La russofobia è una costante degli ultimi cinque secoli. A prima vista non sembrerebbe necessario scriverci sopra un altro libro. La letteratura mondiale (occidentale) è piena di russofobia. E lo è anche, per quanto possa apparire paradossale, la letteratura russa. Ma non soltanto la letteratura. Che ne dite del cinema? Hollywood ne è impregnata, da quando esiste, in quantità industriali.
Ma qui si apre una serie di interrogativi tutti molto interessanti, alcuni dei quali di carattere storico, altri più strettamente attinenti all’attualità, alla cronaca. Viviamo infatti in tempi molto interessanti. In realtà, tutti i “tempi” sono molto interessanti, per chi li vive dall’interno. Ma questo è un tempo speciale, di quelli che segnano i cambi di stagione: quando ci si rende conto, a un tratto, che sta accadendo qualcosa di importante, di nuovo. Di epocale, appunto.
Nei dieci secoli che in Europa seguirono la caduta dell’Impero romano, è improbabile che si percepissero grandi strappi o discontinuità. Gli ultimi tre secoli, invece, hanno fatto registrare grandi scosse. Forse Cristoforo Colombo non fu in grado di misurare la svolta che produsse. L’accelerazione impressa da Galileo Galilei non fu percepita dal cardinale Bellarmino, ma Galileo sapeva quali terremoti avrebbe prodotto la sua «sensata experientia et certa demonstratione». Di fatto, da allora l’umanità è stata ripetutamente strattonata da sconvolgimenti a catena.
Tuttavia, ciò che sta succedendo ora – a me che scrivo e a voi che leggete – è qualcosa di completamente nuovo. Se dovessi cercare un’analogia che si avvicini a questo nostro tempo direi che, se i dinosauri avessero avuto gli stessi nostri strumenti concettuali, avrebbero percepito sulle loro squame le medesime, inquietanti sensazioni che proviamo noi oggi. Sappiamo però che di questi strumenti concettuali non disponevano, quindi furono sterminati senza che se ne rendessero conto.
Ma penso che noi non ci troviamo in una situazione di molto migliore. Neanche noi, infatti, disponiamo di “strumenti concettuali” adeguati a prevedere, o fronteggiare, ciò che sta accadendo e di cui già si vedono i segni all’orizzonte.
Un po’ come accadde all’abitante dell’Isola di Pasqua che tagliò l’ultima palma di quell’isola sperduta nell’immenso Oceano Pacifico. Si rendeva conto di cosa stava facendo? Probabilmente no. Anche noi dovremmo chiederci: «Cosa stiamo facendo?». Ma non lo facciamo.
Eppure c’è qualcosa che percepiamo sotto pelle, come un brivido. E, in questo caso, è più che un brivido passeggero: è la sensazione che si stiano preparando avvenimenti radicali, cruciali, di quelli che possono lasciare il segno per generazioni e generazioni. Forse addirittura “per sempre”, fuori dal tempo.
Le avvisaglie sono molte. E ci sono individui che – come i cani sentono arrivare i terremoti da chissà quali profondità della Terra, attraverso misteriose frequenze di suoni e di vibrazioni – sentono arrivare qualcosa e cercano di capire di cosa si tratta, da dove arriva, quali sconvolgimenti porterà. Presumibilmente non sarà qualcosa di tranquillo, altrimenti non produrrebbe segnali così inconsueti.
I cani guaiscono quando sentono arrivare il terremoto. Lo temono. Non è una festa: è la paura. Anche noi, a modo nostro, “guaiamo”. La differenza è forse nel fatto che quasi tutti i cani sentono arrivare il terremoto, mentre quasi tutti gli uomini non sentono un bel niente. Per cui, in genere, quelli che percepiscono il cambiamento più o meno imminente – e “guaiscono” a modo loro – vengono guardati da quasi tutti gli altri con disgusto, pena e persino odio.
Le Cassandre non hanno mai goduto di grande popolarità e forse la spiegazione sta nella nostra specificità umana.
Siamo conservatori. Un principio conservatore è presente in ogni organismo complesso. Non è l’unico principio di cui siamo costituiti, ma è molto forte. Se non ci fosse, l’organismo complesso – parlo di organismi viventi – non potrebbe conservarsi. Noi esseri umani siamo molto complessi, quindi anche molto conservatori. Così può accadere, anzi accade quasi sempre, che non diamo troppo retta a quel tipo di sensazioni, di pensieri o di idee che possono turbare la continuità. Al punto che, spesso, queste “intrusioni del nuovo” proprio non le vediamo anche se sono evidenti.
Chiudo la lunga parentesi e torno all’interrogativo iniziale: perché dovremmo occuparci oggi di russofobia, visto che è cosa niente affatto nuova?
Per due motivi.
Primo: perché la “russofobia 2.0”, l’ondata odierna, è (anche) una specie di guaito profondo, un segnale. Non è soltanto una versione moderna di ciò che è sempre esistito. Dunque sarà bene cercare di capire cosa ci dice, quale messaggio porta con sé. A noi occidentali, certo. Ma anche ai russi, che in parte – ma solo in parte, come vedremo – sono occidentali anch’essi.
Secondo: la russofobia attuale, contemporanea, è come una lente d’ingrandimento. Se usata bene, consentirà a noi occidentali di capire meglio cosa sta accadendo alla nostra civiltà. E alla civiltà umana in generale.
La Russia non è mai stata Occidente, anche se i russi – o forse sarebbe meglio dire una parte dei russi, una grande parte dell’intellettualità russa – sono stati parte dell’Occidente, hanno desiderato fortemente di essere parte dell’Occidente, si sono sentiti parte dell’Occidente, hanno sofferto per il fatto di non essere parte dell’Occidente.
Tutte queste componenti psicologiche, sociologiche, culturali e storiche sono parzialmente vere e parzialmente false, cioè in parte sono reali e in parte non minore sono frutto del desiderio o della mancata realizzazione di un desiderio.
Viene in mente la formidabile raffigurazione del grafico dell’esistenza umana proposta da Marguerite Yourcenar nei taccuini di appunti per le Memorie di Adriano, che «non si compone mai, checché si dica, d’una orizzontale e due perpendicolari, ma piuttosto di tre linee sinuose, prolungate all’infinito, ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato».
Ecco: i russi, in quanto popolo, hanno sofferto e soffrono per il fatto di procedere lungo queste tre linee sinuose, spesso senza sapere su quale si trovassero e si trovino realmente. Suddivisi schizofrenicamente come una collettività che si trova a metà strada e che qualche volta cade da una parte e qualche volta dall’altra, per poi pentirsene e cercare di tornare dalla parte opposta. Una lacerazione, questa, che si ripropone anche a livello individuale producendo risposte inattese, contraddittorie, apparentemente inspiegabili.
«Умом Россия не понять»: «La Russia non la si può comprendere (solo) con l’intelletto, con la ragione». Questo verso del poeta russo Fëdor Tjutčev (1803-1873) scava a tali profondità da essere divenuto moneta corrente nel dialogo quotidiano, oltre che in quello giornalistico e letterario, dei russi. E colpisce il fatto che solo i russi lo usino costantemente, mentre gli occidentali in generale non lo capiscono.
Un procedimento analogo, in un certo senso uguale e contrario, ha riguardato l’Occidente e in particolar modo la sua intelligencija: che ha considerato la Russia non solo come estranea, ma anche e soprattutto come ostile all’Occidente, spesso respingendola in blocco senza cogliere quanto della Russia era ed è “Occidente”. «I russi sono asiatici, Unni, demoni.»
Fëdor Dostoevskij ha contribuito grandemente, suo malgrado, a questa raffigurazione. Černyševskij non amava i russi e sono molti i russi che non amano né i russi né la Russia: fenomeno anch’esso a suo modo unico, da studiare e su cui riflettere. Questione da scandagliare con speciale attenzione, tanto è piena di sfumature e colori inediti per l’Occidente.
Il fatto è che, se questa faccenda riguardasse un popolo periferico, poco numeroso o povero, ma comunque irrilevante dal punto di vista geopolitico, si risolverebbe in una questione etnologica e culturale particolare. Insomma, roba da specialisti. Nel caso della Russia e dei russi, invece, questa ambivalenza/polivalenza interiore ed esteriore concerne un protagonista degli eventi mondiali. Che lo vogliano o non lo vogliano i russi (e non c’è dubbio che lo vogliano), che lo voglia o non lo voglia il resto del mondo, il dato che abbiamo tutti di fronte è che il destino difficile e speciale della Russia influenzerà tutti i suoi vicini, e anche coloro che geograficamente vicini non sono.
In verità, se allarghiamo ancora lo sguardo, vediamo che questo atteggiamento dell’Occidente non si è mai limitato alla sola Russia. Esso è stato applicato indistintamente nei confronti di tutto il resto del mondo. Una specie di mescolanza di superiorità e disprezzo, di paura dell’ignoto, dell’estraneo, del diverso. Ovvero quella suprema indifferenza del potente che decide di ignorare le aree, siano esse geografiche o culturali, dove il suo dominio non giunge. Qualcosa di simile all’hic sunt leones con cui l’Impero romano liquidava le regioni dell’Africa che non era ancora riuscito a conquistare o in cui non aveva avuto tempo e voglia di penetrare. Ma solo in attesa del momento – che certamente prima o poi sarebbe giunto – in cui avrebbe potuto e voluto farlo. Non è mai esistito impero che abbia avuto ambizioni limitate.
In questo senso, la russofobia dell’Occidente è un sottoinsieme di un insieme di fobie molto più vasto (che include anche, a pieno titolo, il razzismo nella sua accezione più brutale), nel quale sarà opportuno addentrarsi.
Ma resta pur sempre da chiedersi perché mai proprio questo sottoinsieme sia stato così importante in tutte le epoche e attualmente sia diventato un’arma così potente da essere equiparabile, per molti versi, a un vero e proprio strumento di distruzione, pericoloso per chi ne è il bersaglio ma anche per chi lo maneggia.
La mia risposta è semplice: perché la Russia, per numerose ragioni storiche che esamineremo, è sempre stata l’ostacolo più ostico alla dominazione dell’Occidente.
Non esiste infatti in Occidente una “indofobia” o una “afrofobia”, tanto meno una “eurofobia”. Non esiste nemmeno, per il momento, una “sinofobia”. Ma questa è faccenda che riguarda il dopo, la prossima fase, quella che incombe ormai su tutti noi. C’è ancora qualche scampolo di tempo prima che la “sinofobia” diventi dominante in Occidente, anche se, a quanto pare, proprio questo il futuro prossimo riserva alla Cina.
Il fatto è che la Cina non si è mai presentata, in questi ultimi quattro o cinque secoli, come un’alternativa di sistema o di civiltà. Semplicemente perché era là “dove ci sono i leoni”. Poi, però, le terre dei leoni sono state spazzate via dalla globalizzazione americana, e adesso si comincia a vedere che la Cina, al contrario di quanto pensassimo, “alternativa di civiltà” lo è e lo sarà. Semplicemente non c’è ancora stato il tempo per misurarne la portata.
La russofobia è invece al suo apice. È una “cima abissale” che va scalata (o scavata) a ogni costo, perché ne va della vita o della morte dell’Impero, e anche della nostra. Ecco perché oggi la russofobia è così cruciale. L’Occidente si trova all’inizio della sua crisi: una crisi assoluta, senza precedenti, come quelle che anticipano il collasso.
E questo Occidente in crisi, per sperare di cavarsela, pensa di dover liquidare in primo luogo la Russia.
Non è sempre stato così, in passato. Noi tutti tendiamo a misurare gli eventi che ci riguardano con l’abitudine derivata dalla nostra esperienza quotidiana. Ma questa va bene nelle epoche di continuità, non in quelle di transizione. E la nostra – se la si guarda bene – è un’epoca di transizione. E quale transizione! Valutarla secondo un “fattore tempo” sbagliato è molto pericoloso. È come attraversare la strada guardando dalla parte opposta a quella da dove giungono le macchine.
Per giunta il “fattore tempo” di oggi non è quello di venti o trent’anni fa. Siamo a bordo di un turbojet che vola a Mach 2. Bisogna mettersi la tuta speciale se non si vuole perdere i sensi. Invece, leggendo i commenti – anche quelli dei più avveduti (non parliamo della langue de bois dei politici, che è stata inventata per non essere compresa) – ci si accorge che, appunto, sono tutti all’interno dello spazio protetto del business as usual. Cioè non ne azzeccano una. Figuriamoci cosa succede quando la realtà ti costringe a prendere decisioni – e questo succede ogni minuto, mentre prima succedeva ogni anno – che richiederebbero una visione strategica.
La velocità della crisi planetaria è ormai un evento “ineliminabile”. Nel senso specifico di cui parlava il fisico Freeman Dyson descrivendo un mondo futuro nel quale l’uomo sarebbe stato in grado di «turbare l’Universo»1.
Dyson scriveva queste cose circa quarant’anni fa: quel tempo è giunto, ed è il nostro tempo. Un tempo in cui molto di ciò che accade – a noi e alla natura che ci circonda, a noi e alla nostra stessa natura umana – è frutto di processi che non sono “naturali”, ma effetto dei mutamenti e dei turbamenti prodotti dall’uomo. Questa velocità è il risultato di un insieme di rivoluzioni scientifiche, tecnologiche, comunicative, finanziarie e politiche che hanno tutte la stessa qualità caratteristica: l’accelerazione dei processi. È un’accelerazione di accelerazioni. È la globalizzazione, bellezza! Ed è figlia dell’Occidente. È stato con la velocità, anzi con l’accelerazione, che l’Occidente ha soggiogato il resto del mondo, anticipando tutti gli altri.
Ma ora che la crisi tocca direttamente l’Impero, è questa accelerazione a imporre i ritmi della risposta. E sono ritmi disumani che neanche l’Occidente è in grado di gestire. Disumani proprio perché travalicano le capacità di adattamento dell’individuo, che seguono ritmi incompatibili con l’accelerazione. Qualcuno giustamente ha usato il termine “shock da globalizzazione”. E siamo appena all’inizio.
Ma l’Occidente, a differenza del resto del mondo, è in grado di calcolare le traiettorie, cioè di sapere con qualche anticipo e spesso con buona precisione, dove ci si troverà “tra qualche tempo”, quali eventi incroceranno le nostre traiettorie, quali incontri faremo e anche se, tra gli incontri meno gradevoli, ve ne saranno di assolutamente sgradevoli, ovvero se vi saranno collisioni.
Non parlo di asteroidi, ma di cose molto più probabili, dello stesso tipo di quelle che stiamo già cominciando a sperimentare: carenza di energia, di risorse minerarie, di acqua, migrazioni di massa, conflitti. Perciò, se sai prevedere gli ostacoli che incontrerai, puoi giocare d’anticipo e cercare di eliminarli.
Ecco, questa è un’altra delle manifestazioni del “fattore tempo”: da circa un secolo l’uomo è progressivamente arri...