La ricordo ancora la faccia perplessa di Laura al mio rientro a casa, una sera dei primi di novembre del 2013. Mi porge una lettera e spiega: «Ti chiedono di scrivere un libro sulla tua esperienza di magistrato alla luce della Lettera ai giudici di don Milani».
Ogni mio nuovo impegno la preoccupa: teme per la mia salute e mi vorrebbe di più a casa, dopo una vita trascorsa in giro – fra Torino, Roma, Palermo e Bruxelles – per ricoprire vari incarichi connessi al mio ruolo di magistrato. Leggo la missiva mentre poso la borsa e mi tolgo il cappotto. «Mica vorrai sobbarcarti quest’altro impegno» mi anticipa Laura che, con pazienza, intelligenza e coraggio, mi ha seguito passo dopo passo lungo il sentiero della vita: prendendosi sulle spalle il carico di educare e far crescere i nostri figli – Paolo (1970) e Stefano (1975) – vissuti con lei per decenni in mezzo ai poliziotti e ai mitra delle scorte. A causa delle indagini scomode e pericolose che mi tenevano lontano e indaffarato, la mia famiglia si è trovata a essere costantemente in compagnia di uomini in armi.
Una storia che comincia nel 1974 e per me e Laura continua ancora oggi.
«Tranquilla…» la rassicuro.
Avevo altro per la testa e in agenda, in quel periodo: la conclusione di varie inchieste sugli insediamenti ‘ndranghetisti in Piemonte e le inchieste sulle violenze praticate sistematicamente da frange estreme del movimento No Tav (le une e le altre oggetto di polemiche ostili dovute alla miopia o all’indulgenza di pezzi consistenti della cultura e della politica); poi i contrasti insorti con i colleghi di Magistratura democratica, che in una Agenda da loro curata e destinata anche alle scuole avevano avuto la bella pensata di pubblicare (presentandolo come un «potente richiamo all’impegno civile») uno scritto di Erri De Luca che liquidava la ferocia e i lutti del terrorismo con banalità reducistiche, tipo l’invereconda tesi che le armi usate per «azioni micidiali» furono «imbracciate per ottenere giustizia» e «chi si astenne, disertò». E ancora, gli incontri in giro per la penisola a raccontare la mia esperienza, per discutere – soprattutto con i giovani – di legalità e di come il rispetto delle regole convenga, se si vuole che migliori la qualità della vita di tutti.
E, vicino ormai ai 75 anni, presto sarei andato in pensione.
Mi tolgo la toga
A lungo ho pensato al giorno dell’addio.
Non è facile togliersi la toga, dopo quasi mezzo secolo di indagini, processi, sempre in prima fila, dentro le vicende più importanti e dolorose della storia d’Italia, dal terrorismo alla mafia.
Finché il giorno atteso è venuto.
Un giorno come gli altri, all’apparenza almeno.
Vado in ufficio in procura, saluto Teresa e Gemma, ottime segretarie, invidiate da tutti. Prendiamo un caffè insieme, poi mi metto al computer. Scrivo, con il cuore in subbuglio, una lettera a tutti i miei collaboratori: «Oggi ho formalizzato la domanda di “pensionamento” a partire dal 28 dicembre 2013. Mi spiace lasciare il lavoro di procura ma ancor più – credetemi, non è frase fatta – lasciare tanti amici, cioè tutti voi che (ciascuno nel suo ruolo) avete fortemente contribuito, in maniera decisiva, a fare dell’ufficio un sistema funzionante a livelli di eccellenza. Torino, 11 novembre 2013».
Sono entrato in magistratura il 27 dicembre del 1967.
Esattamente 46 anni dopo me ne vado in pensione.
Così il cerchio si chiude.
Più tardi spengo il computer, riordino la scrivania, prendo la borsa e me ne torno a casa. Saluto Laura sorridendo: «Finalmente, dopo quasi mezzo secolo sono tornato definitivamente alla base…». La vedo contenta, ma anche scettica, perplessa. Conoscendomi bene, sa che non sono tipo da mettermi a fare la vita del pensionato.
Nei giorni successivi la notizia del mio prossimo “pensionamento” si diffonde. Nel palazzo di giustizia stringo le mani di un’infinità di collaboratori, abbraccio calorosamente gli amici di tante battaglie comuni e i colleghi con i quali ho più consuetudine di rapporti. Incrocio anche molti cittadini. «Grazie» è spesso tutto quel che molti, con riservatezza “sabauda”, riescono a dirmi. E tuttavia fatico a non commuovermi. Affollatissima sarà poi la cerimonia ufficiale di saluto nell’Aula Magna. Ma qui, come antidoto all’inevitabile turbamento, c’è la proverbiale ironia del procuratore generale Marcello Maddalena, capace di inventarsi di aver avuto fra le mani il gran libro della magistratura passata, presente e futura e di averlo sfogliato alla ricerca dei nomi degli alti “papaveri” della magistratura torinese seduti accanto a lui, senza trovarne nessuno, neppure se stesso. Su quel gran libro c’era solo il mio nome, con la didascalia «magistrato vissuto ai tempi di Raffaele Guariniello» (il bello è che Raffaele, mentre Marcello lo diceva, assentiva convinto…).
Il filo della memoria
Intanto erano venuti a trovarmi diversi giornalisti. Mi chiedono di ripercorrere la mia carriera di magistrato. Di riannodare il filo della memoria.
Tutto parte da Torino. È qui infatti che, negli anni Settanta, mi accade di dovermi occupare di terrorismo rosso. Sequestri, rapine, ferimenti feroci (le cosiddette gambizzazioni), morti: indagini in un cupo mondo clandestino che aveva dichiarato una guerra unilaterale, designando i nemici da colpire. Prima il sequestro del magistrato Mario Sossi, accusato di essere troppo rigoroso con gli “antagonisti”. Poi l’omicidio di Francesco Coco, accusato di essersi opposto ai ricatti dei sequestratori di Sossi. Per questa colpa, “giustiziato” insieme ai due uomini che lo scortavano: Saponara e Dejana. Delitti commessi a Genova dalle Brigate rosse. Delitti che la Corte di cassazione assegna a Torino, dove arrivano sul mio tavolo. Delitti che sono fulcro e corollario del processo torinese ai capi storici delle Br. Un processo che i terroristi cercheranno di impedire in ogni modo, scaricandogli contro un incredibile volume di fuoco e di azioni criminali.
Ricordo ancora il clima di tetra paura che si respirava in città, soprattutto dopo l’omicidio di Fulvio Croce (1977): nella Corte d’assise che doveva giudicare i capi Br non si riuscì a formare la giuria, e questo nella Torino antifascista, città delle lotte per i diritti di tutti.
Io, giovane magistrato con tanti sogni in testa, rimango sconcertato. Nessuno voleva fare il giudice popolare. Un fatto sconvolgente, mai successo neppure nei processi di mafia.
Ma quando il processo riprende, nel 1978, coraggio e senso della legalità prevalgono. Dal processo arrivano condanne severe per i brigatisti. Lo Stato non si piega e non rinuncia ai valori della Costituzione. Nonostante gli attacchi a raffica scagliati con spietata violenza.
Un potente fattore di crisi incuneato nell’organizzazione criminale.
Ne deriverà, negli anni Ottanta, una slavina di “pentiti”: il crollo verticale delle Br che trascinerà con sé Prima linea, l’altra banda armata di terroristi che aveva insanguinato l’Italia. Slavina e crollo avranno inizio proprio a Torino con le rivelazioni di Patrizio Peci e Roberto Sandalo. Fui io il primo (con altri colleghi) a raccoglierne il “pentimento” e a svilupparne la collaborazione, fino alla sconfitta del terrorismo.
I miei anni a Palermo
Ricordo ai giornalisti l’altra tappa fondamentale della mia carriera: Palermo. Tutto cominciò al CSM. Ne ero stato componente nel periodo 1986-90, quando ci fu un “caso Palermo” dopo l’altro, con maggioranze a geometria variabile. Alla fine Giovanni Falcone (oggi, dopo la strage di Capaci, un mito) fu umiliato; il pool che stava sconfiggendo la mafia fu smantellato; a qualcuno il metodo vincente di Falcone e del pool non andava bene. Rivendico con orgoglio di aver sempre votato in favore di Falcone e Paolo Borsellino. E quando furono uccisi cercai di raccoglierne, pur consapevole dei miei limiti, la scomoda eredità, chiedendo di essere nominato procuratore di Palermo.
Divento procuratore nel gennaio 1993 e guido per quasi sette anni l’ufficio giudiziario allora più esposto d’Italia. In città echeggiavano ancora le amare parole del giudice Caponnetto («È tutto finito; non c’è più niente da fare») dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio. Sembrava che la democrazia italiana stesse soccombendo sotto i colpi dello stragismo corleonese. Destinata a diventare uno stato-mafia, un narco-stato.
Dopo l’iniziale disorientamento, la reazione dello Stato in tutte le sue articolazioni (società civile compresa) è stata forte. La procura – sfasciata al momento del mio arrivo – ha recuperato entusiasmo ed efficienza. In nome del popolo italiano ci siamo occupati prima della mafia che sparava, dell’ala militare di Cosa nostra, e poi delle complicità degli imputati “eccellenti”, vera spina dorsale del potere mafioso. Centinaia di mafiosi di strada sono stati arrestati e condannati (650 ergastoli! Oltre a un’infinità di anni di reclusione). Politici e colletti bianchi, quando c’era materiale sufficiente per affrontare il processo, vengono rinviati a giudizio senza sconti, dimostrando che non erano tollerabili zone franche nella lotta alla mafia.
La mia stagione a Palermo inizia con un successo storico: l’arresto di Totò Riina. Un segnale forte. Incontrai Riina, nel giorno del suo arresto, in una caserma dei carabinieri: era in piedi sotto la foto del generale Dalla Chiesa. Gli chiesi se aveva intenzione di fare qualche dichiarazione. Mi rispose che voleva solo essere trasferito in carcere. Gli replicai che era la legge a prevederlo.
Purtroppo questo straordinario successo fu poi avvelenato dalla constatazione – del tutto inaspettata – che la sorveglianza del covo, come racconterò più avanti, era stata sospesa al contrario di quanto ci era stato assicurato.
Chi tocca i fili…
Il discorso coi giornalisti scivola inevitabilmente su Giulio Andreotti. Lui e Marcello Dell’Utri – all’esito dei processi avviati dalla procura da me diretta – sono stati riconosciuti anche in cassazione penalmente responsabili (rispettivamente fino al 1980 e al 1978) per aver commesso reati che hanno comportato rapporti cordiali, proficui, non sporadici con Cosa nostra. Questa realtà torbida, sconvolgente, è la base per qualunque riflessione riguardante i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria, fino alla cosiddetta “trattativa”. Ma dei processi Andreotti e Dell’Utri non si parla. O lo si fa per negare e stravolgere la verità processuale. La nostra democrazia sarà sempre debole, se non faremo chiarezza su quegli anni.
Ma c’è di più: per meglio contrabbandare la tesi del tutto infondata dei processi “politici” inconsistenti si sono cancellati o annullati con vergognosa sfrontatezza i successi imponenti ottenuti dalla procura di Palermo del dopo stragi. Ricordo ancora, come dato assolutamente emblematico, i 650 ergastoli; e poi gli arresti di boss del calibro di Bagarella, Brusca, Aglieri, i fratelli Graviano, Ganci, Spatuzza…; la scoperta e la cattura degli autori materiali della strage di Capaci, grazie alla confessione di Santino Di Matteo, resa proprio a me in quanto procuratore di Palermo; il sequestro di beni mafiosi per un valore pari a quello di una piccola finanziaria. Mi chiedo con quale faccia si possa parlare – come qualcuno osa fare – di fallimento della nostra stagione palermitana o di processi celebrati solo per mettere alla gogna qualche politico.
Si è arrivati al punto di varare una legge contra personam per cancellare il mio diritto di concorrere alla carica di procuratore nazionale antimafia, sostenendo pubblicamente che bisognava farmela pagare per il processo Andreotti. Una discriminazione resa ancora più insopportabile dal fatto che questa legge impudica è stata poi dichiarata incostituzionale. Ma a giochi ormai fatti, dopo che qualcuno, con disinvolta nonchalance, ne aveva incassato i benefici.
Dal DAP ai crimini in agricoltura
E poi la guida del DAP, il dipartimento che si occupa delle carceri italiane; il periodo in Europa con Euro-Just; il ritorno a Torino come procuratore generale; quindi la procura della Repubblica, le violenze di alcuni No Tav, il processo Minotauro e altri, con gli arresti e le condanne di ’ndranghetisti insediatisi nella provincia torinese.
E ora? «Che farà ora che è pensionato?» mi chiedono alcuni giornalisti. Rispondo che farò sì, il pensionato, ma anche il presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio di Coldiretti sulla criminalità nell’agricoltura, che tra l’altro elabora ogni anno (insieme a Eurispes) un ponderoso rapporto sulle agromafie.
Perché? Forse perché gli amici di Libera Piemonte – festeggiando il mio “pensionamento” – mi hanno fatto due regali speciali: una paletta da vigile urbano, con tanto di pettorina fosforescente, e una piantina di Torino con una crocetta per ogni cantiere. Si sostiene infatti che i pensionati amino dirigere il traffico davanti alle scuole e peregrinare di cantiere in cantiere per controllare l’avanzamento dei lavori…
Quei regali mi han fatto molto piacere ma mi sono sembrati anche una sfida. Che ho raccolto con una riflessione a metà fra il paradosso e lo scherzo: se le mafie (che proprio nel settore agroalimentare affondano le proprie radici storiche e culturali) trovano oggi in esso nuove opportunità, anch’io, nipote di contadini, potrei provarci; ben s’intende: con obiettivi del tutto opposti.
È arrivato il momento del congedo. Saluto i giornalisti. Alcuni, incrociati lungo la mia carriera, professionisti di valore e anche di grande spessore umano, alla fine divenuti amici. Pur nella doverosa distinzione dei ruoli, molti di loro li ho sentiti vicini nelle battaglie contro il terrorismo e la mafia. Quel mondo di collaboratori, amici, giornalisti che mi sono stati vicini, avverto che scivola via per sempre. Evito di guardare indietro con troppa insistenza: occorre andare avanti, col pensiero rivolto alle nuove generazioni, e lasciare ad altri il testimone di tante battaglie.
E Lettera ai giudici di don Milani? Ho promesso a Laura che avrei lasciato perdere, ma intanto comincio a sfogliarla qua e là.
Mi colpisce l’incipit: il senso della legge. La legalità. Parole forti. Impegnative. Richiudo subito la Lettera.
Ad altro penso, in quelle ore, in quei giorni: alla mia vita di giudice, a che cosa trasmettere ai giovani desiderosi di indossare la toga.
E come il nastro di un film, molti flashback affiorano alla memoria.
A cominciare dalle radici. Dalle mie origini.