Il Sole dell'Avvenire - vol. III
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Il Sole dell'Avvenire - vol. III

Nella notte ci guidano le stelle

  1. 516 pagine
  2. Italian
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Il Sole dell'Avvenire - vol. III

Nella notte ci guidano le stelle

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In questo terzo e ultimo volume de Il Sole dell'Avvenire, Valerio Evangelisti continua a seguire le vicende di alcune famiglie romagnole, attraverso i grandi cambiamenti politico-economici che investono la regione e l'Italia intera.

Nel tormentato periodo che va dagli anni Venti alle soglie degli anni Cinquanta, il fascismo si afferma ed esplode, dissolvendo, tra l'altro, la compattezza dei nuclei familiari.

Spartaco, "Tito", Verardi diviene squadrista e architetto della distruzione delle conquiste del movimento operaio. Destino Minguzzi è assorbito, quasi suo malgrado, dal mondo dei clandestini e degli esuli antifascisti, e dalle sue lacerazioni a volte drammatiche. Soviettina, "Tina", Merighi si trova a partecipare alla guerra di liberazione nella più anticonformista e "romagnola" delle formazioni partigiane. Nessuno di costoro "fa la storia", ma tutti, a loro modo, vi partecipano. Non senza chiedersi, alla nascita di una nuova Italia, se la realtà corrisponda davvero ai loro auspici.

Su questo interrogativo si chiude una grande saga popolare, un'opera unica nel panorama letterario italiano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852070549
Parte terza

Soviettina

In armi

51

La Scansi

Come domestica presso i conti Ferniani, Soviettina Merighi, detta “Tina”, doveva spesso andare a Faenza per commissioni. Vi si recava volentieri, in bicicletta, una di quelle completamente in legno, volute dal regime per risparmiare sui metalli. Sapeva che in alcune parti d’Italia gli inglesi avevano cominciato bombardamenti massicci. A fine primavera del 1943 la Romagna era ancora risparmiata. Si pedalava tra scenari ubertosi senza pericolo. L’arietta in faccia metteva allegria.
Tina si trovava bene presso i Ferniani. Erano liberali di vecchio stampo, nemici giurati del fascismo. Se come proprietari terrieri si comportavano più o meno allo stesso modo degli altri latifondisti, verso il personale della loro villa di Errano mostravano gentilezza e attenzioni. Tina era la loro favorita, così graziosa e bambinesca. Quando certi giovani nobilastri avevano cercato di molestarla, erano intervenuti con severità. E con efficacia: sotto il regime l’agiatezza equivaleva a potere.
Tina approfittava delle commissioni a Faenza per andare a trovare il padre, Cincin Merighi, nella sua officina di meccanico. Da quando il podere I Poeti e gli Artigiani si era dissolto sotto il peso dell’autarchia e dell’economia di guerra, Cincin si occupava solo di motori. Con la sua bravura era riuscito a mettere da parte qualcosa e a sistemare ciò che restava della famiglia (Andreina era morta nel 1940) in una piccolissima proprietà in provincia di Forlì, in una frazione di Modigliana. Vivevano però dei suoi guadagni.
Nel giugno del 1943, vedendo entrare in bottega la figlia, Cincin le disse: «Tina, ho degli pneumatici un po’ usati ma buoni, sia italiani sia tedeschi. Credi che ai conti Ferniani potrebbero interessare?».
Tina restò sorpresa. «Non credo, babbo. Specialmente in questi giorni, in cui ci sono stati furti di pneumatici nelle caserme qui intorno. Nessuno ne comprerebbe. Meno che mai i Ferniani, malvisti dal Fascio.»
«Furto è una parola grossa» replicò Cincin. «A parte che io non c’entro nulla, e che per l’acquisto della partita ho ricevute piene di bolli, a me sembra piuttosto una burla della Scansi. Tu che ne pensi, Silvio?»
Silvio Corbari emerse da dietro un camioncino, gli avambracci coperti d’olio. Era un impiegato dell’Ufficio annonario del comune, ma era stato meccanico e gli era rimasta la passione. Così, a tempo perso, andava ad aiutare Cincin. Condivideva con lui, almeno in parte, la filosofia di vita. La visione politica era poi quasi identica: confusissima, a parte un antifascismo radicato, per non dire connaturato.
«Noi non c’entriamo» dichiarò Corbari. «Se metà dei mezzi fascisti non possono viaggiare, non incolpino questo o quello. Le gomme erano vecchie. Farle sparire è stata di sicuro una protesta interna per averne di nuove.»
A Tina Silvio Corbari piaceva molto. Aitante, con occhi di un blu intenso e un viso angelico, ma non privo di guizzi vagamente diabolici, era senz’altro bello. Il suo unico cruccio era la stempiatura. Lavorava di pettine per nascondere la calvizie incipiente.
Per farsi riformare si era finto pazzo e preda di accessi di epilessia. Un passato di attore dilettante lo aveva aiutato nella recita. Quando, dopo alcuni rifiuti, la commissione medica lo aveva rimandato a casa, le crisi epilettiche erano sparite di colpo.
A Faenza era tra gli animatori di un gruppo di burloni detto “la Scansi”, voce del verbo “scansare”. Il nome significava più o meno “la si eviti”, “statene alla larga”. I suoi membri facevano scherzi crudeli a tutti – ma in particolare ai pezzi grossi del Fascio –, non sempre innocenti né privi di valore politico. Misero per esempio una granata di cannone sulla statua del generale Pasi, nel viale della stazione. Gli artificieri che intervennero la trovarono piena di pasta e fagioli.
Più grave, e segno di un’evoluzione verso la lotta armata, fu il lancio di una bomba a mano nella casa del segretario del Fascio, nella Filanda Vecchia. Non fece feriti e non fu rivendicata. L’intera Faenza però conosceva gli autori del gesto.
«Tina, come va nel podere?» chiese Cincin.
«Al solito. Avere perso Sussi e Biribissi rende il lavoro più difficile. Siamo tutte donne, a parte il piccolo Athos.»
«Non c’era denaro per pagarli. Li avremmo persi comunque: sono stati richiamati sotto le armi e spediti in Jugoslavia. Vi resta Pistinega.»
«Viene quando può. Conselice è lontana, e lui ha famiglia. Quando torni a trovarci?»
«Questa domenica. Intanto di’ a tua madre che mi sono arrivate delle lettere di Destino. Tutte assieme, anche se spedite in date diverse. A causa della censura non si legge quasi niente, ma è in Francia, dopo essere stato in Spagna. Se c’è ancora: la lettera più recente è di due anni e mezzo fa.»
«La zona della Francia legata ai tedeschi?»
«Non esiste più, di fatto. Adesso tutto il paese è occupato da tedeschi e italiani.»
Tina ritirò da Cincin qualche soldo per la famiglia. Prima che uscisse, Corbari le gridò: «Evita piazza Saffi, se puoi».
«Perché?»
«Ci potrebbero essere disordini.»
Fedele a una certa indole familiare, Tina inforcò la bicicletta e puntò proprio su piazza Saffi. Vi trovò assembrata una gran folla silenziosa, sia faentina sia calata dal circondario. Le camicie nere rimanevano, armate, sotto il portico degli Orefici. Se erano uscite in strada per reprimere, non si erano attese una massa così ampia e disciplinata.
«Perché questo raduno?» domandò Tina a uno degli astanti.
«È il 10 giugno. Si ricorda l’assassinio di Giacomo Matteotti.»
«E chi sarebbe?»
«Un deputato socialista ammazzato dai fascisti quasi vent’anni fa.»
Tina sapeva chi fossero i socialisti ma non credeva che potessero essere così numerosi, specie a Faenza, dove una gran forza non l’avevano mai avuta. La stupiva meno la diffusione di sentimenti antifascisti. Già dal 1942, se non da prima, erano cominciati scioperi di protesta contro il regime in varie fabbriche, anche militari, di Bologna, tra le operaie di Ravenna e tra le mondine di Medicina e di Molinella. La repressione, ferocissima, stentava a contenere la ribellione, a volte guidata dagli stessi sindacati fascisti, caduti in cattive mani.
La guerra, anche nella sua breve fase vittoriosa, aveva aggravato la condizione già penosa del proletariato, sia agricolo sia industriale. Occasionalmente trapelava la notizia di scioperi di massa a Torino, a Milano e a Reggio Emilia. Persino a Forlì. Se gli operai combattevano le riduzioni di salario o l’obbligo di lavorare nei giorni festivi, nelle campagne la bestia nera erano gli ammassi, cui era obbligatorio consegnare l’intera produzione agricola, o la tessera annonaria, che dava diritto a centocinquanta grammi di pane al giorno e a cinquanta grammi di carne alla settimana, purché arrivasse.
I braccianti, una moltitudine, pretendevano di essere pagati non in denaro ma in generi alimentari. Chiedevano come paga chili di farina. I mezzadri domandavano l’annullamento dei patti che li costringevano alle regalie e al lavoro gratuito. In un periodo in cui tanti di loro erano in guerra, e per la prima volta dal 1915-18, non era raro trovare poderi condotti da sole donne e dai figli minori.
Il regime rispondeva facendo appello ai sentimenti nazionalistici, svelleva i cancelli per avere metallo, indiceva campagne come quella dell’“oro alla patria”. In alcune parti d’Italia funzionava, in Emilia e in Romagna per niente. Gli ori di famiglia erano da tempo al monte di pietà. Le casate illustri cedevano la bigiotteria e conservavano i gioielli veri. Il ripudio della guerra e della sua economia cominciava a essere interclassista.
A un certo punto, la folla radunata in piazza Saffi prese a scandire: «Pane, pace, lavoro e libertà!».
Tina pedalò via. Non aveva paura, ma non voleva mettersi nei guai. Quelli, però, a casa Ferniani arrivarono da soli. Pochi giorni dopo giunsero alla villa alcuni signori. Parevano professionisti: avvocati, notai, funzionari. L’unico che si distingueva era Silvio Corbari che, anche ben vestito, come quel giorno, aveva modi di fare da popolano.
«’Sa fèt a qvè?» gli chiese Tina.
«C’è un incontro del Fronte nazionale italiano, l’unione dei partiti antifascisti.»
«I ’m pê tót di sgur ō n. Mi sembrano tutti signoroni.»
«Lo sono. Secondo me, da questa gente possono uscire solo chiacchiere. Vengo più che altro per capire cos’hanno in mente.»
Tina era fortemente attratta da Corbari, ma lo sapeva sposato e con un figlio. Su di lui non costruiva fantasie. Queste erano alimentate, piuttosto, da altri appartenenti alla sua allegra brigata. Non osava frequentarli e si limitava a seguirne da lontano le scorribande. Erano grandi bevitori, e se si presentava l’occasione di una rissa non si sottraevano. Una compagnia poco adatta a una signorina dabbene, impiegata presso una famiglia aristocratica.
Quando la riunione terminò, Tina, che curava le siepi in giardino, incrociò nuovamente Corbari.
Lui fece una smorfia. «Come immaginavo. Tanto vacui e pretenziosi quanto privi di idee su cosa fare. Repubblicani, socialisti riformisti, liberali, un cattolico. Fosse per loro, l’Italia dovrebbe tornare a essere quella dei notabili di prima del fascismo.»
«E i comunisti?»
Tina pose la domanda perché, in quegli anni, i comunisti erano stati la sola forza di opposizione realmente presente e, in qualche misura, attiva. Soprattutto a Conselice, Lavezzola e Alfonsine. Tra arresti continui e deportazioni erano riusciti a far circolare la propria stampa anche nei momenti più bui. La diffondeva una mitica donna bionda che non si riusciva mai a catturare. Forse non esisteva nemmeno.
«I comunisti non erano presenti» rispose Corbari. «Del resto, quelli di Faenza sono rammolliti persino peggio di questi ciccioni. Eccetto due.»
Tina sapeva a chi si riferiva. Ad Alfredo Samorì, detto “Fredino”, incarcerato a Civitavecchia fino al 1933, e a Bruno Tramonti, detto “Cinello”, di Modigliana. Non grandi personalità, ma rispettati per coerenza e audacia.
«Dunque questo Fronte nazionale non farà nulla?» chiese Tina.
Corbari le fece l’occhietto. «Aspetta. Al momento giusto la Scansi combinerà ai fascisti lo scherzo peggiore di tutti.»
52

I quarantacinque giorni

L’occasione dello “scherzo” giunse il 25 luglio 1943. Per meglio dire, il 26, dopo che, nella notte, il re aveva annunciato la deposizione di Mussolini da parte del Gran consiglio e il suo arresto.
Lunedì 26 Tina non era a Faenza, ma alla sera le fu riferito nei dettagli l’accaduto da un cameriere dei Ferniani. Una grande folla si era radunata sotto il municipio. Da una finestra, Silvio Corbari e Cincin Merighi avevano scaraventato di sotto un busto del Duce, ridotto a pezzi sul selciato. Erano seguiti altri simboli del Fascio, ritratti di gerarchi e suppellettili. Cincin aveva impedito che facesse la stessa fine anche un quadretto raffigurante Garibaldi.
Tre notabili antifascisti avevano arringato la massa, allegra, impaziente e poco attenta. Subito dopo era partito un corteo disordinato in direzione della caserma della milizia, in corso Mazzini. Aveva cercato di sfondarne l’ingresso. Da dentro si era sparato, e un giovane manifestante era rimasto ucciso. Il portone era stato abbattuto. All’interno le camicie nere tremavano di paura. Due si erano addirittura suicidate. Alle altre non era stato torto un capello.
Intanto la Scansi cercava in città gli ex squadristi e gli ex fascisti di qualche peso. Sembravan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Sole dell’Avvenire
  4. Parte prima. Tito
  5. Parte seconda. Destino
  6. Parte terza. Soviettina
  7. Ringraziamenti e varie
  8. Copyright