulla di «enti locali, biblioteche o votazioni». Molti morivano per cause legate ad alcol e droghe, mentre alcuni facevano carriera in istituzioni come la marina, o negli ordini religiosi che dirigevano i loro istituti. Alcuni avevano successo, ma tanti erano in difficoltà. Stando ai dati, uno su tre tentava il suicidio, molti diventavano dei senzatetto e avevano un’alta incidenza di malattie mentali e lesioni fisiche. In gran parte degli «ex orfani» si notava un’evidente bassa statura (caratteristica attribuita di solito alla malnutrizione). Anche se vivevano nel terrore di essere ricoverati in case per anziani, diversi dei loro figli finivano per essere affidati a un istituto. Un altro percorso molto battuto è quello dagli orfanotrofi al carcere: gli ultimi tre condannati all’impiccagione in Australia crebbero in posti del genere.
Sebbene oggi la maggior parte delle persone sappia che a volte, in quelle case, i bambini subivano cose terribili, pochi comprendono che queste istituzioni operavano come regimi totalitari all’interno di una democrazia. Oltre a essere luoghi di tortura fisica e mentale, gli istituti controllavano l’accesso dei bambini alle informazioni sia mentre erano istituzionalizzati sia in seguito. In molte case il personale esercitava la propria autorità sui rapporti tra i bambini e il mondo esterno: poteva tacere notizie o perfino confiscare le lettere della famiglia. Negli istituti alcuni ricevevano un’istruzione scolastica e non li lasciavano per anni. A molti non veniva insegnato nulla. I loro nomi venivano cambiati in modo arbitrario e non era insolito che li chiamassero con un numero. Alcuni bambini venivano informati che i loro genitori erano morti o che non volevano rivederli mai più, mentre invece non era vero.
Anche se sono trascorsi molti anni dalla chiusura di queste comunità, informazioni di importanza vitale sui loro ospiti vengono ancora taciute. Per quei bambini è come se qualcuno li spingesse attraverso lo specchio, e a distanza di decenni non riescono ancora a trovare la via del ritorno.
Che cosa viene tramandato? I documenti, è ovvio, sono per definizione una fonte fondamentale di dati personali. Potrà essere un’osservazione banale, ma talvolta non ci accorgiamo di che cosa viene tramandato fino a quando ciò non avviene. Certificati di nascita, documenti scolastici, nomi di familiari e tutte le altre informazioni che diamo per scontate spiccano in modo inquietante per la loro assenza. I normali documenti che registrano lo scorrere di una vita contano molto, non solo per governi, enti e archivisti, ma anche per la gente comune.
Uno dei motivi per cui è così difficile capire il senso dello sradicamento vissuto dagli ex ospiti delle comunità è che la maggior parte delle persone vive la propria vita ben integrata in una rete di informazioni. Sa dove è nata. Sa se i propri genitori si amavano. Sa com’è quando un adulto si lava i denti. Appartiene a gruppi interconnessi, che si tratti di una famiglia, di un quartiere o di una religione, e ha esperienze che consolidano di continuo ciò che sa. Questi frammenti di conoscenze e i fili che li uniscono formano un corpus di informazioni di importanza incalcolabile, che fornisce non solo una storia, ma il senso del proprio sé. Per la maggior parte di noi è quasi impossibile immaginare di non possedere simili informazioni su noi stessi, eppure esse furono in pratica cancellate dalle vite dei bambini degli orfanotrofi del XX secolo.
Un ex orfano mi disse che i bambini con un passato nelle comunità vogliono, come qualsiasi altro cittadino, avere informazioni su se stessi e sulla loro famiglia (o chi ne fa le veci) e tutto il potere legato a tale conoscenza. Ottenerle significa tuttavia affrontare ostacoli enormi. In Australia la documentazione è sparsa in ogni rispettivo stato, conservata da archivi governativi e da istituti religiosi che ospitarono i bambini. La pubblica amministrazione può impiegare anni prima di rispondere a una singola richiesta. Molti documenti sono andati distrutti, ma non è chiaro che cosa sia andato perduto e che cosa non sia mai stato conservato in partenza. Molte pratiche sono prive di data, lacunose o inesatte, e non vi è alcuna coerenza nel modo in cui vengono cercate o fornite. Non esiste un ente centralizzato, e la maggioranza delle persone necessita di competenze da archivista professionista per trovare e comprendere i documenti. In genere gli ex orfani diffidano della burocrazia e, benché per loro sia già abbastanza intimidatorio entrare in un’istituzione neutrale come un archivio della pubblica amministrazione, molti sono costretti a rivolgersi proprio all’organizzazione da cui hanno subìto maltrattamenti. L’eccessivo zelo nell’applicare le leggi sulla privacy significa anche che, quando molti ex orfani riescono a ottenere gli incartamenti, i nomi dei loro fratelli e sorelle dispersi sono censurati. Un ex minore sotto tutela ricevette la fotografia di una festa di bambini: tutte le faccine erano cancellate con il bianchetto a eccezione della sua.2
In quarantotto stati americani la maggioranza dei cittadini non solo ha un accesso automatico ai propri certificati di nascita originali, ma è anche protetta da leggi sulla privacy, per cui nessun altro può vederli. Ma questo non vale per i bambini adottati. Al momento dell’adozione gli atti di nascita vengono sigillati, e si rilascia un nuovo certificato con i nomi dei genitori adottivi. A meno che i genitori biologici abbiano segnalato in modo esplicito il loro consenso a essere contattati in seguito dall’adottato, in molti stati le persone adottate non possono accedere ai loro documenti se non sborsando centinaia di dollari per ottenere un’ordinanza del tribunale. Perfino allora, gli adottati adulti che presentano un’istanza possono vedersi negare l’accesso e, se l’ottengono, le informazioni fornite possono differire da stato a stato.
Nel Texas e nella Carolina del Sud gli adottati sono tenuti per legge a ricevere una consulenza psicologica per affrontare le eventuali conseguenze emotive di apprendere chi siano i loro genitori biologici. Nel Connecticut divulgare qualsiasi informazione che potrebbe aiutare a identificare genitori biologici è contro la legge qualora un terzo (per esempio l’agenzia che all’inizio ha trovato una sistemazione per il bambino) ritenga che sarebbe negativo per l’adottato o per i genitori biologici. In molti stati i genitori biologici hanno la possibilità di bloccare l’eventuale apertura dell’archivio. Nel 2008 nel Minnesota milleduecento adottati non riuscirono ad accedere alle informazioni di base sulla loro nascita a causa di un affidavit presentato dai loro genitori biologici. Dopo tutti i mutamenti sociali degli anni Sessanta, dopo i passi avanti dell’era dei diritti civili, dopo l’approvazione di leggi che rendevano illegale la discriminazione contro le donne e la gente di colore, gli adottati sono l’ultimo gruppo di cittadini nati in America cui sia negato l’accesso diretto a informazioni fondamentali.3
Quando è possibile recuperare queste informazioni, anche il dettaglio più banale di una vita rubata può, com’è naturale, risultare traumatico. «La gente beve fino al punto di ubriacarsi per riuscire a leggere la sua pratica» mi disse un attivista. In un rapporto governativo una donna raccontava di avere aperto la documentazione a casa, da sola, e di essere stata ricoverata in un reparto psichiatrico una settimana dopo. Altri mettono via i loro documenti senza mai guardarli.
Nel 2004 Ivy Getchell andò in cerca di informazioni su se stessa negli uffici della pubblica amministrazione. I servizi sociali l’avevano tolta alla sua famiglia da piccola e passò anni alla Scuola femminile di Parramatta, un vecchio carcere dove i ferri per le gambe e per i polsi erano ancora attaccati alle pareti. A Parramatta, il «nome» di Ivy era «Cinquantacinque». Soltanto a settantuno anni si sentì in grado di cominciare a cercare i documenti riguardanti la sua vita. Suo padre era morto da tempo, ma trovò alcune sue lettere di cui ignorava l’esistenza. Le scriveva:
Ivy, piccola mia, per amor di Dio rispondi alle mie lettere. Fammi sapere dove ti trovi. Io verrò e ti porterò a casa. Ci manchi e ti vogliamo bene. Ora abbiamo una bella casa su dalla vecchia Kelly vicino al monte Bathhurst. Te la ricorderai. Ivy, ho un lavoro. Posso aiutarti. Per favore fammi sapere dove sei.4
Conobbi Geoff Meyer nel 2012. Con il suo maglione jacquard e i capelli impomatati sembrava un qualsiasi nonno settantaseienne. Era cortese e spiritoso, e mi chiamò «amica». Non molto tempo dopo essere scappato a Sydney, disse, «cominciai a mettermi in testa di scoprire se avevo dei familiari». Immaginò che il posto migliore per verificarlo fosse il Dipartimento per la tutela dell’infanzia. «Sono un minore sotto la tutela dello stato» disse a un giovane dell’ufficio locale. «Sto tentando di scoprire se ho una madre e un padre.» Il giovane andò nell’altra stanza e tornò dopo cinque minuti dicendo: «Penso che potrebbe avere una sorella». Scomparve di nuovo per controllare meglio, poi arrivò un uomo più anziano che disse a Meyer: «Credo che farebbe meglio ad andarsene». Lui pensò di avere capito male. «Credo che farebbe meglio ad andarsene» ripeté l’uomo. «No» rispose Meyer. Continuarono a discutere, e Meyer, nonostante l’impiegato gli intimasse di andarsene senza dargli alcuna spiegazione, rifiutava di muoversi. Poi l’impiegato gli disse: «Se ne vada, cazzo, o chiamo la polizia». Meyer ebbe paura di essere rispedito dalla madre affidataria e così se ne andò.
Trovò un lavoro, si sposò ed ebbe quattro figli e, col passare degli anni, undici nipoti. Non raccontò mai a nessuno di loro di essere cresciuto in un istituto. Se i figli gli domandavano della sua infanzia, cambiava argomento. Quando andò in pensione, però, cominciò a recarsi negli uffici dell’anagrafe per vedere che cosa riusciva a trovare. Perfino allora non informò la moglie del suo passato. «Mi sembrava un fatto molto, molto privato» spiegò. Alla fine rintracciò il suo certificato di nascita e scoprì che sua madre era Maisie Aileen Meyer, di Sydney, e che suo padre era Leo Joseph Meyer, un marinaio americano. Non c’erano informazioni sul motivo per cui era stato posto sotto tutela né testimonianze di contatti da parte dei suoi genitori. Proseguendo le ricerche, Meyer ricevette risposte diverse da uffici diversi. Alcuni funzionari furono gentili con lui, altri sbrigativi. Uno affermò che le informazioni che lo riguardavano erano andate perdute in un’inondazione, un altro che erano state distrutte da un incendio. All’anagrafe dovette rivendicare il suo diritto ad avere una copia dei documenti che lo riguardavano. Quando li riceveva, occorrevano mesi perché gli pervenissero e spesso mancavano documenti rispetto alla serie originale di cui aveva preso visione.
A sessantotto anni Meyer vide un annuncio sul giornale per la ricerca di ex minori sotto tutela dello stato. Rispose e poco tempo dopo si ritrovò alla sede centrale della Care Leavers Australia Network di Sydney, dove parlò con uno dei suoi fondatori, Leonie Sheedy. «Cominciò a parlarmi e io parlai con lei. Più parlavo, più cose mi tirava fuori. Non avevo mai parlato così prima di allora.» Quando la lasciò, quel giorno si sentiva «come Superman che cammina per aria ... come Gesù Cristo che cammina sull’acqua». Quella conversazione diede una nuova prospettiva alla sua vita. «Pensavo di essere io il motivo per cui erano successe tutte quelle cose» spiegò. «Per tutto quel tempo, avevo pensato che stava capitando solo a me, ma era successo ovunque.» Quel giorno, quando arrivò a casa e raccontò alla moglie della sua esperienza, lei gli domandò: «Cos’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Storia invisibile della razza umana
  4. Nota dell’autrice
  5. Introduzione
  6. Parte prima. LE IDEE SU CIÒ CHE VIENE TRAMANDATO SONO TRAMANDATE
  7. Parte seconda. CHE COSA VIENE TRAMANDATO?
  8. Parte terza. COME CIÒ CHE VIENE TRAMANDATO CONDIZIONA CORPI E MENTI
  9. Epilogo
  10. Note
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright