Quel che conta davvero
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Quel che conta davvero

Valori per un'etica felice

  1. 228 pagine
  2. Italian
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Quel che conta davvero

Valori per un'etica felice

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Noi tutti ci domandiamo che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è giusto fare, che cosa dobbiamo considerare virtù e che cosa vizio, quale sia la nostra mèta. E vorremmo trovare un ancoraggio sicuro, un ragionamento rigoroso, una guida. Eppure, nel mondo moderno pare non esserci nulla di simile. La gente non crede più che Dio in persona abbia scritto le sue leggi immutabili su tavole di pietra; non crede nemmeno che le leggi morali siano scritte in modo indelebile nella mente e nel cuore dell'essere umano.
Le norme morali cambiano da società a società, e si modificano nel corso della storia. Il guerriero antico considerava altamente etico fare scorrerie e riportare la testa degli avversari uccisi. I romani trovavano dignitoso e meritevole trascinare in catene i capi degli eserciti sconfitti per sgozzarli sulla pubblica piazza. A noi pare inutile, crudele e meschino. Gli inquisitori torturavano le streghe e poi le bruciavano sul rogo, convinti di agire nel nome di Dio. Noi ne siamo inorriditi. La varietà dei costumi, le loro trasformazioni nel tempo ci hanno dimostrato che non esiste un diritto naturale. La natura non prescrive niente, conosce solo la legge della sopravvivenza.
Anche noi, nonostante la nostra cultura e la nostra morale, ci rendiamo conto di essere spesso in balìa di forze primordiali nelle guerre e nelle carestie. Quando la fame distrugge i nostri sentimenti morali e ci trasformiamo in belve. Ma allora in che cosa consiste l'evoluzione della società umana? A quali valori fare riferimento? L'evoluzione - diventata cosciente - ha cominciato a esplorare un percorso alternativo: non più contro l'individuo, ma attraverso l'individuo. Distruggere per evolversi è una modalità che appartiene alla preistoria dell'uomo. È cominciata una nuova era: quella dell'evoluzione cosciente e dell'individuo.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858517130

LA MORALE DELL’AMORE

La vita è sovrabbondante emergenza di innumerevoli configurazioni, ciascuna delle quali dipende dalle condizioni del mondo circostante, dalla nicchia ecologica in cui si afferma, dal rapporto con le altre specie. Tutto è mutuamente interdipendente, tutto è generantesi e generato, accordo e disaccordo, unione e concorrenza, ma non in modo lineare, prevedibile, bensì per balzi, per irruzioni improvvise, per alternanze caotiche. In questo universo l’equilibrio non può essere il bene, il disequilibrio, il male. Abbiamo visto che l’amore stesso, il grande amore non è continuo, lineare ma è fatto di incontri, ha una struttura ondulatoria.
Non può esserci una strada diritta, un’unica meta, una sola norma universale che ne regola l’andamento. Ogni volta, certo, vi deve essere scelta. Ma non una scelta immutabile come una retta.
Se l’ideale morale ha a che fare con il tumulto della vita, lo deve rispettare, non può opporvisi come l’astratto al concreto, lo schema vuoto alla vivente ricerca della meta. Quando pensiamo all’imperativo categorico kantiano «agisci in base alla massima che vorresti veder eretta a norma universale», ci domandiamo allora se ci sia, se ci possa essere un’unica massima da erigere a norma universale. E non debba invece essercene una pluralità, una gamma. L’idea di una massima unica corrisponde alla concezione lineare dell’universo, quella stessa di Galileo e di Newton, lontanissima dalla vita. Questo aspetto tumultuoso della vita interferisce con la morale in diversi modi. Il primo, più evidente, è il cambiamento degli standard morali nel tempo. I valori evolvono con la società. Il cittadino romano non considerava immorali i giochi dei gladiatori nell’arena e dava serenamente l’ordine di uccidere lo sconfitto. L’uomo medioevale, sotto l’influenza del Cristianesimo, non riusciva più a farlo, però assisteva con compiacimento ai roghi delle streghe e degli eretici. Oggi, noi non ammettiamo nemmeno più le esecuzioni pubbliche e incominciamo a discutere la liceità dei combattimenti di pugilato e delle corride.
Ma differenze altrettanto grandi ormai avvengono nell’arco della vita stessa dell’individuo. Le donne nate in campagna ottant’anni fa, erano abituate a considerare un valore la verginità prematrimoniale, un peccato la contraccezione, e a ubbidire al marito come al padre. Poi è mutata la loro condizione, sono mutati i loro diritti, i loro valori, il loro erotismo, ciò che è bene e ciò che è male. Gli uomini di quella stessa epoca credevano nella patria, nella lotta contro lo straniero, oppure contro il nemico ideologico. Dovunque era presente la Chiesa, con la confessione, con i sacramenti, con la direzione spirituale. Le sue norme morali si estendevano ai più piccoli anfratti della vita quotidiana.
Tutte queste credenze, tutti questi valori, tutte queste regole sono state sconvolte. Oggi la televisione, il cinema e internet, non propongono più un solo modello di comportamento, ma un repertorio di alternative. Vi sono molti modi autorizzati di vivere. Ciascuna donna, ciascun uomo ha dentro di sé un ventaglio di scelte che spesso è anche una specie di stratificazione geologica di modelli, da quelli del più remoto passato ad altri più recenti, fino agli ultimi, provvisoriamente dominanti. È come se fossero tanti ruoli o vestiti che l’individuo può adottare, tante maschere, tanti nuclei di personalità alternative, che possono collidere o subentrare l’uno all’altro. Gli studiosi dei rapporti fra le persone, da Goffman in poi, hanno descritto l’individuo come un attore teatrale, che si mette in scena, che rappresenta una parte diversa, che manipola gli altri e si manipola continuamente in rapporto alle diverse situazioni e ai diversi problemi.
Questo complesso di ruoli si raggruppa poi nelle grandi linee istituzionali della professione, le figure riconosciute della divisione del lavoro. Fermiamoci sul sistema di ruoli professionali, perché è il più semplice e ci consente di porre il problema del rapporto fra i ruoli, e fra gli Io multipli con maggior chiarezza. L’avvocato penalista è tenuto per prima cosa a difendere bene il proprio cliente, e lo deve difendere tanto se sa che è innocente come se è colpevole. Non può permettersi, come Perry Mason, di difendere solo innocenti ingiustamente accusati. L’avvocato civilista deve scoprire la strada per ottenergli dei vantaggi economici, il commercialista deve proteggerlo dal fisco, il manager deve condurre vittoriosamente l’impresa nel mercato, sconfiggere gli avversari anche a costo di farli fallire. Il marketing e la finanza possono essere avvicinati alle arti marziali anche se non provocano morti e feriti.
Al posto della regola di Kant «agisci in base alla massima che vorresti vedere eretta a norma universale», si dovrebbe dire, come chiedeva Durkheim, «rispetta il tuo ruolo e fa’ al meglio ciò che ci si aspetta da te nella divisione del lavoro sociale»1. Noi vogliamo che il medico curi bene, studi, si prodighi, si perfezioni nella sua attività professionale. E che l’avvocato difenda, il giudice giudichi, che il pilota guidi con perizia, che il comico ci faccia ridere e l’attore drammatico ci commuova.
Chi vorrebbe un mondo tutto di asceti, tutto di contemplativi, tutto di mistici religiosi? Per carità. Se questa dovesse essere la prescrizione morale avremo bisogno di ciarlatani e di imbroglioni, di prostitute e di gaudenti per rendere la vita interessante. La morale non è la vita, è parte della vita. Oltre la morale c’è l’arte, il gusto, l’erotismo, la conoscenza intellettuale, c’è la passione, c’è anche il disordine creativo, il gioco, la lotta.
Noi sappiamo che spesso le grandi creazioni emergono dal disordine, dal dubbio, dalla ricerca, dal rischio, dall’errore. San Paolo ha dovuto perseguitare i cristiani per potersi convertire. Lutero è vissuto nell’angoscia per anni ed è in questa angoscia, in questa paura, che è maturata l’esperienza della torre e la sua concezione della redenzione attraverso la fede. Nella tradizione dell’Occidente, la morale emerge faticosamente dalla vita, si afferma nelle prove della vita. È sforzo, ricerca, ascesi. La perfezione morale non è quella del paradiso terrestre, o del neonato che non sa nulla, e nemmeno quella del Principe felice di Oscar Wilde, che non aveva mai conosciuto il male. La morale è tanto più ricca quanto più affonda nella vita, quanto più è intrisa della drammaticità della vita. Quando essa stessa diventa intensità di vita.
Noi sappiamo infine che, spesso, una persona trasferisce la parte migliore di sé, le sue virtù, la sua generosità, la sua intelligenza nel suo lavoro, nella sua professione. Il meglio del grande scrittore è in ciò che ha scritto, nei suoi libri. Il cronista che va a trovarlo a casa, che pensa di scavare dentro di lui con l’intervista od osservando l’ambiente in cui vive, sbaglia. La cosa più vera di se stesso, l’altro l’ha già detta, la sua più sincera autobiografia l’ha già raccontata nei suoi romanzi. E lo stesso vale per il grande regista, per il pittore, il musicista. Spesso siamo colpiti dal contrasto abissale fra la bellezza dell’opera d’arte e la vita disordinata, a volte meschina del suo artefice. Wagner, con le sue opere ci comunica sentimenti sublimi, mentre nella sua vita privata era disordinato e avido. Villon e Marlowe erano degli asociali, Michelangelo era cupo, avaro, collerico, quasi intrattabile. Perché dobbiamo allora valutare moralmente la persona che sta dietro il ruolo che svolge, al di fuori delle oggettivazioni in cui si è realizzata? Non ci basta il risultato del suo impegno, non ci basta la perfezione del suo lavoro?
Attenti però. Ci sono oggettivazioni buone, desiderabili, addirittura ammirevoli realizzate da persone mediocri o meschine. Ma ci sono anche oggettivazioni malvagie, crudeli, addirittura mostruose attuate da persone delicate, dolci, buone. In questo caso ci viene spontaneo dire che la persona è meglio del suo ruolo, è meglio della sua opera. È il caso del soldato, tenero verso la madre, la moglie, i figli, ma che non esita a bombardare le città nemiche e a causare i più spaventosi dolori senza provare senso di colpa. E lo stesso vale per il mafioso: è buon padre, amico fedele e affezionato, ma spietato con gli avversari. Ogni persona può essere, nello stesso tempo, amico e nemico, pacifico e guerriero, amoroso fratello e crudele persecutore.
Ciascuno di noi svolge tanti ruoli, si mette tante maschere sociali che vengono interiorizzate, apprese in modo separato, e si giustappongono all’interno del Sé, dando luogo a una molteplicità di persone, di Io diversi, e ciascuno sembra ignorare quanto fa l’altro. Ma può esserci una morale senza che vi sia un contatto, un rapporto, un confronto e una coerenza fra questi Io separati?
Tutti coloro che hanno scritto sui campi di concentramento nazisti e sovietici2 ci hanno raccontato che molti degli aguzzini erano, in realtà, persone normali, con una vita famigliare normale, che amavano la musica e si dimostravano talvolta capaci anche di azioni generose. Spesso erano degli ottimi funzionari, precisi, puntigliosi. E perfino gli scienziati, che usavano i prigionieri come cavie, potevano essere rigorosi e obiettivi. Tutti convinti di fare soltanto il “loro dovere” esattamente come l’impiegato di banca, l’avvocato, il giudice, il manager, l’operaio che lavora in fabbrica. La loro coscienza morale si esprimeva nel rispetto della legge, si esauriva nell’esecuzione puntigliosa del dovere d’ufficio. Anzi, vi trovava un valore, una dignità.
Il dovere d’ufficio, in tutte le grandi organizzazioni moderne, prescrive che la persona debba essere fredda, impersonale, e che non lasci intervenire la passione, la preferenza, la dolcezza, la pietà. Il comportamento dell’aguzzino è, in realtà, il comportamento ideale del burocrate. Un modello di imparzialità e di neutralità affettiva, sia quando sceglie una confezione di beni di consumo che quando sceglie chi mandare ai forni crematori.
Ma non dobbiamo pensare che gli Io separati siano il carattere specifico del burocrate o del soldato che ubbidisce a degli ordini. Todorov ci ricorda che Lenin, nelle sue relazioni private, era sempre delicato, mite, cortese, di straordinaria modestia. Ma questo non gli impediva di odiare i capitalisti come classe, di volerli sterminare e di organizzare lucidamente il sistema dei campi di concentramento sovietici.
È stata proprio questa moralità di ruolo, questa moralità frammentata, questa separazione fra gli ambiti, privato, pubblico e politico, fra la famiglia e l’ideologia, questo Io diviso, che ha consentito tutti gli orrori del XX secolo e, forse, tutti gli orrori della storia.
La separatezza è fonte d’irresponsabilità. No, no, dobbiamo affermare con chiarezza che la morale richiede un Io unito. Per questo bisogna diffidare, dal punto di vista della morale, di tutte le teorie che negano l’unità dell’Io, o l’indeboliscono3. Per questo la morale dell’eccellenza, dell’areté, non è una morale. Perché si può eccellere in qualsiasi campo, anche nella guerra, anche nella tortura, anche nella organizzazione di campi di sterminio. E lo stesso vale per la morale delle caste indiane, il dharma. Dovere dello Ksatria è combattere, dovere del Sudra ubbidire, dovere del ladro rubare, dovere del boia tagliargli la mano. Ciascuno è inchiodato al suo dovere particolaristico, ai sentimenti che gli competono.
E la morale moderna, in quanto morale dell’efficienza, ha le stesse caratteristiche e gli stessi pericoli. Per questo Veca e io abbiamo detto che, in realtà, non c’è una morale del successo4. Perché la ricerca del successo in sé, così come la perfezione professionale in sé, non è un atto morale. Per arrivare alla morale bisogna che cadano i confini, che tutto passi davanti allo stesso giudice. Bisogna che ci sia un centro unico, un’unica persona che rimane se stessa in tutti i differenti rapporti e che fa esplodere in sé la contraddizione. I diversi rapporti o ruoli non possono essere segregati, la mano destra non deve ignorare cosa fa la sinistra.
Occorre la persona nella sua interezza, che vive, crea, gioca, ama, dubita, che si scontra con altri, che cerca di sopravvivere, e in ciascuna di queste attività si pone l’imperativo morale. In modo concreto, per contiguità degli ambiti vitali. La morale è contagio, contaminazione. Vasilij Grossman osserva: «Per fortuna c’è la bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito,… del contadino che nasconde in un fienile un vecchio ebreo… Ma questa bontà non la si deve trasformare in parola d’ordine. Appena l’uomo cerca di trasformarla in forza, essa perde se stessa, si oscura, si spegne»5.
La morale è un debordare della bontà, che fa sorgere incoerenze e contraddizioni. La morale è una protesta e un’aspirazione, è uno slancio e un rifiuto.
Le norme astratte della ragione non bastano, perché l’intelligenza gioca ogni tipo di scherzo, giustifica ogni tipo di abiezione. Come ha applicato Hitler l’imperativo categorico di Kant? Erigendo a norma universale lo sterminio degli ebrei! La ragione, da sola, ci inganna. Occorre anche la bontà interiore semplice, naturale, il sincero desiderio del bene per gli altri, la concreta preoccupazione, la simpatia, la cura quotidiana per il loro benessere. E che queste cose non restino confinate in un’area, ma debordino creando dissidi, problemi fra i ruoli. Nessuno, né io né gli altri, siamo totalmente riconducibili ai nostri ruoli e ai nostri doveri sociali. Ci sono sempre delle situazioni in cui, restandovi confinati, perdiamo qualcosa di essenziale, la nostra umanità o la nostra bontà. Allora dobbiamo uscirne. Anche nello svolgimento di un ruolo burocratico formale, impersonale, neutrale, l’altro non può mai restarmi estraneo e indifferente.
Che l’avvocato difenda bene e si prodighi per il suo cliente. Ma se difendesse solo bene e non si ponesse mai e poi mai il problema del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. QUEL CHE CONTA DAVVERO
  4. L’EVOLUZIONE
  5. L’IDEALE
  6. IL CONFLITTO
  7. IL MALE
  8. LA SCIENZA
  9. LA TECNICA
  10. LE RELIGIONI
  11. LO STATO NASCENTE
  12. IL DILEMMA
  13. LA PUREZZA DELLE ORIGINI
  14. LE MOLTE VITE DELL’UOMO
  15. LA MORALE DELL’AMORE
  16. DEMOCRAZIA
  17. UNA META DELL’EVOLUZIONE?
  18. LA MISTICA
  19. DIO COME PERSONA
  20. IL CRISTIANESIMO
  21. MUTAMENTI DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
  22. SESSUALITÀ
  23. LE RELIGIONI LAICHE
  24. L’ECONOMIA
  25. PERCHÉ OCCUPARCI DEGLI ALTRI?
  26. PERCHÉ GLI OSTACOLI, E IL DOLORE?
  27. PERCHÉ PENSARE ALLE GENERAZIONI FUTURE?
  28. L’INDIVIDUO E IL SUO DESTINO
  29. Copyright