Il maledetto libro di storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere
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Il maledetto libro di storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere

Controstoria d'Italia per non farsela raccontare

  1. 372 pagine
  2. Italian
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Controstoria d'Italia per non farsela raccontare

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Ricordare è faticoso, meglio non sapere: sembra questa la regola aurea di tanta storiografia ufficiale. Lorenzo Del Boca fa l'esatto contrario. Vuole ricordare tutto: anche i lati oscuri su cui si è sempre preferito tacere. Il maledetto libro è innanzitutto questo: uno sconvolgente viaggio nel tempo attraverso due secoli di bugie sfacciate e vergogne nascoste, animato dal desiderio di rendere giustizia alla storia. Anche a rischio di toccare i nervi scoperti della nostra identità nazionale. I Savoia furono sovrani illuminati o squallidi approfittatori? I garibaldini furono eroi senza macchia o un'accozzaglia di avventurieri mossi dalle più disparate motivazioni? L'unità d'Italia fu il sogno di un intero popolo o una frottola ideologica per camuffare la sete di conquista delle élite? Siamo certi che la lotta contro i banditi del Meridione non sia stata in realtà una feroce occupazione coloniale? E ancora: cosa descrivono i terribili diari dei soldati nelle trincee della Grande Guerra? Un'impresa gloriosa o una carneficina insensata, voluta da cinici politicanti e condotta da ufficiali codardi e incapaci? E il fascismo fu davvero, come in troppi ancora pensano, un regime autoritario ma di specchiata onestà? Dalla rilettura della nostra storia - quella non "taroccata" - emerge un sottile filo rosso che, in maniera contorta ma senza soluzione di continuità, si dipana dall'Italia di ieri per attorcigliarsi intorno a quella di oggi. Quella che a gran voce reclama parità di diritti e meritocrazia ma poi deve sopportare privilegi e raccomandazioni. Quella che insegue onestà ed efficienza ma deve fare i conti con corruzione e burocrazia. Quella che sogna trasparenza e uguaglianza ma si scontra con caste di intoccabili e inviolabili consorterie. Cadono molti idoli, lungo queste pagine appassionate e orgogliosamente schierate dalla parte della verità. Molte certezze vanno in pezzi. Non importa, se questo è il prezzo da pagare per costruire finalmente una memoria veritiera e condivisa che serva da base per il futuro del nostro Paese.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858517123
Argomento
History
Categoria
World History
PARTE PRIMA

L’OTTOCENTO

Capitolo 1

VOGLIA DI COSTITUZIONE NELLA TORINO SABAUDA

Periodo inquieto, la vigilia del 1821. A Torino, le avanguardie culturali disegnavano nuovi scenari, immaginando di imbrigliare l’assolutismo monarchico in un sistema costituzionale. Erano piccole correzioni di rotta, beninteso, e minime riforme, ma, tenendo conto del punto di partenza, significavano già un passo in avanti di ragguardevole ampiezza.
Il re, evolvendo verso soluzioni più democratiche, doveva accettare di perdere una briciola di potere e trasferirla nelle mani di un consiglio. Che sarebbe stato comunque nominato da lui, ma con l’introduzione di un principio dialettico che avrebbe rappresentato un’autentica novità.
Lo Stato – il “Regno di Sardegna” (anche se molti, badando al sodo, semplificavano indicandolo più propriamente come “Regno del Piemonte”) – era governato da Vittorio Emanuele I di Savoia, che poteva vantare un ottavo di parentela con il “re sole” Luigi XIV. Con un pizzico di piaggeria, gli venne attribuito il titolo di “tenacissimo”. In realtà, probabilmente, era soltanto uno zuccone, come del resto la quasi totalità della casa sabauda: poca intelligenza, niente cultura e scarsa personalità. Del resto era reduce da una quindicina di anni tormentati, il che spiegherebbe un carattere incline allo spigoloso, con atteggiamenti più improntati all’asprezza e poco disposti al dialogo.
Il Piemonte non era riuscito a sottrarsi all’influenza dei rivoluzionari giacobini e, nel 1796, dovette piegarsi all’invasione di Napoleone, in arrivo con gli alberi della libertà da piantare in ogni piazza e, soprattutto, con l’idea che gli Stati potessero essere affidati a governi repubblicani.
La monarchia era di troppo. Il re con la corte fu costretto a traslocare, nel 1798, in Sardegna, che restava fuori dalle ambizioni francesi soprattutto perché non aveva niente di interessante. Per il governo dei Savoia l’isola restò un possedimento “a perdere”. Non si preoccuparono nemmeno di sfruttarlo, anzi lo abbandonarono a se stesso. Anche dopo l’unità d’Italia, per decenni, la Sardegna restò in coda a tutte le statistiche relative a sviluppo, consumi, produzione e scolarità. Semmai, è strano che quelle percentuali vengano utilizzate per dimostrare l’arretratezza del Meridione borbonico.
A Cagliari, Vittorio Emanuele I restò fino al 1814, prima come principe ereditario e poi come sovrano. Tornò a Torino all’esaurirsi dell’avventura napoleonica, e ci arrivò con tutto l’armamentario della Restaurazione. Parrucche incipriate comprese.
Entrò in città sulla carrozza prestata dal padre di Massimo d’Azeglio, che non poté evitare di confidare al proprio diario qualche appunto impertinente. «In questo cocchio» scrisse «il buon re con quella sua faccia… via… diciamolo… un po’ da babbeo ma altrettanto da galantuomo, girò fino al tocco dopo la mezzanotte, passo passo per le vie della città, fra gli “evviva” della folla, distribuendo sorrisi a dritta e a sinistra.» Movimento che «per meccanica conseguenza portava un incessante spazzolare di quella sua coda, tanto curiosa per i giovani della mia età».
Ad apparire rétro non furono soltanto le palandrane di raso che frusciavano, strusciandosi con nastrini e ciondoli, pendenti e medaglie, lustrini e distintivi. I cavalieri portavano uno spadino che doveva penzolare dalla cintura. Per le dame era di rigore l’abito di crinolina.
Fuori dal tempo si dimostrarono soprattutto le idee che il lungo esilio aveva sclerotizzato e incattivito. Il nuovo/vecchio establishment si preoccupò di rimettere indietro le lancette dell’orologio, abrogando tutte le leggi introdotte dal 1796 in avanti e ripristinando quelle che nel 1796 erano state cancellate.
L’avversione per le novità francesi sembrò a tratti paradossale. Chiusero il valico del Moncenisio perché a inaugurarlo era stato Napoleone. E, incuranti dell’opinione secondo cui le infrastrutture non sono né conservatrici né progressiste, presero seriamente in considerazione l’ipotesi di far saltare un ponte sul Po per la sola ragione che a realizzarlo erano stati gli ingegneri di Parigi. Rinunciarono soltanto perché da un lato sorgeva la villa della regina e l’esplosione avrebbe potuto provocare dei danni.
Le onorificenze del passato regime diventarono una colpa. Chi era stato promosso sotto i precedenti padroni si trovò declassato e accusato di collaborazione con il nemico. I valdesi e gli ebrei, che con Napoleone avevano goduto di un briciolo di libertà, si ritrovarono nuovamente nel ghetto. E, se qualcuno di loro aveva acquistato delle proprietà, dovette disfarsene rapidamente per evitare che l’erario intervenisse a espropriarle.
La censura ridivenne severa. La Norma di Vincenzo Bellini poté essere presentata a Torino solo sostituendo con “lealtà” la parola “libertà” che compariva nel testo originario e che suonava inopportuna.
Il solo pensare alla riforma delle istituzioni era considerato una provocazione: si correva il rischio di finire in galera e di restarci anche per un bel pezzo. Per questo un po’ si discuteva (sottovoce) e un po’ si cospirava (nascondendosi).
La scintilla della rivoluzione – come spesso accade – si accese per caso. La sera dell’11 gennaio 1821, quattro universitari, accorsi a teatro per assistere all’esibizione di Carlotta Marchionni, si presentarono indossando un cappello a bande rosse e nere. Quella associazione di colori designava la carboneria, cioè il gruppo “liberal” che, senza tentennamenti, rappresentava la voglia di rinnovamento del paese. Proprio per evitare di correre rischi con la magistratura, i suoi aderenti si muovevano come clandestini, impegnandosi reciprocamente al segreto. Anche se, in realtà, queste organizzazioni erano persino troppo conosciute, soprattutto da chi non avrebbe dovuto saperne niente.
Quando i carabinieri videro arrivare quegli studenti con cappello e pennacchi rivoluzionari, compresero che non si trattava di una trovata goliardica; perciò, secondo le indicazioni del comando, li bloccarono e li accompagnarono in caserma.
Il giorno dopo, i colleghi e un numero significativo di insegnanti protestarono per l’accaduto, reclamarono la loro scarcerazione e, non avendola ottenuta, si barricarono nelle aule dell’Ateneo.
Per sloggiarli fu necessario mandare la truppa all’assalto. Grazie all’intelligenza dei superiori, i soldati ebbero l’ordine di presentarsi con le armi scariche, altrimenti sarebbe stata una carneficina. I fucili vennero utilizzati come mazze. Gli uomini in divisa non andarono troppo per il sottile con le schiene di quegli sbarbatelli presuntuosi, ma dallo scontro uscirono solo ossa rotte e teste fracassate.
Le autorità erano convinte che una repressione violenta avrebbe scoraggiato le iniziative di eventuali cospiratori. Invece ottenne l’effetto contrario.
I circoli progressisti intensificarono l’attività e maturarono la convinzione che era indispensabile uscire allo scoperto. E farlo con iniziative eclatanti. Troppe idee, come sempre: c’erano i prudenti – per esempio Federico Sclopis di Salerano – che avrebbero marciato con i piedi affondati nel piombo, e gli animosi – come Santorre di Santarosa – che invece erano disposti a rischiare di più. Tutti, però, convennero sulla necessità di partecipare a una manifestazione pubblica da organizzare in tempi rapidissimi.
Il tamtam della sollevazione fece immediatamente il giro di mezza Europa, al punto che alla frontiera venne bloccato Emanuele dal Pozzo della Cisterna. Questi, costretto due anni prima ad abbandonare Torino per Parigi a causa delle sue idee troppo all’avanguardia, avendo saputo che si stava preparando qualche cosa di serio, voleva tornare per contribuire alla rivoluzione. I gendarmi gli trovarono addosso delle lettere definite “compromettenti” perché indicavano abbastanza puntualmente i piani dei cospiratori. Erano indicate le persone coinvolte nell’organizzazione, con l’attribuzione degli incarichi. E si accennava esplicitamente a Carlo Alberto.
Carlo Alberto era un Savoia del ramo cadetto dei Carignano, destinato a succedere a Vittorio Emanuele I che, senza figli e senza nipoti maschi in linea diretta, si trovava a non avere eredi. Ebbene, nei giorni caldi della sommossa, il principe sembrò schierato con i più audaci. Diede a intendere di essere certo del risultato, al punto da assegnare agli amici gli incarichi istituzionali. A futura memoria. Gino Capponi si sentì in dovere di richiamarlo nel mondo reale. «Guarda… se continui così, ti cacci nei guai» lo mise in guardia l’amico. «E non promettere cose che non potrai mantenere.»
In realtà, non era il caso di dare per scontata una soluzione pacifica e positiva della rivolta. Perché mai i sovrani dell’Ottocento, abituati a esercitare un’autorità assoluta e incondizionata, avrebbero dovuto limitarsela da soli? Semmai è paradossale che l’erede al trono partecipasse a una rivolta che aveva tutta l’aria di un golpe contro se stesso.
All’inizio si impegnò con gli insorti, li spronò e li convinse ad andare avanti. Ma, proprio quando la macchina rivoluzionaria cominciò a muoversi, si trovò come paralizzato dalla sua stessa audacia. «Erasi sgomentato.» Chi ebbe occasione di avvicinarlo, trovò un uomo intimorito: «Ogni suo detto spirava confusione e spavento», al punto che «voleva e non voleva».
Fu allora che il principe si guadagnò il soprannome di “Tentenna”.
Dopo essersi impegnato – a dir poco esageratamente – con gli insorti, comprese di essersi cacciato in un guaio e tentò di rimediare abbandonando il fronte dei progressisti per quello dei conservatori. In modo arruffato.
Cercò il ministro della Guerra, Alessandro di Saluzzo, e gli rivelò che si stava preparando “un complotto” contro il re. Però niente paura: lui aveva già “neutralizzato” i congiurati. E nei confronti di quelli che erano stati i suoi amici più cari usò espressioni adatte alle canaglie.
Tradimento compiuto? Non esattamente. Incontrò ancora i capi della rivolta e li incoraggiò ad andare avanti. «Il principe» testimoniarono i protagonisti «aveva mosso lagnanze per i nostri timori e noi biasimato per esserci troppo presto smarriti.»
Poi, proprio quando i carbonari si convinsero che Carlo Alberto non si era tirato indietro e continuava a essere parte del progetto, lui si esibì nella terza capriola. Nella sala del trono della reggia di Moncalieri si buttò ai piedi del re. Era pronto a combattere e addirittura a morire per difenderlo da chi lo minacciava.
Fuori, era scoccata l’ora X. La folla dei ribelli andava ingrossandosi e si avvicinava al palazzo. I congiurati chiedevano la costituzione ma assicuravano fedeltà alla corona. Erano tutti fedeli alla monarchia e devoti a Vittorio Emanuele di Savoia, che secondo le loro dichiarazioni non aveva nulla da temere.
In quelle circostanze un re si trova solo. I consiglieri a cui si affidava abitualmente vennero convocati. Uno non riuscì a partecipare alla riunione perché colpito da un attacco di podagra. Un altro rinunciò perché si era ammalato il padre. E un terzo fu costretto a dare forfait a causa di una tosse «tremenda e ostinata» che gli scuoteva i polmoni.
Almeno, si poteva contare sull’esercito? Domanda difficile… Abbastanza, si azzardò, anche se sarebbe stato meglio non chiedere ai soldati di sparare sulla folla.
Dunque, tanto valeva ragionare seriamente sulla possibilità di concedere quel pezzo di carta a cui i rivoltosi aspiravano con tanta insistenza e al quale sembravano attribuire particolare importanza. Ma come doveva essere scritta questa costituzione? Prospero Balbo consigliò di copiare il documento spagnolo, Vittorio Emanuele sembrò preferire quello inglese. E la regina – che non rinunciava a mettere bocca – pretendeva, nell’uno o nell’altro caso, che si aggiungessero delle clausole per rafforzare il ruolo della Chiesa e la sua salvaguardia. Si fece notte – era il 10 marzo – e tanto valeva approfittarne per andare a dormire.
Nel frattempo la sollevazione si stava estendendo ad Alessandria, Pinerolo e Vercelli nonché fra gli uomini della cittadella di Torino.
In attesa di decisioni, occorreva fronteggiare la rivolta. Il comandante della guarnigione militare, Ignazio Thaon di Revel, non volle muoversi personalmente. Di intervenire – «vigorosamente» – venne incaricato il colonnello Lorenzo Raymondi di Finalmarina. L’ufficiale si mosse con buone intenzioni e, fronteggiando il primo gruppo di insorti, intimò l’alt.
Fermarsi? Proprio quando stavano vincendo?
Uno gli sparò una fucilata in faccia e non gli staccò di netto la testa solo perché l’arma era stata caricata con la polvere, senza pallottola. La fiammata gli incenerì i baffi e lo spaventò a morte tanto da spingerlo a rientrare a casa, infilarsi sotto le coperte e mandare il figlio dal comandante con il certificato di un medico che attestava la sua impossibilità a riprendere il servizio.
Inutile resistere. I carbonari avevano la partita in pugno.
Vittorio Emanuele I ne prese atto. Però, piuttosto che autorizzare una modifica istituzionale per lui inaccettabile, preferì firmare l’atto di abdicazione. Non era più affar suo. Altri avrebbero sbrogliato la questione.
Il trono toccava al fratello Carlo Felice, che tuttavia in quel momento si trovava a Modena. Dunque, in qualità di “reggente”, le sorti del regno finirono nelle mani tremebonde di Carlo Alberto.
Che fare?
Gli insorti lo consideravano un traditore ma lo pressarono affinché prendesse delle decisioni in loro favore. I conservatori ritenevano che fosse uno spregiudicato rivoluzionario ma lo sfidarono per vedere fino a che punto si sarebbe spinto. Situazione imbarazzante anche per chi può contare su un cuore saldo. Figurarsi per “Tentenna”.
Alla fine, il reggente firmò la costituzione, ma prese le sue precauzioni e pretese che si precisasse: «Soltanto per causa di forza maggiore, stante il pericolo di guerra civile». Il sindaco di Torino, il marchese Luigi Coardi di Carpeneto, svolse le funzioni di notaio e prese in custodia l’incartamento.
Dopodiché, pentito e pentito di essersi pentito, in poche ore e in rapida successione, Carlo Alberto riuscì a dichiarare che avrebbe voluto mettere mano all’esercito per ripristinare l’ordine turbato, che rimpiangeva la saggezza di Vittorio Emanuele I e che ammirava la forza di Carlo Felice. Cercò un contatto con la diplomazia inglese per pregarla di premere sull’Austria in modo da scongiurare la possibilità che gli Asburgo decidessero di invadere il Piemonte. E chiese «un paio di navi della marina britannica da mandare a stazionare nella baia di Genova per assicurare l’ordine».
Carlo Felice, al momento di assumere i poteri che gli competevano, anche lontano da Torino, diede la misura di quanto fosse irremovibile. Di costituzione – sentenziò – non se ne parla nemmeno. Le concessioni erano state ottenute in forza di un abuso e dunque costituivano un atto del tutto illegittimo. «Quanto al principe,» dichiarò scandendo le parole «riferite che, se nelle sue vene scorre ancora qualche goccia del nostro sangue, parta per Novara e attenda là le mie determinazioni.»
Carlo Alberto assicurò ai rivoltosi che avrebbe tenuto duro e la notte, di nascosto come un ladro, lasciò il palazzo per ubbidire agli ordini dello zio. Più tardi, si giustificò dicendo che aveva preso quella decisione per via di una confidenza della contessa Masin di Montebello, la quale gli aveva riferito di un complotto per avvelenarlo: avrebbero tentato di corrompere il farmacista di corte perché versasse qualche goccia di arsenico nel suo vino. E disse di aver scorto sulla via per Novara – ma li vide soltanto lui – «quattro amabili giovanotti, uno travestito da donna» che si trovavano là con l’ordine di assassinarlo.
In realtà fu lui a travestirsi, da gendarme, per trasferirsi in seguito da Novara a Firenze. Per strada, passando per Milano, incontrò il generale austriaco Bubna, del quale dovette subire le ironie per le sue personali avventatezze e per le velleità dei suoi compagni. Gino Capponi, in una lettera indirizzata a Niccolò Tommaseo, sostenne che Carlo Alberto consegnò all’ufficiale lettere e documenti che riguardavano gli ex amici costituzionalisti. Un comportamento infame.
A Torino, la rivoluzione si afflosciò con la stessa rapidità con cui era andata crescendo. Gli insorti si fermarono, si ritirarono e infine si sbandarono. Fine del sogno.
Il governatore di Genova, Giorgio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL MALEDETTOLIBRO DI STORIA CHE LA TUA SCUOLA NON TI FAREBBE MAI LEGGERE
  4. Introduzione. Spacciare per autentica una storia “taroccata”
  5. PARTE PRIMA. L’OTTOCENTO
  6. PARTE SECONDA. IL NOVECENTO
  7. Bibliografia
  8. Copyright