La Battaglia di Ravenspur
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La Battaglia di Ravenspur

La Guerra delle Rose

  1. 504 pagine
  2. Italian
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La Battaglia di Ravenspur

La Guerra delle Rose

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Informazioni sul libro

Ci sarà silenzio sul regno d'Inghilterra. Ci saranno sacrifici e tradimenti. E ci sarà una fine. Una nuova casata regnerà su tutti. Perché un regno diviso è un regno perduto.
1470. Un futuro incerto e nebuloso attende Edoardo IV: la casata di York è ormai sconfitta, il re è esiliato nelle Fiandre e la sua famiglia è costretta a riparare presso i Lancaster. Ma rabbia e orgoglio non danno tregua a Edoardo, e lo spingono a lottare per ciò che considera ancora suo. È così che, accompagnato dal fratello Richard, salpa verso Ravenspur, il luogo dove si compirà l'ultimo pezzo del suo destino. Il suo esercito, sfiancato e decimato da un naufragio, arriva così sulle coste inglesi: anche se tutto sembra contro di loro, i due fratelli York sono finalmente a casa. E la decisione da prendere è una sola: attaccare...
Ma nessuno sa che, non molto lontano da lì, in Galles, soffiano venti nuovi. Il giovane Henry Tudor è diventato un uomo: e sarà destinato a entrare nel tumultuoso corso della storia mettendo fine alla Guerra delle due Rose, in un'epica battaglia che consegnerà l'Inghilterra nelle mani della dinastia Tudor per i secoli a venire.
La Storia, grazie alla penna di Conn Iggulden, si trasforma nel romanzo più avvincente: una saga bestseller che vi terrà col fiato sospeso.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858516430
PARTE PRIMA

1470

Non fidarti di colui che è stato infedele una volta.
WILLIAM SHAKESPEARE, Enrico VI, parte III

I

Sulle pietre del castello di Pembroke, avvolto nelle spire del fiume, rosseggiava il sole invernale. Al di sopra delle mura svettava il mastio, alto come una cattedrale e quasi altrettanto fiero.
Sulla strada che portava all’androne d’ingresso lo sconosciuto appoggiò entrambe le mani sul pomo della sella, facendo scorrere il pollice sul cuoio ruvido. Il cavallo stanco lasciava ciondolare il muso, non trovando niente da brucare sulla nuda pietra. A confronto con le figure dei soldati di guardia sul cammino di ronda, Jasper Tudor aveva l’aspetto di un rozzo pastore, scuro, e i capelli, lunghi fino alle spalle e ridotti a una massa sudicia e compatta simile a un panno infeltrito, gli lasciavano il viso in ombra ora che il sole stava tramontando e il giorno cominciava a morire intorno a lui. Nonostante la stanchezza, gli occhi erano attentissimi e sorvegliavano ogni movimento in alto sulle mura. Tutte le volte che una guardia si girava verso il cortile interno o guardava un ufficiale giù in basso, Jasper osservava, ascoltava e giudicava, tanto che capì immediatamente come la notizia della sua presenza avesse richiamato sulle mura il signore del castello. Sapeva quanti gradini avrebbe dovuto salire il nuovo conte per raggiungere la porta esterna rinforzata da sbarre di ferro, solo la prima di una dozzina di difese contro gli assalti nemici.
Jasper contò sottovoce, cercando di non pensare alla collera che provava per il solo fatto di trovarsi in quel luogo. Vide mentalmente ogni svolta della scala di pietra e le labbra gli si piegarono in una smorfia quando William Herbert comparve fra i merli. Il giovane conte lo guardò dall’alto, il viso imporporato per l’emozione. Il nuovo signore di Pembroke, un diciassettenne rissoso che ancora non si era ripreso dalla morte del padre, a quanto pareva non gradiva la vista dell’uomo bruno e peloso che lo stava fissando dal basso. L’espressione del suo viso e il modo in cui serrava le pesanti mani sulla pietra del castello non lasciavano dubbi al riguardo.
Una dozzina di anni prima Jasper Tudor era stato conte di Pembroke e trovava difficile non provare irritazione nel vedersi guardato con aria arrogante da qualcuno che aveva la metà dei suoi anni dall’alto delle mura che un tempo erano state sue.
Il conte William Herbert si limitò a fissarlo per un po’, strizzando gli occhi come se avesse inghiottito qualcosa di molto piccante. Il giovane aveva una testa grossa, la faccia larga sormontata da una frangia di capelli lisci dal taglio netto. Sotto quello sguardo Jasper Tudor fece un cenno di saluto col capo, pensando che sarebbe stato ben più duro avere a che fare con il padre, se fosse stato vivo.
Il vecchio Herbert non aveva fatto una bella fine: non era riuscito a dare nessun nuovo lustro alla famiglia perdendo la vita in un’azione gloriosa, ma era stato semplicemente eliminato quando Warwick aveva preso prigioniero re Edoardo. Quella piccola perdita, ignorata a quel tempo, era stata eclissata dall’enorme crimine commesso da Warwick ai danni del re. Ma Pembroke era sprofondata nel lutto.
L’oscurità si andava addensando e Jasper Tudor cominciava a innervosirsi. Lampi di luce apparivano e sparivano tra le feritoie lungo le mura, a seconda dei movimenti degli uomini in armatura che le percorrevano. Anche se ne aveva individuato la presenza, Jasper non si illudeva che questo fosse poi un vantaggio: nessun cavaliere poteva essere più veloce di un dardo.
Il fondo delle nuvole che percorrevano il cielo si tinse di rosa negli ultimi raggi del sole. Sul cammino di ronda il giovane conte alla fine si spazientì per quel silenzio prolungato. Pur avendo un certo vantaggio sui suoi coetanei e sebbene il dolore gli avesse insegnato a dominarsi, non erano molti i diciassettenni in grado di reggere il confronto con l’impassibilità e la calma di un adulto di quarant’anni.
«Allora? Che cosa volete, mastro Tudor?» Sembrava che il giovane conte provasse un certo piacere nel rivolgersi a lui senza il titolo nobiliare. Jasper Tudor era fratellastro del re Enrico VI. Aveva ricevuto onori e benefici dalla casa di Lancaster e in cambio aveva combattuto per loro, scendendo in campo contro il diciottenne Edward di York, il gigante infuriato che ancora piangeva la morte del padre. Jasper represse un brivido al ricordo di quel colosso nella sua armatura rossa, lo stesso colore che avevano in quel momento le mura di Pembroke.
«Vi saluto in nome di Dio e mi raccomando a voi. Ho fatto vela dalla Francia, precedendo le notizie. Avete saputo qualcosa da Londra?»
«Non riuscite proprio a chiamarmi lord, la parola rimane incastrata in quella vostra gola gallese? Io sono il conte di Pembroke, mastro Tudor! Se siete alla mia porta per chiedere cibo o denaro rimarrete deluso. Tenetevi pure le vostre notizie. La vostra canaglia Lancaster e quel vostro re straccione prigioniero non hanno nessun diritto su di me. E mio padre ha dato la vita in difesa del legittimo re d’Inghilterra, Edoardo IV di York!» Il ragazzo fece una smorfia. «Mentre voi, Tudor, credo che siate stato spogliato di tutto, mi pare che abbiate perso onori, titoli e possedimenti. Dovrei farvi abbattere seduta stante! Pembroke appartiene a me. Ogni bene appartenuto a mio padre ora è mio
Jasper annuì come se avesse appena udito un’affermazione degna di essere presa in considerazione. Nel giovane uomo vedeva una spavalderia che doveva nascondere la debolezza e una volta di più rimpianse di non avere a che fare con il vecchio conte, che era un uomo d’onore. Ma così stavano le cose quando c’era di mezzo la guerra: uomini valorosi morivano e lasciavano i figli a seguire le loro orme, nel bene e nel male. Jasper scosse la testa, muovendo il groviglio di riccioli. Egli stesso era uno di quei figli e forse valeva meno di suo padre, Owen. Quel che era peggio era che negli anni dell’esilio Jasper non aveva trovato una moglie, né aveva avuto eredi suoi e, se il re di Francia non gli avesse garantito un appannaggio in quanto suo cugino, forse Jasper sarebbe morto di fame, solo e senza un soldo. Ciò nonostante era rimasto fedele al re Enrico e a Margherita d’Angiò, regina disperata e decaduta.
Per un attimo Jasper abbassò la testa, sentendo svanire ogni speranza sotto lo sguardo di disprezzo del giovane conte. Tuttavia era a Pembroke e quel vecchio castello una volta era stato suo. Provava un senso di familiarità dolorosa, una strana forma di conforto solo per il fatto di trovarsi lì; desiderava quasi di poter allungare le mani per sentire il tocco di quelle vecchie pietre. Non poteva accettare di essere umiliato davanti a quelle mura. Rialzò la testa un’altra volta.
All’interno della fortezza c’era ancora qualcuno che lui amava come ogni padre ama un figlio, ed era quella la vera ragione della sua visita. Jasper Tudor non era venuto a Pembroke per accusare o per cercare vendetta. Quando le circostanze della vita lo avevano richiamato in patria dalla Francia, aveva chiesto a Warwick il permesso di allontanarsi per una faccenda privata e mentre il resto della flotta aveva sfidato il mare aperto, la sua nave aveva fatto rotta a ovest.
Jasper perlustrò le mura merlate con lo sguardo senza scorgere traccia del figlio di suo fratello, che da quattordici anni si trovava lì dentro, affidato al castellano o forse prigioniero.
«Un tempo pensavo che Pembroke fosse un mondo diverso rispetto a quello di Londra, con tutti i suoi traffici e la confusione» disse, alzando la voce per farsi sentire. «Due settimane a cavallo, d’inverno, sulle strade ridotte ad acquitrini. Si può fare, sì, ma non è facile. Forse è meglio arrivare per mare, lungo la costa gallese, anche se si impiega lo stesso tempo ed è più pericoloso. Per quanto riguarda me, io ho paura di quelle burrasche invernali che possono spaccare in due lo scafo di una nave e far affogare tutti quelli che scelgono di rischiare la propria vita solcando acque profonde, che Dio abbia pietà delle loro anime.»
Parlò a briglia sciolta, confondendo il ragazzo lassù in alto, che scosse la testa, gli occhi privi di espressione.
«Qui non entrerete, mastro Tudor!» esclamò alla fine il conte Herbert, perdendo del tutto la pazienza. «Lasciate stare i vostri trucchi gallesi, io non vi aprirò le porte. Dite quel che siete venuto a dire e tornatevene all’umidità dei vostri boschi e dei vostri accampamenti a cacciare lepri di frodo. Continuate a vivere da quel brigante affamato e lurido che siete mentre io mi godo Pembroke, mangiando arrosto di agnello, con tutte le comodità che sono offerte a chi gode la fiducia del re Edoardo.»
Jasper si stropicciò il mento per non far vedere il lampo di collera che gli aveva attraversato il volto. Non aveva smesso di amare Pembroke, ogni sua pietra, arco, salone, compreso l’odore di muffa dei magazzini, dove si ammassavano botti di vino, grano e cosciotti di pecora e di capra. Era andato a caccia dappertutto in quelle terre e Pembroke per lui era sinonimo di casa come nessun altro luogo sulla terra. Da bambino sognava di essere il signore di un bel castello e quando il sogno si era realizzato Jasper Tudor era stato felice: per il figlio di un uomo d’armi non esisteva premio più grande.
«Che lo abbiate saputo o no, milord, la marea è cambiata. Il conte di Warwick è tornato con una flotta e un esercito…» Jasper esitò, cercando le parole giuste. Il giovane conte che lo stava osservando, sentendo quel nome si era sporto in avanti afferrandosi con tale forza alla pietra da sembrare sul punto di staccarne un pezzo per scagliarglielo contro. Jasper continuò lentamente, lanciando lontano ogni parola: «Rimetterà Lancaster sul trono, milord, cauterizzerà la ferita con un ferro rovente e segnerà la fine di York. Non lo dico per minacciare ma per avvertire, così che possiate scegliere da che parte stare, forse prima che ve lo chieda qualcun altro con la spada in pugno. Ma io sono qui per mio nipote, milord. Per Henry Tudor, figlio di mio fratello Edmund e di Margaret Beaufort. Sta bene? È sano e salvo dentro queste mura?».
«Voi non avete nessun diritto su di lui!» ringhiò William Herbert mostrando i denti. «Mio padre ha pagato mille sterline per avere la sua tutela. Vedo da qui l’orlo stracciato del vostro mantello, Tudor, il sudiciume e la polvere che vi ricoprono: sareste in grado di restituirmi le mille sterline?» Il sorriso beffardo del giovane svanì quando Jasper Tudor allungò la mano dietro di sé per prendere un involto di tela e di pelle che teneva legato alla vita, scuotendolo per far tintinnare le monete d’oro all’interno.
«Sì, sono in grado» gli rispose l’uomo, senza però nessuna nota di trionfo nella voce, avendo visto l’espressione di disprezzo sul volto del conte e sapendo che l’oro non gli sarebbe servito.
«Ah, sì? E in quel sacco avete anche…» Herbert parlò con sforzo, come se un grumo di rabbia gli avesse chiuso la gola «…tutti gli anni impiegati a istruirlo? Il tempo di mio padre? La sua fiducia?» Le parole gli uscivano più in fretta di bocca man mano che riacquistava la sicurezza in se stesso. «Ciò che avete non mi sembra sufficiente per ripagare tutto questo, Tudor.»
Il giovane conte avrebbe avuto la meglio in ogni caso, le parole contavano poco, Jasper non poteva vincere con un semplice scambio di battute. Non bastava un uomo per forzare le porte di Pembroke, non ne bastavano nemmeno diecimila.
Con un sospiro Jasper rimise il fagotto dietro di sé. Perlomeno avrebbe potuto restituire il prestito al re di Francia, così da non essere in obbligo con lui. Si strofinò la fronte, in segno di stanchezza, cercando in realtà di nascondere lo sguardo all’uomo che lo stava osservando trenta piedi più in alto, così da poter lanciare un’occhiata verso suo nipote. Jasper non voleva che si accorgessero della presenza del ragazzo e lo mandassero via. Se si fosse rivolto a lui direttamente, la collera e lo sdegno di William Herbert sarebbero stati tali da rendere un inferno, o addirittura mettere a rischio la vita di suo nipote. Ma quando parlò di nuovo, fu per le orecchie di Henry Tudor, non solo per quelle del nuovo conte di Pembroke.
«È una dimostrazione di buona volontà, milord!» gridò. «Il passato è passato, i nostri padri sono tutti scesi sottoterra, voi siete ora dove un tempo ero io e Pembroke è vostro. Gli anni fuggono, milord, e non possiamo riprenderne neanche un giorno o tornare indietro di una sola ora per fare una scelta migliore quando ne avevamo la possibilità.» Il silenzio del conte lo rincuorò: perlomeno il ragazzo non stava imprecando, né minacciando.
«Edoardo di York è lontano nel Nord, milord, lontano dalle sue armate e dai suoi palazzi. E ora è troppo tardi per lui!» Jasper parlava con fierezza, a voce alta per essere udito da tutti. «Warwick è tornato in Inghilterra! Con un grande esercito arruolato nel Kent, nel Sussex e, sì, in Francia. Con uomini come Warwick, perfino i re tendono l’orecchio per ascoltare, sono di un’altra razza, non sono come voi e me, milord. Statemi a sentire, il conte di Warwick libererà Enrico di Lancaster dalla Torre per ridargli il trono. È lui il vero re d’Inghilterra… e anche mio fratellastro! Ecco, ora io vorrei portare a Londra mio nipote, milord. Vi chiedo in tutta buona fede e con fiducia nella vostra benevolenza di affidarlo a me. Ripagherò tutto quanto vostro padre ha investito su di lui, fosse pure con tutto ciò che possiedo.»
Nel frattempo sulle mura si erano accese lanterne cieche e torce che scacciavano gli ultimi bagliori del giorno. Illuminato dalle luci dorate e tremolanti William Herbert attese solo un istante dopo che l’altro ebbe finito di parlare.
«No!» gridò. «Ecco la mia risposta. No, Tudor. Da me non avrete niente.» Il conte stava godendo del suo potere su quello straccione alla sua porta. «Potrei mandare i miei uomini a portarvi via il vostro sacco di monete, ammesso che questa non sia una delle vostre solite bugie. Non siete forse un brigante nella mia proprietà? Quanti uomini avete derubato e ucciso per mettere insieme tutti quei quattrini, Tudor? Si sa che voi lord gallesi, “lord dei cespugli” come vi chiamano, siete tutti ladri.»
«Siete davvero così stupido?» ruggì Jasper Tudor facendo inviperire ancor di più il giovane conte. «Non vi ho detto che la marea è cambiata? Sono venuto con il cuore in mano e una proposta equa e voi continuate a insultarmi e a minacciarmi stando al riparo delle vostre mura? Il coraggio che avete sta tutto nella pietra sotto le vostre mani? Non volete darmi mio nipote? Allora aprite bene le orecchie, ragazzo! Io vi farò finire sottoterra se gli farete del male. Mi avete capito? Sottoterra!» Pur gridando apparentemente in preda alla collera, Jasper Tudor lanciò un’occhiata al nipote quattordicenne che lo osservava da un punto più lontano del cammino di ronda e trattenne il suo sguardo finché non capì che William Herbert stava allungando il collo per vedere che cosa avesse attirato la sua attenzione. Il volto del nipote svanì e a Jasper non restò che sperare che il suo messaggio fosse arrivato a destinazione.
«Sergente Thomas!» chiamò il giovane conte di Pembroke in tono imperioso. «Prendete una dozzina di uomini e date una lezione a quel brigante sulla mia proprietà. Non ha dimostrato sufficiente rispetto per un nobile fedele al re. Non siate gentile con quel bastardo gallese, versate un po’ del suo sangue, poi conducetelo da me perché riceva la giusta punizione.»
Jasper imprecò sottovoce mentre dall’androne giungevano colpi e cigolii accompagnati dal fragore di enormi catene e sul cammino di ronda soldati correvano tutto intorno cercando di avvistare eventuali uomini in armi nascosti nei paraggi. Alcuni di loro erano armati di balestre e Jasper Tudor avvertiva su di sé i loro freddi sguardi. Non aveva importanza che uno o due di loro un tempo, anni prima, fossero stati suoi uomini, adesso avevano un nuovo padrone. Scosse la testa con rabbia, fece voltare il cavallo e dette di sproni, così che l’animale si lanciò sulla strada. Nessun dardo saettò alle sue spalle nel buio. Lo volevano vivo.
Sporgendosi il più possibile tra i merli, Henry Tudor aveva seguito con lo sguardo l’uomo scarno e spavaldo in sella al suo cavallo nero, che aveva l’aspetto d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA BATTAGLIA DI RAVENSPUR. La Guerra delle Rose
  4. PERSONAGGI
  5. DOVE ERAVAMO RIMASTI
  6. PARTE PRIMA. 1470
  7. PARTE SECONDA. Natale 1482. Undici anni dopo Tewkesbury
  8. EPILOGO
  9. NOTE STORICHE
  10. RINGRAZIAMENTI
  11. Copyright