Lara è esausta. Il suo tormento è una spirale di incessante dolore che la invade tutta. Avverte la puntura di decine e decine di spilli che la trafiggono alle gambe e alle braccia. Non smettono mai. Le sembra di avere un paletto conficcato in un polpaccio.
«È come un vaso che si riempie», cerca di spiegare: le trafitture, dopo aver coperto progressivamente le membra, si stabiliscono nello stomaco e non mollano la presa. Di notte si sveglia di soprassalto perché avverte una mano che l’afferra alla gola e non la lascia respirare. Lara è scoraggiata. Sono vent’anni che questi fenomeni inspiegabili la tormentano. L’esercito di dentisti, oftalmologi e neurologi che ha consultato non l’hanno presa sul serio: «Torni a casa, signora» le hanno detto l’uno dopo l’altro «e si goda la sua buona salute».
Nel frattempo ha perso tutti i capelli: quelli biondi e lunghi trattenuti da una fascia nera non sono naturali. L’unica volta che ha sentito il dolore abbandonarla – «quasi come se evaporasse dalla testa» – è stata sull’areo per il Centro America. Stava andando in una grande isola caraibica per adottare i suoi due bambini, che adesso giocano senza far rumore sulla poltrona del mio studio.
Da sei anni il marito di Lara, Carlo, l’accompagna ogni sabato alla missione di Samedan insieme ai figli. Da casa impiegano più di due ore per venire in questo piccolo villaggio vicino alla più famosa Saint Moritz, e altrettante per tornare. Conoscono ormai ogni paese, bar, supermercato e farmacia su quel tratto di strada. La speranza di uscire da questa situazione è come un lumicino agli sgoccioli. Lara, confessa, comincia a credere che il male sia forte quanto il bene: nessuna delle due forze riesce a prevalere sull’altra e il campo di battaglia è il suo corpo. A che cosa servono gli esorcismi? L’intercessione senza sosta del suo gruppo di preghiera? L’accostarsi frequentemente ai sacramenti della confessione e dell’eucarestia? È troppo stanca anche per piangere, mentre tormenta tra le mani il crocefisso che le affido per iniziare il rituale.
«Queste presenze giocano con me come il gatto con il topo» dice a testa bassa con un filo di voce «lasciano che dopo un esorcismo io mi illuda di star meglio e poi mi riafferrano. Non ne posso più.»
«Proprio perché sentono che il loro potere si sta indebolendo, ti colpiscono più forte» cerco di incoraggiarla. «Il bene è più forte del male, questo è sicuro, ma il bene cresce nel silenzio, non ci si accorge di lui. È un’esperienza che ci accomuna tutti, al di là di essere vessati fisicamente dal demonio.»
Renato e Maddalena intanto giocano, dividendosi quietamente la poltrona. Sono di casa nella piccola stanza affacciata sulle montagne.
«Vorrei sapere perché vogliono farmi del male» ripete la donna con gli occhi lucidi. «Non ho niente di più degli altri. Che cosa c’è da invidiarmi? Sono una persona normale: una casa, un marito, dei figli.»
Da tanto tempo, ormai, non riesce a lavorare fuori dalla sua abitazione. Offre a studenti in difficoltà ripetizioni in varie materie scolastiche. Inoltre, con Carlo e i bambini percorre in auto anche centinaia di chilometri per trovare aiuto nei gruppi di preghiera carismatici: subito oltre confine, a Como e Lecco, ma anche fino in fondo allo Stivale, in Calabria e addirittura in Sicilia.
Torna a casa e il giorno seguente mi manda un lungo SMS: «Ieri le trafitture di spillo hanno continuato a tormentarmi fino a tarda notte. Sentivo che non ce la facevo più e che rischiavo di impazzire. All’improvviso si è alzata la febbre, fino a oltre trentotto gradi. Questa mattina non sento più le punture, ma ho la pelle indolenzita, come se mi avessero preso a pugni. Perché questa sofferenza?».
Quello dell’esorcista è un ministero di misericordia rivolto a persone che soffrono. Il primo caso che ho avuto veniva dalla Germania. Mi aveva trovato su internet e aveva compiuto un lungo viaggio, spendendo tempo e denaro, perché era disperato e non trovava aiuto.
Non riuscire a liberare una persona dalla sofferenza, oltre al dolore umano che scaturisce dall’empatia e dalla compassione, è anche una forte prova di fede. Tu preghi tanto e ripeti esorcismi, ti impegni, ma non vedi i frutti.
Chi è più forte, Dio o Satana? È la domanda che tutti si pongono e anche l’esorcista può scoraggiarsi. Per fede crediamo che il Padre è più forte delle tenebre e non lascerà soccombere i suoi figli, ma all’apparenza il demonio sembra in grado di tenergli testa e addirittura vincere sulle sue creature.
Padre Dermine afferma che bisogna diffidare di chi chiede di fare l’esorcista. Ci può essere un fascino al contrario. In effetti alcuni sacerdoti si sentono attirati dall’occulto. Certi pretendono di avere una sensibilità speciale che consente loro di capire se il diavolo è presente in alcune manifestazioni oppure no. Alla fine però vedono Satana dappertutto, anche in una semplice influenza. Quando cominciano a parlare di possessione e vessazione non li ferma più nessuno.
Esorcisti di grande calibro come Francesco Bamonte o François Dermine non lo farebbero mai: la presenza del demonio è un mistero, ma non ne sono ossessionati. Lo stesso avveniva per padre Gabriele Amorth.
Per come la vedo e la vivo io, essere esorcista significa esercitare un ministero di misericordia. Un altro modo di stare vicino a persone che soffrono. L’unica vocazione per un esorcista è quella al sacerdozio. La sola cosa che ti cambia davvero la vita è l’incontro con il Signore che ti chiama: all’improvviso, magari a un angolo di strada, com’è successo a me.
Sono nato nello Stato di Sonora, a nord del Messico, dove il deserto incontra la città. Il mio anno di nascita, il 1968, è stato caratterizzato dalle grandi proteste giovanili e dal vento del cambiamento, ma nel mio piccolo mondo la vita trascorreva tranquilla.
Quando ero ancora bambino la mia famiglia si è trasferita a Città del Messico, dove prima mio nonno e poi i suoi figli, tra cui mio padre, gestivano una concessionaria di auto di lusso. Ho due sorelle che oggi vivono negli Stati Uniti, in California e Pennsylvania, e un fratello che si è stabilito in Canada, mentre i miei genitori sono rimasti in patria.
La nostra è stata sempre una famiglia molto unita. Ho frequentato delle ottime scuole e condotto una vita agiata e serena. A venticinque anni ero più che “arrivato”. Avevo un ottimo lavoro come dirigente di un network televisivo, una fidanzata che amavo molto e mi ricambiava con tutto il cuore, un’auto sportiva e tutto ciò che si potesse desiderare. Tanti giovani avrebbero voluto essere al mio posto. La mia vita mi piaceva ed ero mille miglia lontano dall’essere attratto dalla vocazione sacerdotale, sebbene per i miei parenti la fede fosse un elemento importante.
Dio, però, mi stava aspettando. Un giorno, mentre rientravo negli studi della tv, ho visto un povero, a un angolo della strada, che si strofinava ripetutamente un braccio. Solo questo, niente di più. La manica della giacca era strappata e i pantaloni sporchi. Sono rimasto fermo a guardarlo ripetere quel gesto meccanicamente, ancora e ancora. Quanti sfortunati avevo già visto nella mia vita? Ad alcuni avevo anche distrattamente regalato qualcosa. Eppure quel volto mi ha inchiodato al suolo, lì, tra il caos e il rumore del traffico che non sentivo più. Ho sentito, invece, chiarissime dentro di me queste parole: “Se vuoi aiutare lui e altri, ti invito a farti prete”.
Fu un chiaro e profondo invito da parte di Dio, di Cristo. Non mi sono mai sentito obbligato a dire di sì alla mia vocazione. La considero un privilegio immenso! Per convincermi, se così si può dire, Dio mi ha permesso di avere un’esperienza rara, quella che in teologia si definisce “locuzione interna sostanziale”. È un’esperienza “viva” della volontà divina, un’illustrazione chiarissima di mente insieme all’ispirazione del cuore. Chi la riceve non può avere nessun dubbio riguardo al fatto che Dio gli abbia parlato.
Il Signore mi ha chiamato al sacerdozio così come ha colpito san Paolo sulla via di Damasco. Con le mie sole forze non sarei stato in grado di lasciare quello che avevo, ma l’esperienza sensibile del Signore come persona viva e reale mi ha aiutato a stabilire la giusta gerarchia dei valori. La mia stessa famiglia ha stentato a capire. Quand’era giovane, mio padre avrebbe voluto per sé le stesse cose che avevo io in quel momento: ha pianto per convincermi a non rinunciare.
Gli spiegai: «Se non fosse la mia strada, Dio non mi avrebbe chiamato. Sarebbe Satana se mi facesse perdere tutto dietro un impulso effimero. Nel Vangelo c’è scritto: “Cerca prima il Regno di Dio e il resto ti verrà dato in aggiunta”. Io mi fido di questa promessa».
Piano piano l’esperienza fisica e viva di Cristo si è affievolita. Già non l’avvertivo più nel momento in cui sono entrato in seminario, e nemmeno oggi che sono sacerdote da dodici anni. Mi rendo conto che è stata necessaria, perché altrimenti non avrei potuto capire cosa significhi la vocazione presbiterale.
La vera fede, infatti, non si basa sui sensi, ma sull’affidarsi e sul credere.
Da quel momento, dopo l’incontro con il povero a un incrocio, la mia vita appartiene all’Eterno in qualsiasi posto io sia chiamato a esercitare il mio ministero. «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo» ha ordinato Gesù ai suoi discepoli.
In Messico ho conosciuto i religiosi dei Legionari di Cristo, il cui apostolato specifico è la formazione dei laici di Regnum Christi. Molti dei loro religiosi provenivano dall’estero e ho capito che anch’io avrei potuto servire Dio in tutto il mondo. Dopo un primo periodo a Guadalajara, ho passato due anni a Cheshire, nel Connecticut, negli Stati Uniti, dove questa congregazione gestisce il noviziato per i candidati al sacerdozio nei pressi della città di New Haven.
Oggi vivo a Samedan, un piccolo centro vicino alla più famosa località sciistica di Saint Moritz, in Svizzera. Da alcuni anni la comunità di immigrati italiani e portoghesi che si è formata qui aspettava un missionario. Con mia sorpresa, sono stato invitato a diventare il loro missionario e io ho detto: «Eccomi». Mi è sembrato importante accogliere la sfida all’evangelizzazione, a vivere e annunciare il Vangelo, in un contesto dove la laicizzazione è più avanzata rispetto ad altri paesi europei. In questa nazione, dove il tenore di vita è molto alto, la gente ha sete di sentir parlare di Dio, anche dove meno te lo aspetti.
Ho scelto di lasciare i Legionari, la realtà in cui è maturata la mia vocazione e la mia formazione, perché il loro carisma non prevede l’impegno in parrocchia. Adesso sono prete e secondo esorcista nella diocesi di Coira. In precedenza, però, c’è stata l’esperienza del diaconato e dei primi anni di sacerdozio a Roma. È lì che è cominciato tutto.
Nell’ottobre del 2004 mi trovavo a Roma all’Istituto “Sacerdos” dell’Università “Regina Apostolorum”, fondata dai Legionari di Cristo, che si occupa della formazione permanente dei sacerdoti offrendo lezioni di teologia, spiritualità e pastorale. Fu l’anno in cui iniziarono i corsi di preparazione per gli esorcisti. L’idea era venuta a Giuseppe Ferrari, presidente del GRIS (Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-religiosa) di Bologna. Da anni questa associazione esplora la realtà delle sette e dei fenomeni collegati, come il satanismo.
Nella sua attività, Ferrari si era scontrato più volte con la scarsità di preparazione degli esorcisti. D’altra parte nei seminari questi argomenti non sono contemplati e anche i vescovi a volte sono restii a occuparsene. L’Istituto si rese disponibile a ospitare i corsi di formazione che, ormai da dodici anni, continuano a distinguersi per l’approccio interdisciplinare con cui vengono affrontate le tematiche dell’esorcismo e della preghiera di liberazione. A offrire la propria competenza professionale arrivano non solo teologi ed esorcisti “sul campo”, ma anche liturgisti, antropologi, psichiatri, polizia scientifica.
Altra caratteristica molto importante è che il corso sia aperto anche ai laici: sebbene solo un sacerdote possa diventare esorcista, è un bene che la questione possa essere conosciuta e affrontata da tutti con competenza. Porta, inoltre, a evitare pericolose confusioni e approssimazioni, per quanto in buona fede, su queste prassi della Chiesa. Ciò spiega il “successo” che i corsi hanno avuto fin da subito: sono arrivati a colmare un vuoto.
Cominciai a occuparmi del corso sull’esorcismo mentre ero diacono e stavo completando gli studi teologici. In seguito, dopo l’ordinazione presbiterale a Roma, inaugurai il mio sacerdozio proprio affrontando questa realtà, ma già da diacono partecipai alle mie prime sedute esorcistiche.
Il primo corso si tenne una volta alla settimana, tutti i giovedì, per un intero semestre. Arrivarono quasi centotrenta sacerdoti e provocò una grande eco mediatica. Fu anche l’occasione per incontrare padre Gabriele Amorth, che conoscevo solo di fama. In qualità di coordinatore, lo cercai per invitarlo a tenere un intervento ai candidati esorcisti. Sembrava non ci fosse un numero diretto a cui chiamarlo e tanto meno un cellulare. Quando finalmente riuscii a parlargli, mi disse di andare a incontrarlo nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, perché non aveva tempo per spiegazioni al telefono.
In seguito avrei capito che non aveva tempo quasi per nessun’altra cosa. Essendo l’esorcista della diocesi di Roma, aveva un enorme numero di richieste e non faceva altro per tutto il giorno, quasi come un impiegato alla causa della liberazione dal maligno: dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 18.00.
Arrivai puntuale e mi accostai alla porta della stanza in cui mi avevano detto che si trovava. Bussai, ma nessuno mi rispose. Allora timidamente la aprii e mi trovai davanti questo religioso con la talare che brandiva un crocifisso e diceva imperiosamente: «Esorcizzo te…». Era rivolto a un uomo che rispondeva, con una voce roca e profonda, chiaramente estranea a lui: «Ti uccido!».
Devo dire che l’impatto della scena fu notevole: mi si rizzarono i capelli in testa e mi fermai impietrito sulla soglia, mentre Amorth, come se fosse la cosa più normale del mondo, mi invitò a restare: «Mi aiuti a pregare».
Al termine di questo intervento, pensai che fosse venuto il momento di parlare del corso, ma lui disse solo: «Resta» e passò ad altri due esorcismi.
Fu l’inizio di un’amicizia e di un’esperienza di vita fondamentale. Padre Gabriele era una persona amabilissima. Era molto accogliente con i sacerdoti e anche con i laici: li faceva partecipare a un esorcismo perché ricevessero conferma dell’esistenza del demonio.
Non potevo immaginare che di lì a poco avrei avuto un demonio come compagno di viaggio…
Nel luglio di quell’anno frequentai un corso di studio in Terra Santa. Nel viaggio di ritorno a Roma in aereo sedevo nel posto numero cinque. I sedili dietro di me erano occupati da due belle ragazze finlandesi. I passeggeri non erano m...