Dio è giovane
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Dio è giovane

  1. 132 pagine
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Dio è giovane

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«Dio è giovane, è sempre nuovo». Testimoniando un Dio non solo Padre - e Ma­dre, come già aveva rilevato Giovanni Paolo I - ma Figlio, e per questo Fratello, il messaggio di liberazione di papa Francesco attraversa il presente e disegna il futuro, per rinnovare davvero le nostre società. Con le Sue memorabili parole, il pontefice rivendica per le giovani generazioni una centralità, le indica come protagoniste della storia comune, sottraendole dai margini in cui troppo a lungo sono state relegate: i grandi scartati del nostro tempo inquieto sono in realtà "della stessa pasta" di Dio, le loro migliori caratteristiche sono le Sue, e solo costruendo un ponte tra anziani e giovani sarà possibile dar vita a quella rivoluzione della tenerezza di cui abbiamo tutti profondamente bisogno. Nel dialogo coraggioso, intimo e diretto con Thomas Leoncini, Francesco si rivolge non solo ai giovani di tutto il mondo, dentro e fuori la Chiesa, ma anche a tutti quegli adulti che a vario titolo hanno un ruolo educativo e di guida nella famiglia, nelle parrocchie e nelle diocesi, nella scuola, nel mondo del lavoro, nell'associazionismo, nelle istituzioni più diverse. Le Sue riflessioni affrontano con forza, saggezza e passione i grandi temi dell'oggi - da quelli più intimi a quelli maggiormente legati alla sfera sociale e pubblica - mescolando ricordi personali, annotazioni teologiche e considerazioni puntuali e profetiche, senza sottrarsi a nessuna sfida della contemporaneità. Queste pagine profumano di avvenire e di speranza e, nelle parole stesse del pontefice, il Sinodo dei giovani 2018 rappresenta la cornice ideale per accoglierle e valorizzarle nel profondo. Dio è giovane viene pubblicato in tutto il mondo. Il titolo del libro è autografo di papa Francesco nelle sei principali lingue.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858519912
I

GIOVANI PROFETI E VECCHI SOGNATORI

Papa Francesco, vorrei innanzitutto domandare che cos’è la giovinezza?
La giovinezza non esiste. Quando parliamo di giovinezza, inconsciamente, facciamo spesso riferimento ai miti di giovinezza. Mi piace pensare che la giovinezza quindi non esiste, e che al suo posto esistono i giovani. Allo stesso modo non esiste la vecchiaia, ma esistono i vecchi. E quando dico “vecchi” non dico una brutta parola, tutt’altro: è una parola bellissima. Bisogna essere felici e orgogliosi di essere vecchi, così come si è comunemente fieri di essere giovani. Essere vecchi è un privilegio: significa avere abbastanza esperienza per potersi conoscere e riconoscere negli sbagli e nei pregi; significa capacità di tornare potenzialmente nuovi, proprio come quando si era giovani; significa avere maturato l’esperienza necessaria per accettare il passato e, soprattutto, avere imparato dal passato. Spesso ci lasciamo sopraffare dalla cultura dell’aggettivo, senza il supporto del sostantivo. Giovinezza, certo, è un sostantivo, ma è un sostantivo senza un supporto reale, è un’idea che resta orfana di una creazione visiva.
Che cosa vede quando pensa a un giovane?
Vedo un ragazzo o una ragazza che cerca la propria strada, che vuole volare con i piedi, che si affaccia sul mondo e guarda l’orizzonte con occhi colmi di speranza, pieni di futuro e anche di illusioni. Il giovane va con due piedi come gli adulti, ma a differenza degli adulti che li tengono paralleli, ne ha sempre uno davanti all’altro, pronto per partire, per scattare. Sempre lanciato in avanti. Parlare dei giovani significa parlare di promesse, e significa parlare di gioia. Hanno tanta forza i giovani, sono capaci di guardare con speranza. Un giovane è una promessa di vita che ha insita un certo grado di tenacia; ha abbastanza follia per potersi illudere e la sufficiente capacità per poter guarire dalla delusione che ne può derivare.
Non si può parlare di giovani, poi, senza toccare il tema dell’adolescenza, perché non bisogna mai sottovalutare questa fase della vita, che probabilmente è la più difficile e importante dell’esistenza. L’adolescenza segna il primo vero contatto cosciente con l’identità e rappresenta una fase di passaggio nella vita non solo dei figli, ma di tutta la famiglia; è una fase intermedia, come un ponte che ci porta dall’altra parte della strada. E per questo motivo gli adolescenti non sono né di qua né di là, sono in cammino, in viaggio, in movimento. Non sono bambini – e non vogliono essere trattati come tali – ma non sono nemmeno adulti – eppure vogliono essere trattati come tali, specialmente a livello di privilegi. Quindi probabilmente si può dire che l’adolescenza sia una tensione, un’inevitabile tensione introspettiva del giovane. Ma allo stesso tempo è talmente forte che riesce a investire anche tutta la famiglia, o forse è proprio questo che la rende così importante. È la prima rivoluzione del giovane uomo e della giovane donna, la prima trasformazione della vita, quella che ti cambia così tanto da stravolgere spesso anche le amicizie, gli amori, la quotidianità. Quando si è adolescenti la parola “domani” difficilmente si può usare con certezza. Probabilmente anche da adulti dovremmo essere più cauti nel pronunciarla, soprattutto in questo periodo storico, ma mai come da adolescenti si è consapevoli dell’attimo e dell’importanza che riveste. L’attimo per l’adolescente è un mondo che può stravolgere anche tutta la vita, si pensa probabilmente molto più al presente in quella fase che in tutto il resto dell’esistenza. Gli adolescenti cercano il confronto, domandano, discutono tutto, cercano risposte. Mi preme sottolineare quanto sia importante questo discutere tutto. Gli adolescenti sono desiderosi di imparare, per potersela cavare e diventare autonomi, ed è in questo periodo che gli adulti devono essere più comprensivi che mai e cercare di dimostrare la giusta via con i comportamenti, senza pretendere di insegnare solo a parole.
I ragazzi passano attraverso stati d’animo differenti, anche repentini, e le famiglie con loro. È una fase che presenta dei rischi, senza dubbio, ma, soprattutto, è un tempo di crescita, per loro e per tutta la famiglia.
L’adolescenza non è una patologia e non possiamo affrontarla come se lo fosse. Un figlio che vive bene la propria adolescenza – per quanto difficile possa essere per i genitori – è un figlio con futuro e speranza. Mi preoccupa spesso la tendenza attuale a “medicalizzare” precocemente i nostri ragazzi. Sembra che si voglia risolvere ogni cosa medicalizzando, o controllando tutto, con lo slogan “sfruttare al massimo il tempo”, e così l’agenda dei ragazzi diventa peggio di quella di un grande dirigente. Insisto: l’adolescenza non è una patologia che dobbiamo combattere. Fa parte della crescita normale, naturale nella vita dei nostri ragazzi.
Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, c’è gioia, e anche angoscia e desolazione.
Quali sono le prime immagini che Le vengono in mente della Sua giovinezza? Provi a rivedersi in Argentina a vent’anni…
A quell’età ero in seminario. Ho avuto un incontro molto forte con il dolore: mi hanno tolto un pezzo di polmone a causa di tre cisti. Questa esperienza molto intensa mi condiziona nel ricordo che mi chiedi di rievocare, ma una cosa la rammento bene, molto intima: ero pieno di sogni e desideri.
Ricorda qualcuno dei Suoi sogni?
Ti racconto un aneddoto, cogli il sottile valico tra desideri e limiti. Avevo quasi diciassette anni, ricordo che era il giorno della morte del musicista Sergej Sergeevic Prokof’ev. Amavo molto le sue opere. Ero nel cortile della casa della nonna materna, seduto al tavolo in giardino. Ho chiesto a mia nonna: «Come è possibile avere la genialità per fare cose come quelle a cui ci ha abituati Prokof’ev?». E lei: «Ma guarda, Jorge, che Prokof’ev non è nato così, piuttosto è diventato così. Ha lottato, ha sudato, ha sofferto, ha costruito: la bellezza che vedi oggi è il lavoro di ieri, di quanto ha sofferto e investito, in silenzio». Non dimentico mai dialoghi come questi con le mie due nonne, figure a cui penso costantemente e alle quali tengo molto.
Ci sono stati sogni che non si sono realizzati?
Certo, e alcuni li ho vissuti come frustrazioni. Come quando volevo andare missionario in Giappone ma non mi ci mandarono per via dell’operazione al polmone. Qualcuno, da giovanissimo, mi dava per “spacciato” e invece sono ancora qua, oggi, quindi è andata bene… È sempre meglio non ascoltare troppo chi ci vuole male, che dici?
L’incontro con Dio è arrivato da giovane, ricorda il momento esatto?
L’incontro forte con Dio è stato a quasi diciassette anni, esattamente il 21 settembre del 1953. Stavo andando a incontrare i miei compagni di scuola per una giornata in campeggio. In Argentina il 21 settembre è primavera e in quei giorni c’era proprio una festa dedicata a noi giovani. Ero cattolico come la mia famiglia, ma mai prima di quel giorno avevo pensato né al seminario né a un futuro all’interno della Chiesa. Forse da bambino, quando facevo il chierichetto, ma era stata una cosa sottile. Camminando ho scorto la porta aperta della parrocchia e qualcosa mi ha spinto a entrare: lì ho visto venire verso di me un sacerdote. Ho sentito subito il desiderio improvviso di confessarmi. Non so che cosa sia successo di preciso durante quei minuti, ma qualsiasi cosa fosse, mi ha cambiato l’esistenza per sempre. Sono uscito dalla parrocchia e sono tornato a casa. Avevo capito in un modo così forte e limpido quella che sarebbe stata la mia vita: dovevo farmi sacerdote. Nel frattempo studiavo chimica, ho cominciato a lavorare in un laboratorio di analisi, ho avuto una fidanzata, ma dentro me continuava a prendere sempre più forza l’idea del sacerdozio.
Quindi era combattuto?
Sapevo che sarebbe stata quella la mia strada, però alcuni giorni mi sentivo come su un’altalena. Non voglio nasconderti che qualche dubbio l’avevo anch’io, ma Dio vince sempre e dopo poco ho trovato la stabilità.
Si è mai sentito tradito da Dio?
Mai. Sono stato io a tradirlo. In alcuni momenti anch’io ho sentito come se Dio si allontanasse da me, così come io mi sono allontanato da Lui. Capita nei momenti molto bui di chiedersi: «Dove stai, Dio?». Ho sempre constatato che io cercavo Dio, ma era piuttosto Lui a cercare me. Lui arriva sempre per primo, ci aspetta. Utilizzerò un’espressione che usiamo in Argentina: il Signore ci primerea, ci anticipa, ci sta aspettando; pecchiamo e Lui ci sta aspettando per perdonarci. Lui ci aspetta per accoglierci, per darci il Suo amore, e ogni volta la fede cresce.
Perché la nostra società ha così tanto bisogno dei giovani eppure i giovani vengono scartati?
Non vengono scartati solo i giovani, ma i giovani ne risentono moltissimo perché sono nati e cresciuti nella società che ha fatto della cultura dello scarto il suo paradigma per eccellenza. Nella nostra società è un’abitudine “usare e gettare”: si usa sapendo che una volta finito lo sfruttamento si getterà. E questi sono aspetti molto profondi che si impossessano delle abitudini delle persone e degli schemi mentali. La nostra società è dominata in maniera troppo forte e vincolante da una crisi economico-finanziaria dove al centro non ci sono l’uomo e la donna, ma il denaro e gli oggetti creati dall’uomo e dalla donna. Siamo in una fase di deumanizzazione dell’umano: non poter lavorare significa non potersi sentire con una dignità. Sappiamo tutti quanto sia differente guadagnarsi il pane da portare a casa e prenderlo invece da un’agenzia di assistenza…
Spesso i giovani sono invitati – soprattutto da adulti ricchi – a non pensare troppo al denaro perché conta poco, ma oggi nella maggior parte dei casi, il denaro che un giovane ricerca è quello necessario alla sopravvivenza, per potersi guardare allo specchio con dignità, per poter costruire una famiglia, un futuro. E soprattutto per cominciare a non dipendere più dai genitori. Che cosa pensa di questo?
Penso che dobbiamo chiedere perdono ai ragazzi perché non sempre li prendiamo sul serio. Non sempre li aiutiamo a vedere la strada e a costruirsi quei mezzi che potrebbero permettere loro di non finire scartati. Spesso non sappiamo farli sognare e non siamo in grado di entusiasmarli. È normale ricercare il denaro per costruire una famiglia, un futuro e per uscire da quel ruolo di subordinazione agli adulti che oggi i giovani hanno troppo a lungo. Ciò che conta è evitare di provare la bramosia dell’accumulo. Ci sono persone che vivono per accumulare denaro e pensano di doverlo accumulare per vivere, come se poi il denaro si trasformasse in cibo anche per l’anima. Questo significa vivere al servizio del denaro, e abbiamo imparato che i soldi sono concreti, ma dentro hanno qualcosa di astratto, di volatile, qualcosa che da un giorno all’altro può sparire senza preavviso, pensa alla crisi delle banche e ai recenti default. Ciò di cui parli, però, penso sia un tema importante: hai citato il denaro in funzione della necessità di sostentamento e quindi di lavoro. Posso dirti che è il lavoro il cibo per l’anima, il lavoro sì che può trasformarsi in gioia di vivere, in cooperazione, in unione di intenti e gioco di squadra. Non il denaro. E il lavoro dovrebbe essere per tutti. Ogni essere umano deve avere la possibilità concreta di lavorare, di dimostrare a se stesso e ai suoi cari che può guadagnarsi da vivere. Non si può accettare lo sfruttamento, non si può accettare che moltissimi giovani siano sfruttati dai datori di lavoro con false promesse, con pagamenti che non arrivano mai, con la scusa che sono giovani e devono farsi esperienza. Non si può accettare che datori di lavoro pretendano dai giovani un lavoro precario e addirittura perfino gratuito, come accade. So che ci sono casi di lavoro gratuito, e a volte perfino con una preselezione per poterlo svolgere. Questo è sfruttamento e provoca le peggiori sensazioni nell’anima; sensazioni che poco per volta crescono e possono cambiare anche la personalità dei giovani.
I giovani ci chiedono di essere ascoltati e noi abbiamo il dovere di ascoltarli e di accoglierli, non di sfruttarli. Non ci sono scuse che tengano.
Immaginiamo un giovane di talento, ma non un “figlio di papà”, con tanta voglia di fare, zero conoscenze, zero corruzione e zero voglia di entrare in questi meccanismi di subordinazione. Che cosa può fare davvero per non essere relegato al ruolo di “scarto”? Davvero la cosiddetta “fuga dei cervelli” è la sola strada per uscire da questo meccanismo e costruirsi un futuro pulito? Lo dico perché per molti giovani la fuga risulta essere l’unica ancora di salvezza possibile, immaginabile…
Ti rispondo con una parola: parresia. Ne parlo in funzione del coraggio, del fervore nella nostra azione. Nella preghiera, ad esempio, consiglio anche ai giovani di pregare con parresia. Vuol dire che non bisogna mai accontentarsi di avere chiesto una volta, due volte, tre volte. Bisogna credere, chiedere e pregare per qualcosa fino al nostro limite. Questo è il modo in cui pregava Davide quando supplicava per il figlio moribondo (2 Sam 12, 15-18): è fondamentale giocarsela fino alla fine, come ha fatto anche Mosè quando pregava per il popolo ribelle. Non ha mai cambiato “partito”, non ha mercanteggiato, non ha mai smesso di credere e di crederci. Non dimentichiamo mai questo concetto: l’interces...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. DIO È GIOVANE
  4. Ai lettori di ogni età. Per una rivoluzione della tenerezza (Thomas Leoncini)
  5. I. Giovani profeti e vecchi sognatori
  6. II. In questo mondo
  7. III. Insegnare è imparare
  8. Copyright