Chiudo la porta dietro di me. Il cuore ha l’andamento folle di un metronomo senza lente. Battiti netti, fragorosi, rami di quercia che si abbattono al suolo sotto colpi di ascia.
Mi appoggio alla porta con gli occhi serrati. Il mio corpo aderisce alla superficie lucida del legno. Scivolo lentamente, mi rannicchio fino al pavimento, stretta a occupare il minor spazio possibile. Conquisto il silenzio.
Annuso l’aria di quella stanza estranea. Sembra odore di fresie bianche, ma si capisce che è un profumo finto: uno di quei deodoranti scadenti usati per dare un’impressione di pulizia. Illusioni chimiche. Ma non è esattamente ciò che sto inseguendo?
Respiro. Una, due, tre volte. Voglio controllare il tempo, lo spazio. Il desiderio, soprattutto. Lo sguardo ancora cieco prova a indovinare il posto delle cose. Sarà a sinistra, il letto. Alto, enorme, con quattro cuscini sopra. Lo specchio, di fronte. E la finestra, sotto la quale addormentarmi. La sedia, appena scostata dalla scrivania. Il posto della valigia.
Riapro gli occhi, scopro ogni cosa disposta diversamente. Ma non fa differenza: ciò che importa è essere di nuovo a casa.
Mi chiamo Catherine e ho quasi quarant’anni. Sui miei documenti c’è scritto Caterina, ma in Italia ci sono solo nata, e a nessuno verrebbe in mente di chiamarmi così. Ho un lavoro che mi piace, un amore ufficiale e qualcuno clandestino, il tempo da inseguire ogni giorno e una camera d’albergo per rinchiuderlo: o almeno, per illudermi di riuscirci.
La mia casa è al numero 2 di Redcliffe Square, Kensington, Londra. Un imponente edificio davanti a un parco che da qualche anno, il sabato specialmente, sembra attrarre tutte le famiglie con bambini della città: per via di quelle oche e di quei conigli che la signora Agnés ha riunito nel suo giardino.
Vivo in un appartamento per mezza dozzina di persone, dove invece siamo sempre stati solo in due: io e mio padre. Circondati da abiti e da ricordi, sommersi dai libri e dai souvenir dei nostri viaggi, le sue palline da golf e le mie boccette di profumo, gli avanzi della cena lasciati lì, tra chiacchiere infinite, gli sforzi di donne di servizio e di compagne di avventura per districarsi in mezzo alla nostra confusione: superflue comparse, le une per me, le altre per lui. Alla fine, non siamo rimasti che noi, risate e scenate, il cinema e la musica. E le nostre domande mute ad aleggiare sopra i divani bianchi su cui trascorrevamo le serate.
Una casa troppo piena di cose per un’assenza sola da colmare.
Ma non l’abbiamo svuotata prima, figuriamoci oggi che il mio vecchio sente la stanchezza sul collo, e si aggrappa alle sue mura ripetendo che sono quelle fotografie, i miei voti a scuola, i vecchi film e i vini migliori ancora da bere a trattenerlo in vita.
Allora tocca a me, quando l’inquietudine non trova vie d’uscita, afferrare una borsa, metterci dentro un vestito bello e poche cose essenziali, e uscire di casa, con un bacio e una bugia. Giro per la città ed entro in un albergo, il primo che capita o uno su cui fantastico da un pezzo, e mi rinchiudo in una stanza: per restare sola, o per incontrare qualcuno. A cui dire ciao, che vuol dire addio.
Occupo le stanze, le sporco, le uso. E quando il tempo è scaduto, ho l’impressione di vendicarmi anch’io: lasciandole intrise di me, dell’odore della mia pelle.
Come ora. Ripiego il copriletto e lo infilo in un armadio. Non sopporto l’idea di sedermi dove un altro è stato prima di me. Voglio lenzuola bianche per i miei desideri. E odori neutri da contaminare. Luce, soprattutto.
Ecco perché ora apro le finestre, anche se il bagliore, fuori, viene da un lampione neanche troppo vicino. Scanso le tende, voglio la luna. Del resto, me ne infischio di essere vista. David pensa che ci sia sempre qualche sconosciuto di fronte a un albergo pronto a spiare estranee di passaggio. Vero o no, non me ne curo. Se dovesse esserci, prego, si accomodi pure.
Solo una volta ho pensato che il mio uomo avesse ragione e che qualcuno mi stesse osservando da lontano. Ma non ero con lui, mentre i vestiti cadevano giù e la mia ombra si proiettava sulla finestra di fronte. Peccato non poterglielo raccontare.
Anche adesso, mentre mi libero del reggiseno, so che lui disapproverebbe. «Hai chiuso le finestre?» mi domanderà più tardi, al telefono, quando mi chiamerà per darmi la buonanotte, convinto che io sia in un’altra città per lavoro. Risponderò di sì, con l’aria infastidita. Entrambi sapremo che sto mentendo.
Sono nuda e ho brividi di freddo. Questa volta ho chiarissimo perché mi trovo lì: desiderio puro che mi tormenta. Sono andata a cena con un uomo. Sono fuggita da lui. E ora mi sento in colpa per aver detto no: al regalo inatteso di una di quelle notti che fermano il tempo, aprono uno squarcio, e ti si offrono in dono. E il bello è lì: nello scartare, nel rovistare, sapendo dall’inizio che non troverai nulla di importante. Al massimo, due palloncini che fanno bum.
Adoro le lenzuola fresche. Piacere che non dura a lungo. Più tardi, a letto, non farò che cambiare lato, alla conquista di una porzione di territorio inesplorata. Ma all’improvviso tutto diventerà, come sempre, comune e familiare. E la notte passerà. Arriverà la luce. Tornerò Catherine. Indosserò occhiali scuri. Salirò su un taxi. Eviterò lo sguardo degli altri, finché non sentirò svanire ogni traccia dei miei segreti. Riaprirò la porta di casa. Tutto tornerà al suo posto.
Ci vorrebbe qualcosa da bere, ora. Champagne&Wine, sorrido al pensiero di una canzone. Apro il frigobar e stappo una birra. Bevo direttamente dalla bottiglia. Mi vedo riflessa sullo specchio di fronte. Sorrido ai miei lunghi capelli chiari. Faccio smorfie e penso che finalmente mi piaccio così. Vivo con sorpresa un momento della mia vita in cui le leggi di natura si sono rovesciate. E siccome sento che non durerà a lungo, ne godo profondamente: le mie gambe si sono fatte più leggere, anziché appesantirsi per gli anni. La pancia morbida è la più complice spia delle mie emozioni. Il seno l’interruttore del mio piacere.
La birra è quasi finita e già ne desidero un’altra. Da quando ho smesso di fumare è la sola bevanda capace di procurarmi lo stesso perverso piacere: odore che detesto e che mi attrae. Di pelle appena sgualcita, all’inizio. Poi di ferro. Da ultimo, impressione di sangue.
Mi accorgo che nel frigobar non ce n’è un’altra. Istintivamente apro una bottiglietta azzurra. La bevo in un sorso solo. Ha un sapore che non mi piace. Troppo secca, calda. È come mandar giù un veleno profumato. Ma è perfetto per ciò che voglio ottenere: perdermi, questa notte. Sospendere il tempo. E abbandonarmi: a un’amaca nel presente. Al rollio di una nave nel buio della notte, senza traccia di costa in lontananza. Latitudini complicate da indovinare.
Il telefonino che squilla è un allarme a sorpresa. E un interrogativo che chiede di essere risolto al volo. Alzo la cornetta. E tutto diventa inevitabile.
«Pronto» mormoro con la voce impastata dall’alcol. «Pronto» ripeto, tentando di schiarirla. Potrei aver pianto. O essere sull’orlo di un orgasmo. Emozioni alla deriva difficili da discriminare.
«Sono Leonard. Posso venire da te?».
Il cuore riprende un ritmo sgangherato. Il desiderio applaude di gioia.
«Certo» riesco solo a dire.
Metto giù e l’adrenalina è già in circolo. Mi dà la forza di alzarmi e di correre in bagno. Mi infilo sotto la doccia. Fermo i capelli con una pinza inutilmente, scivolano giù, si bagnano lo stesso, mi danno un effetto pasticciato. Mi strofino il volto, stavo quasi per addormentarmi e sono ora costretta a una rapida sveglia. Penso a cosa indosserò, chissà se ho messo nella borsa almeno una sottana nera, esco dalla doccia, mi infilo l’accappatoio. Non trovo gli slip, accidenti, dove ho messo il profumo. Ed è già troppo tardi. Bussano.
Apro. Di colpo sono una bambina impacciata. So perfettamente cosa sta per accadere. Lo sapevo da oggi pomeriggio, sin dal primo momento in cui il mio sguardo ha incrociato quello di Leonard durante un noioso convegno. Ma ora, negli attimi che precedono le parole dei corpi, mi sento avvampare di timidezza. E desidero solo che sia lui a condurre il gioco.
Leonard mi bacia. E mi sembra la cosa più naturale del mondo. Mi esplora con dolcezza. Sento che anche lui non vuole perdersi niente di questo strano incontro. Uscita di servizio dalla vita di entrambi. Nostalgia di altre possibilità. Una sigaretta nell’orario di lavoro. Ossigeno, dopotutto, per resistere.
Mi bacia, mi abbraccia, mi fissa con i suoi occhi azzurri. Mi spinge verso il letto. L’accappatoio è una corazza apparente. Si apre e mi lascia nuda, la schiena sul letto, mi viene da ridere, come sempre. E lo so che non c’è niente da ridere: ma io, in quell’istante, sorrido alla vita. Eccomi.
«Sei bellissima, Catherine» mi dice Leonard. «Non so che senso abbia tutto questo, ma ti desidero da impazzire.»
Lo bacio anch’io, gli do il permesso di proseguire, ne accarezzo il petto senza troppi peli, è bello scoprirlo più giovane di quanto l’avessi immaginato. Odora di buono. Fresie fresche, appena raccolte.
«Voglio farti godere, voglio farti impazzire, voglio che tu stanotte sia mia» mi sta dicendo, mentre affondo nel suo sguardo. Piacere così vero che si mischia a un’improvvisa voglia di piangere. Sono passati solo pochi minuti ma le sue mani che mi stringono risvegliano emozioni che riconosco. A cavallo della sua schiena, gli lascio impronte di complicità. I miei seni sul suo viso implorano di accantonare ogni razionalità. Rotoliamo da una parte all’altra. Cerchiamo entrambi, è evidente, il varco migliore attraverso cui possederci. Sorridiamo dei nostri goffi avvicinamenti: si capisce dallo sforzo di rinnovare gli stessi gesti che anche lui, come me, è uno che ha molto amato.
«Ti amo» gli dico all’improvviso. Qualunque cosa significhi veramente, è la verità di quest’istante.
Si ferma a guardarmi. Ha lo sguardo smarrito, ora. Penso di aver esagerato. È passato un tempo troppo breve per parlare d’amore. Per un attimo vorrei non aver pronunciato quelle due parole.
Continua a fissarmi, tra i suoi occhi le rughe tradiscono lo sforzo di capire. O forse solo il dubbio di non aver sentito bene. Accade: parole importanti, inutilmente dette, e perse, tra i respiri dell’amore. Allora glielo ripeto. Sono fatta così: nel dubbio, esagero.
«Ti amo.»
Spalanca gli occhi. Alla luce della luna sono due fari che lampeggiano in mezzo al mare, complicando ogni traiettoria. Solo in quel momento mi rendo conto che Leonard ha aperto del tutto la finestra. Ecco un esibizionista come me, penso.
«Ti amo» mi dice allora lui con un sorriso grande. «Ti amo. Qualunque cosa significhi.»
Lo conosco da qualche ora. E non temo di chiamarlo amore. Perché oggi lo so che si può amare per una vita intera e per una notte sola. Per ore che ritornano sempre. Per attimi che non si ripeteranno più.
Siena, 29 aprile 1380
Oggi, 29 aprile, è morta Caterina. Caterina la Santa, la preferita dal Signore. Oggi, 29 aprile, io, Giovanna da Fontebranda, comincio a scrivere la mia storia.
Me l’ha domandato Caterina stessa. E un attimo prima di chiudere gli occhi quaggiù e spalancarli altrove per sempre mi ha dettato il suo comandamento: «Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Cristo, vi comando e vi costringo a vedere la luce del giorno. Ora che la mia anima è illuminata dal vero lume, alla luce voglio che vi volgiate anche voi. Di luce siate ripiena con abbondantissimo fuoco d’amore».
Vedrò la luce giacché ne ignoro il sapore. Non ne conosco i riflessi. Non so dirne il calore. Riferitemi voi, fratelli che vivete a capo scoperto: com’è la luce dell’alba, mentre il giorno la incalza? Con che profumi vi sveglia dal sonno per annunciarvi il mattino? Di che umore è quando nel buio qualcuno sprofonda?
Voglio respirarne tanta per tutti gli anni che ho perduto. Guardarla in faccia fino a farmi abbagliare. E cieca, per aver troppo visto, ubriaca di troppo ossigeno, scivolare nel vuoto e in pace raggiungere lei.
Chiudo gli occhi e ti vedo, Caterina, in questa notte che splende di stelle. Guidami tu verso il giorno che sogno da anni. Perché ora che è così vicino, tremo all’idea del mattino, sapendo che la mia prima alba sarà anche la mia ultima ora.
Morirò senza vedere il tramonto. Passerò dalla luce del sole alla luce dell’aldilà. Saltando quello che è in mezzo e che detesto di più: la notte, il buio.
Scosterò per l’ultima volta la tenda di questa cella dove ho sempre vissuto. Percorrerò l’oratorio dove la fratellanza, di notte, s’incontra. Attraverserò...