Silenzio e occhi bassi! A cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, le donne siciliane godevano ancora dell’esclusivo e incontrastato privilegio di restare zitte. In famiglia, giusto quando erano interpellate, rispondevano utilizzando un “voi” onorifico. E, oltre il monopolio della procreazione dei figli – che non poteva essere messo in discussione – era loro riservata la prerogativa di rompersi le ossa, piegate in due, per lavorare praticamente senza interruzione da quando spuntava il sole al momento del tramonto1.
Ma, con l’esplosione del conflitto mondiale, alzarono la schiena e si appropriarono della parola.
La prima protesta al femminile scoppiò a Collesano, nell’hinterland di Palermo.
Era l’undici maggio 1915: martedì2.
Le donne della cittadina si erano incontrate la domenica precedente a messa e al vespro del lunedì. Un sommesso parlottare fra loro, uno scambio di sensazioni, e la condivisione delle loro ansie e preoccupazioni.
Come dubitare? I segnali della mobilitazione di guerra si manifestavano con la faccia del postino che consegnava le cartoline precetto. I coscritti erano convocati al distretto per il periodo di ferma militare. Ma con loro venivano richiamate anche alcune classi più anziane che, però, dovevano rispondere alle necessità dell’esercito. Impossibile equivocare. Si stava correndo, in preparazione di un conflitto che doveva essere alle porte.
Con altrettanta chiarezza, era già evidente che chi parlava della necessità di imbracciare le armi si sarebbe concesso anche il vantaggio di “combattere” nelle retrovie, in luoghi abbastanza riparati e, tutto sommato, tranquilli.
In prima linea ci sarebbero andati quelli che, della guerra, avrebbero fatto volentieri a meno per rimanere a coltivare i campi. I loro uomini: figli… mariti… fratelli…3
Sul fronte avanzato, in prima linea, in faccia al nemico, occorreva “il sangue dei terroni”.
“Terrone”, di per sé, è un termine neutro. Era – e sarebbe ancora – il lavoratore dei campi: un agricoltore che, praticando un lavoro come un altro, non poteva essere qualificato né come migliore né come peggiore. Diventò dispregiativo e quasi irridente in seguito. Sinonimo di “meridionale”, prese il significato di “inferiore”, “meno dotato”, “ritardato”.
I “terroni” erano gli abitanti di un Sud senza confini geografici specifici. I cittadini del Regno delle Due Sicilie, certo, ma anche i marchigiani, gli umbri e i laziali che popolavano lo Stato Pontificio. Qualcuno cominciò a considerare “meridionali” quelli che stavano sotto Bologna; e i piemontesi, mettendo in mostra una punta di razzismo aggiuntivo, pretendevano che la civiltà terminasse sulla sponda del Tanaro, cioè in quel lembo della provincia di Alessandria che confina con la Liguria.
Un contributo fondamentale nell’elaborazione di questo sentimento venne da Cesare Lombroso, che, nonostante gli evidenti errori teorici e le castronerie partorite dai suoi “studi”, continua a essere indicato e in qualche caso celebrato con la qualifica di “scienziato”4. Dalle pagine dei suoi libri alla costruzione di un immaginario collettivo insultante nei confronti di almeno la metà degli italiani, il passo non fu davvero troppo lungo. E il “Sud” finì per trovarsi appiccicata addosso un’etichetta infamante, con la conseguenza che, insieme alla sua gente, fu considerato e trattato come una colonia. Da sfruttare.
In economia, si trattò di impiegare la forza delle braccia, ostacolando – e talvolta impedendo – lo sviluppo di un reticolo di attività commerciali che avessero la capacità di crescere e rendersi autonome5. In guerra, tutta quella gente doveva servire come “carne da cannone”.
Del resto, gli Stati che avevano allargato i confini nazionali trasformandosi in imperi avevano sempre utilizzato gli uomini delle colonie per le loro guerre.
Gli inglesi ricorrevano ai pakistani? I francesi ai marocchini6? Gli italiani mandarono avanti i “terroni”! E se ciò non avvenne per un disegno lucido e consapevole delle alte sfere dello Stato Maggiore è persino peggio, perché significa che si trattò di un atteggiamento così implicitamente acquisito da non necessitare nemmeno di una pianificazione formale.
Ma istintivamente le donne di Collesano avevano già capito tutto.
Si radunarono davanti alla chiesa e al parroco che diede loro udienza chiesero di farsi portavoce di un diffuso sentimento di pace della comunità. Il sacerdote assicurò il proprio impegno, ma quale margine di manovra poteva avere? I grandi potentati economici e i politici avevano già scelto. Gli intellettuali schiamazzavano per le piazze d’Italia chiedendo a gran voce una prova di forza. Volevano il “bagno” nel sangue per garantire alle prossime generazioni un futuro eroico. Come potevano farsi ascoltare la voce di un prete e la protesta femminile di Collesano?
In Sicilia, le dimostrazioni pubbliche contro la guerra non si caratterizzarono come un vero e proprio movimento organizzato, ma non è nemmeno possibile liquidarle come fenomeni sporadici e isolati.
Eppure la storia ha concesso loro ben poca attenzione, al punto che, esclusi gli “addetti ai lavori”, la maggior parte del pubblico non ne è a conoscenza.
Il comune toscano di Greve in Chianti inaugurò il 1° maggio 1999 una lapide per non dimenticare le donne del paese che «coi loro figli, prime in Italia, manifestarono contro la grande guerra». L’iscrizione spiega che esse «vennero arrestate, processate e condannate» insieme al «socialista umanitario» Galileo Gagli, «poeta, scultore e pittore», che «ne seguì la sorte quale organizzatore».
Ricordo doveroso ma non esente da errori, dal momento che definisce quella manifestazione come “prima” in Italia, mentre prima non fu. Del resto, come potrebbe tramandarsi la memoria dell’impegno pacifista delle donne siciliane, se i testi che si studiano a scuola propongono ancora una lettura nazionalista dell’Italia che doveva “completare” il suo Risorgimento7?
In prima fila, madri, mogli e sorelle che non accettavano di vedere i loro uomini partire per il fronte, con una buona probabilità di non vederli più fare ritorno.
Scesero in piazza a Sciacca, a Santa Margherita Belice e ad Aragona. E ancora ad Alcamo, a Paternò, a Delia, a Bagheria, a Piana degli Albanesi, ad Aci Trezza e a Cianciana.
Le autorità fermarono le proteste anche duramente. Individuarono le più risolute. Intervennero con denunce, processi, intimidazioni. Trovarono il modo di emarginare quelle che sembravano godere di un ascendente maggiore sulle altre. E si assicurarono che delle manifestazioni non rimanesse traccia sui giornali, per evitare un contagio per emulazione.
Eppure, con il trascorrere dei mesi di guerra e con le notizie di cataste di morti che si andavano moltiplicando, le manifestazioni diventarono più numerose e più intraprendenti.
La censura si sforzò in ogni modo di minimizzare i danni che i combattimenti stavano provocando. I quotidiani stampavano bollettini tutto sommato rassicuranti e Achille Beltrame sulla «Domenica del Corriere» si incaricò di illustrare gli atti di eroismo che avrebbero dovuto inorgoglire i lettori. Ma il passaparola generato dai racconti dei reduci feriti o incoraggiato dalle lettere che arrivavano dalle trincee svelava un’altra storia e un’altra guerra. Le donne sentirono l’obbligo morale di mobilitarsi.
Il 26 maggio 1916, a Carlentini, margine estremo della provincia di Siracusa, le donne affrontarono il sindaco che stava uscendo dal municipio. Due gendarmi lo scortavano, ma la folla non si lasciò intimorire. Voci e urla si accavallarono: «Pace!», «Basta guerra! », «Fate ritornare a casa i nostri uomini!». Slogan che avevano il tenore e il significato di un atto rivoluzionario.
Il verbale dei carabinieri precisò che «i disordini andarono aumentando»8 con atteggiamenti sempre più aggressivi.
Il sindaco, già in là con gli anni, si muoveva con difficoltà per il sovrappeso e non doveva godere di una salute troppo buona. Lo videro sudare e poi cercare un appoggio perché non riusciva a reggersi in piedi. Fu necessario soccorrerlo e chiamare i medici. Quando arrivò a casa sua, trasportato su una specie di lettiga, aveva perso conoscenza. Le cure successive furono inutili.
Secondo il commissario di polizia, la morte del primo cittadino di Carlentini sarebbe stata provocata «dalle turbe femminili vocianti» che l’avevano «allarmato». Difficile credere a un rapporto così diretto di causa ed effetto. Le autorità, evidentemente, esagerarono per consentirsi l’opportunità di qualche repressione in più nei confronti delle organizzatrici della piazzata.
Nella provincia di Agrigento vi furono due proteste. A Campobello di Licata arrestarono Maria Ponticello, ritenuta l’anima della manifestazione pacifista. La condannarono a 32 giorni di carcere e al pagamento di un’ammenda.
In prigione finì anche Maria Segreto, a Ribera. L’avevano indicata come “la moderna Lisistrata” perché – emulando l’eroina di Aristofane – affermava che solo la rivolta delle donne poteva mettere fine alla guerra. Si trovò in tribunale con l’accusa di “sobillazione antimilitarista”, un capo d’imputazione che, a quei tempi, non era da prendere sottogamba9.
Le donne non si facevano mancare la protezione del cielo. Il più delle volte, le manifestazioni stavano a metà fra la processione e il corteo di protesta. Più facilmente, la processione servì per mascherare la protesta.
Dalla cappella principale della chiesa prelevavano la statua del santo patrono e la trasportavano per le strade, alternando miserere e invettive. Accadde a Caltagirone, a Leonforte, a Montalbano Elicona e a Catania.
I sacerdoti, nella stragrande maggioranza dei casi, si tennero alla larga da quei movimenti. Anzi, cercarono di scoraggiare l’esibizione dell’insofferenza e il desiderio alla pace. I cattolici erano ancora i “nemici” del Risorgimento e i ministri del culto dovevano muoversi con enorme prudenza per evitare di finire negli ingranaggi della legge. Che, nei loro confronti, venne applicata con rigore inflessibile10. A Sciacca, il 14 gennaio 1916, insieme a «quattro sediziose disfattiste» che vennero denunciate, rimase coinvolto un frate laico della basilica, Giovanni Buonomente. Con decreto ad horas fu trasferito dalla sua parrocchia e accompagnato a Messina con la scorta di due carabinieri. Non ebbe nemmeno il tempo di prepararsi un sacco con gli effetti personali, che gli vennero recapitati giorni dopo con servizio postale ordinario, per la premura dei confratelli che racimolarono le sue poche cose, due libri e il messale delle preghiere11.
A Cammarata fu indispensabile forzare la nicchia, prima di caricarsi sulle spalle la statua della Madonna “Cacciapensieri”, in modo che il corteo venisse aperto da una figura la cui autorità non poteva essere messa in discussione. Solo l’aiuto divino poteva lenire l’angoscia.
Le donne siciliane non conoscevano le statistiche sui morti e le percentuali dei feriti. Però, sapevano che i loro cari stavano patendo le pene dell’inferno, sepolti vivi in un buco destinato a diventare, contemporaneamente, il refettorio, la camera da letto, il gabinetto e, con troppa frequenza, il cimitero. Con i piedi nel fango, la divisa a brandelli e la testa rinsaccata nelle spalle. Tormentati da parassiti e infezioni micidiali. Senza contare la carneficina delle “avanzate” che si risolvevano in massacri di proporzioni bibliche.
Il rischio di rimanere nelle pietraie del Carso era elevatissimo. Ma anche quelli che tornavano troppo spesso si portavano dietro ferite difficilmente rimarginabili. Volti sfigurati, braccia maciullate e i sintomi della follia. Anche chi salvava la pelle rimaneva segnato per sempre, da menomazioni fisiche o dalla paura che lo aggrediva nelle ore del sonno.
A San Cataldo un gruppo di donne, dopo la processione-corteo, fece irruzione nella torre del campanile per suonare a stormo. Rintocchi al posto delle cannonate.
A Castro Reale una delle dimostranti affrontò un carabiniere che le si era parato davanti. Lo graffiò con le ungh...