Ci può essere misericordia senza il riconoscimento del proprio peccato?
La misericordia c’è, ma se tu non vuoi riceverla… Se non ti riconosci peccatore vuol dire che non la vuoi ricevere, vuol dire che non ne senti il bisogno. A volte puoi aver difficoltà a capire che cosa ti è accaduto. A volte puoi essere sfiduciato, credere che non sia possibile rialzarsi. Oppure preferisci le tue ferite, le ferite del peccato, e fai come il cane: le lecchi con la lingua, ti lecchi le ferite. Questa è una malattia narcisista che porta l’amarezza. C’è un piacere nell’amarezza, un piacere ammalato.
Se non partiamo dalla nostra miseria, se rimaniamo perduti, se disperiamo della possibilità di essere perdonati, finiamo col leccarci le ferite che restano aperte e non guariscono mai. Invece la medicina c’è, la guarigione c’è, se soltanto muoviamo un piccolo passo verso Dio o abbiamo almeno il desiderio di muoverlo. Basta un minimo spiraglio, basta prendere sul serio la propria condizione. È importante anche conservare la memoria, ricordarci da dove veniamo, che cosa siamo, il nostro niente. È importante non crederci autosufficienti.
Santa Teresa d’Avila metteva in guardia le consorelle dalla vanità e dall’autosufficienza. Quando sentiva dire «Mi hanno fatto questo senza ragione», commentava: «Dio ci liberi dalle cattive ragioni. Colei che non ha voluto portare la sua croce non so perché sta in monastero». Nessuno di noi può parlare di ingiustizia se pensa alle tante ingiustizie che ha commesso lui stesso davanti a Dio. Non dobbiamo mai perdere la memoria delle nostre origini, del fango da cui siamo stati tratti e questo vale anzitutto per i consacrati.
Che cosa pensa di chi confessa sempre gli stessi peccati?
Se si intende la ripetizione quasi automatica di un formulario, direi che il penitente non è ben preparato, non è stato ben catechizzato, non sa fare l’esame di coscienza, e non conosce tanti peccati che si commettono e dei quali lui non si accorge… A me piace molto la confessione dei bambini, perché loro non sono astratti, dicono come è successa la cosa. Fanno sorridere. Sono semplici: dicono ciò che è accaduto, sanno che quello che hanno fatto è male.
Se c’è una ripetitività che diventa abitudine è come se non si riuscisse a crescere nella conoscenza di se stessi e del Signore; è come non riconoscere di aver peccato, di avere delle ferite da guarire. La confessione come routine è un po’ l’esempio della tintoria che facevo prima. Quanta gente ferita, anche psicologicamente, che non riconosce di esserlo. Questo lo direi pensando a chi si confessa con il formulario…
Un’altra cosa è chi ricade nello stesso peccato e ne soffre, chi fa fatica a rialzarsi. Ci sono tante persone umili che confessano le loro ricadute. L’importante, nella vita di ogni uomo e di ogni donna, non è il non cadere mai lungo il percorso. L’importante è rialzarsi sempre, non rimanere a terra a leccarsi le ferite. Il Signore della misericordia mi perdona sempre, dunque mi offre la possibilità di ricominciare sempre. Mi ama per ciò che sono, vuole risollevarmi, mi tende la Sua mano. Questo è anche un compito della Chiesa: far percepire alle persone che non ci sono situazioni dalle quali non si può riemergere, che finché siamo vivi è sempre possibile ricominciare, se soltanto permettiamo a Gesù di abbracciarci e di perdonarci.
Al tempo in cui ero rettore del Collegio Massimo dei Gesuiti e parroco in Argentina, ricordo una madre che aveva dei bambini piccoli ed era stata abbandonata dal marito. Non aveva un lavoro fisso, riusciva a trovare dei lavori saltuari soltanto qualche mese all’anno. Quando non trovava lavoro, per dar da mangiare ai suoi bambini faceva la prostituta. Era umile, frequentava la parrocchia, cercavamo di aiutarla con la Caritas. Ricordo che un giorno – eravamo nel periodo delle festività natalizie – è venuta con i figli al Collegio e ha chiesto di me. Mi hanno chiamato e sono andato a riceverla. Era lì per ringraziarmi. Io credevo che fosse per il pacco con i generi alimentari della Caritas che le avevamo inviato: «Lo ha ricevuto?», le ho chiesto. E lei: «Sì, sì, la ringrazio anche per quello. Ma io sono venuta qui a ringraziarla soprattutto perché lei non ha mai smesso di chiamarmi “signora”». Sono esperienze dalle quali uno impara quanto sia importante accogliere con delicatezza chi si ha di fronte, non ferire la sua dignità. Per lei il fatto che il parroco, pur intuendo la vita che conduceva nei mesi in cui non poteva lavorare, continuasse a chiamarla “signora” era importante tanto quanto, o forse di più, quell’aiuto concreto che le davamo.
Posso chiederle qual è la sua esperienza di confessore con le persone omosessuali? È rimasta famosa quella sua frase durante la conferenza stampa sul volo di ritorno da Rio de Janeiro, «Chi sono io per giudicare?».
Avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare. Innanzitutto mi piace che si parli di “persone omosessuali”: prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore. Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnarle.
Ci può essere opposizione tra verità e misericordia o tra dottrina e misericordia?
Rispondo così: la misericordia è vera, è il primo attributo di Dio. Poi si possono fare delle riflessioni teologiche su dottrina e misericordia, ma senza dimenticare che la misericordia è dottrina. Tuttavia io amo piuttosto dire: la misericordia è vera. Quando Gesù si trova di fronte all’adultera e alla gente che era pronta a lapidarla applicando la legge mosaica, si ferma e scrive sulla sabbia. Non sappiamo che cosa abbia scritto, il Vangelo non lo dice, ma tutti quelli che erano lì, pronti a scagliare la loro pietra, la lasciano cadere e uno dopo l’altro se ne vanno. Rimane solo la donna, ancora impaurita dopo essere stata a un soffio dalla morte. A lei Gesù dice: «Neanch’io ti condanno, va’ e non peccare più». Non sappiamo come sia stata la sua vita dopo quell’incontro, dopo quell’intervento e quelle parole di Gesù. Sappiamo che è stata perdonata. Sappiamo che Gesù dice che bisogna perdonare settanta volte sette: l’importante è tornare spesso alle fonti della misericordia e della grazia.
Perché lei, commentando il Vangelo nelle omelie mattutine a Santa Marta, parla così spesso dei «dottori della Legge»? Quale atteggiamento rappresentano?
È un atteggiamento che troviamo descritto in tanti episodi del Vangelo: sono i principali oppositori di Gesù, quelli che lo sfidano in nome della dottrina. È un atteggiamento che ritroviamo anche lungo tutta la storia della Chiesa.
Durante un’assemblea dell’episcopato italiano, un confratello vescovo ha citato un’espressione tratta dal De Abraham di sant’Ambrogio: «Dove si tratta di elargire la grazia, là Cristo è presente; quando si deve esercitare il rigore, sono presenti solo i ministri, ma Cristo è assente». Pensiamo a tante tendenze del passato che riemergono sotto altre forme: i catari, i pelagiani che giustificano se stessi per le loro opere e per il loro sforzo volontaristico, atteggiamento quest’ultimo già contrastato in maniera molto limpida nel testo della Lettera ai Romani di Paolo. Pensiamo allo gnosticismo, che porta quella spiritualità soft, senza incarnazione. Giovanni è molto chiaro su questo: chi nega che Cristo è venuto nella carne è l’anticristo. Ripenso sempre al brano del Vangelo di Marco (1, 40-45) dove viene descritta la guarigione del lebbroso da parte di Gesù. Ancora una volta, come in tante altre pagine evangeliche, vediamo che Gesù non resta indifferente, ma prova compassione, si lascia coinvolgere e ferire dal dolore, dalla malattia, dal bisogno di chi incontra. Non si tira indietro. La legge di Mosè stabiliva l’esclusione dalla città per il malato di lebbra, che doveva rimanere fuori dall’accampamento (Levitico 13, 45-46), in luoghi deserti, emarginato e dichiarato impuro. Alla sofferenza della malattia si aggiungeva l’esclusione, l’emarginazione, la solitudine. Proviamo a immaginare quale carico di sofferenza e vergogna doveva portare il malato di lebbra, che si sentiva non soltanto vittima della malattia, ma anche colpevole, punito per i suoi peccati. La Legge che portava a emarginare senza pietà il lebbroso aveva come scopo di evitare il contagio: bisognava proteggere i sani.
Gesù si muove secondo un’altra logica. A suo rischio e pericolo si avvicina al lebbroso, lo reintegra, lo guarisce. E così ci fa scoprire un nuovo orizzonte, quello della logica di un Dio che è amore, un Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini. Gesù ha toccato il lebbroso, l’ha reintegrato nella comunità. Non si è fermato a studiare a tavolino la situazione, non ha chiesto agli esperti i pro e i contro. Per Lui quello che conta davvero è raggiungere i lontani e salvarli, come il Buon Pastore che lascia il gregge per andare a recuperare la pecorella smarrita. Allora, come oggi, questa logica e questo atteggiamento possono scandalizzare, provocano il mugugno di chi è abituato sempre, e soltanto, a far entrare tutto nei propri schemi mentali e nella propria purità ritualistica, anziché lasciarsi sorprendere dalla realt...