In viaggio
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Dopo aver intervistato papa Francesco per il libro Il nome di Dio è Misericordia, pubblicato in tutto il mondo, il vaticanista Andrea Tornielli - che sull'aereo papale ha seguito tutte le visite apostoliche - ha scelto di raccontare i grandi temi e i gesti di questo pontificato attraverso le tappe internazionali compiute da Bergoglio.
Italia, Brasile, Cuba, Stati Uniti, Africa, Asia, ma anche Lesbo, Sarajevo, Lund... Territori affascinanti e città emblematiche, luoghi complessi e popolazioni eterogenee, che hanno visto il pontefice denunciare con decisione il narcotraffico, la vendita di armi, la corruzione, addirittura lo schiavismo in certi settori dell'economia, e definire tragedia umanitaria la questione delle migrazioni dal Sud al Nord del mondo.
Un papa pellegrino di pace, ma anche un profeta scomodo, che invita le Chiese locali a tornare vicino ai settori più emarginati della società. Senza tralasciare la narrazione di episodi inediti e gustosi dietro le quinte dei voli papali, Tornielli si sofferma su alcuni incontri significativi: da Obama a Fidel Castro, da Bartolomeo I al patriarca russo Kirill, da Abu Mazen a Shimon Peres.
Nell'esclusiva conversazione con il vaticanista, il papa racconta inoltre gli aneddoti pubblici e privati delle trasvolate oceaniche, e il rifiuto categorico di sottostare a rigide norme di sicurezza nell'abbraccio con le folle.
Uno straordinario diario di viaggio che dà conto in tempo reale di un'opera di evangelizzazione senza precedenti, capace di scuotere le coscienze contro la "globalizzazione dell'indifferenza".

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858516805
1

Con i giovani in Brasile

Quello in Brasile è stato il primo viaggio internazionale di Francesco, ancora in piena “luna di miele” mediatica. L’organizzatore delle trasferte papali, il laico Alberto Gasbarri, della direzione amministrativa di Radio Vaticana, aveva già cominciato a prepararlo per Benedetto XVI, senza sapere, come chiunque altro in Vaticano eccetto don Georg Gänswein e il segretario di stato Tarcisio Bertone, che papa Ratzinger da mesi aveva già deciso il clamoroso gesto della rinuncia.
Uno dei motivi scatenanti della scelta di Ratzinger è proprio la lunghezza del viaggio intercontinentale per l’incontro dei giovani a Rio de Janeiro. Lo rivelerà lo stesso papa emerito in un’intervista con il suo biografo Elio Guerriero: «Vi erano numerosi impegni che non ritenevo più di poter portare a termine. In particolare era già stata fissata la data della Giornata mondiale della gioventù che doveva svolgersi nell’estate del 2013 a Rio de Janeiro in Brasile. Ora, a questo riguardo, io avevo due convinzioni ben precise. Dopo l’esperienza del viaggio in Messico e a Cuba [nel marzo 2012, N.d.A.], non mi sentivo più in grado di compiere un viaggio così impegnativo. Inoltre, con l’impostazione data da Giovanni Paolo II a queste giornate, la presenza fisica del papa era indispensabile. Non si poteva pensare a un collegamento televisivo o ad altre forme garantite dalla tecnologia. Anche questa era una circostanza per la quale la rinuncia era per me un dovere».
E così, se per lo stesso Ratzinger la prima trasferta internazionale era stata a Colonia, nella sua terra tedesca, per la GMG decisa da Giovanni Paolo II, anche Francesco si trova di fronte a un viaggio stabilito da chi lo ha preceduto e che rappresenta il primo ritorno in Sudamerica dopo l’elezione.
È normale che, prima di un viaggio del pontefice, la papamobile venga spedita in aereo nel paese con un congruo anticipo. Così, anche stavolta un volo militare predisposto dal governo brasiliano è pronto a raggiungere Roma e a portare in patria la pesante auto con i vetri blindati usata dal papa nei suoi spostamenti all’estero.
«La papamobile non era ancora partita» ci spiega Gasbarri «e il Santo Padre un giorno mi telefona per introdurre alcuni cambiamenti al programma.» Francesco aggiunge all’agenda la visita al santuario mariano di Aparecida, dove si era svolta nel 2007 l’ultima grande riunione dell’episcopato latinoamericano, e decide di sacrificare altre possibili mete, come una visita al Corcovado, il monte che sovrasta la città di Rio con la colossale statua di Cristo a braccia spalancate. In quel colloquio telefonico, Bergoglio dice all’organizzatore del viaggio: «Senta, dottor Gasbarri, le posso dire una cosa? Io in quella scatola non ci entrerò mai!». E lui: «Scusi, Santo Padre, di quale scatola parla?». «Quella che voi chiamate papamobile.»
Proprio quella mattina, prima di fare la telefonata, Francesco si era fatto accompagnare da uno dei suoi aiutanti di camera nell’autoparco vaticano e l’aveva provata. Racconta Gasbarri: «Cercai di forzarlo, anche per motivi di sicurezza: quando il Santo Padre sta in papamobile, è più sicuro. Provai a replicare dicendogli: “La capisco, ma mi faccia fare una cosa. Io porto una papamobile, se lei si sente di utilizzarla la utilizza, se non si sente, non la usa”. Rispose che l’avrei potuta portare, ma che lui non l’avrebbe usata. A quel punto non l’ho portata, non l’ho fatta proprio partire. Avevo imparato già a conoscerlo un po’, sapevo quando era possibile convincerlo e quando non lo era. Volle una macchina aperta come quelle usate in piazza San Pietro». E per gli altri spostamenti il papa dà disposizione che siano auto non blindate e possibilmente non lussuose.
Meno di un anno dopo, nel 2014, lo stesso Francesco confermerà anche pubblicamente le ragioni di questa decisione, nel corso di un’intervista con il quotidiano spagnolo «La Vanguardia»: «So che mi può succedere qualcosa, però è tutto nelle mani di Dio. Ricordo che in Brasile mi avevano preparato la papamobile chiusa, con il vetro. Ma non posso salutare un popolo e dirgli che lo amo da dentro una scatola di sardine, anche se è di cristallo. Per me questo è un muro. È vero che qualcosa mi può accadere, però siamo realisti, alla mia età non ho molto da perdere».
Così, da allora, la papamobile blindata, pesante quattro tonnellate, con i vetri sovrapposti spessi cinque centimetri e resistenti – si dice – anche ai colpi di kalashnikov, giace inutilizzata nell’autoparco. E, nonostante le puntuali e ripetute obiezioni e resistenze dei servizi di sicurezza dei paesi visitati, dagli Stati Uniti a Israele, da Sarajevo alla Repubblica Centrafricana, Francesco non è mai salito su un’auto blindata: quelle scelte per gli spostamenti veloci sono sempre state utilitarie di medie dimensioni.
La mattina del 22 luglio, il primo volo papale del pontificato di Bergoglio decolla da Fiumicino. Francesco saluta a uno a uno i giornalisti e dice poche parole sulla GMG: «Questo primo viaggio è proprio per trovare i giovani. Ma i giovani non isolati dalla propria vita: vorrei trovarli nel tessuto sociale, nella società… I giovani hanno un’appartenenza, l’appartenenza a una famiglia, a una patria, a una cultura, a una fede. Hanno un’appartenenza! E non dobbiamo isolarli, non dobbiamo isolarli da tutta la società».
All’arrivo, appena usciti dall’aeroporto, un imprevisto. Francesco deve recarsi al Palazzo Guanabara di Rio de Janeiro per la visita alla presidente della Repubblica Dilma Roussef. Bergoglio sale a bordo di una piccola Fiat Idea e il corteo, con la scorta di auto e moto della polizia, si immerge nelle vie della metropoli brasiliana, abitata da sette milioni di persone. Tanta gente attende il suo passaggio. Ma a un certo punto l’auto civetta che guida il corteo sbaglia strada e imbocca un controviale dove sono parcheggiati dei pullman. Le auto rimangono imbottigliate e una folla di fedeli si avvicina all’auto del papa. Sono momenti di tensione, anche se nessuno vuol fare del male a Francesco. I gendarmi vaticani cercano di contenere il pacifico assalto. Il papa sorride, abbassa con la manovella il finestrino dell’auto, che non ha i vetri elettrici, saluta e stringe mani. Qualcuno arriverà a dire che il comandante dei gendarmi, Domenico Giani, ha estratto la pistola per intimidire la folla: nulla di più falso. Al contrario, sarà proprio lui a far avvicinare una giovane donna con un bambino per permetterle di salutare il pontefice.
Ci vogliono dodici lunghi minuti, con continui stop and go, per percorrere cinquecento metri, mentre una marea umana sempre più grande preme, rischiando di schiacciare i gendarmi contro le pareti dell’automobile. «L’episodio è stato un po’ romanzato dai media» ci racconta il comandante Giani «ma è vero che a un certo punto, dopo dieci minuti che eravamo fermi e c’era tanta gente che lui avrebbe voluto salutare, Francesco mi disse: “Io scendo e vado a piedi”. Gli risposi: “Santità, forse non è il caso”. La situazione fortunatamente si stava risolvendo e lui attese.»
I momenti di tensione vissuti dall’apparato di sicurezza a Rio de Janeiro non sono una novità nella storia dei viaggi papali. Nel 1979, durante la prima trasferta internazionale di Giovanni Paolo II, in Messico, la grande vettura scoperta su cui viaggiava il papa sbagliò strada e si ritrovò improvvisamente senza scorta. Un altro momento di paura per la pressione della folla sul papa polacco si verificò a Manila, nel 1995, per la Giornata mondiale della gioventù: fu difficile persino far atterrare l’elicottero su cui si trovava Wojtyła. Tutte le strade erano bloccate; i cordoni dell’esercito che dovevano tenere libero l’accesso per la papamobile erano stati travolti e anche il piazzale dove il velivolo doveva posarsi era stato completamente invaso dalla gente.
Ma il momento forse più drammatico rimane quello vissuto da Paolo VI nel gennaio 1964, in occasione del suo storico pellegrinaggio a Gerusalemme: il primo viaggio all’estero di un papa dell’epoca contemporanea. All’arrivo alla Porta di Damasco, la folla separò il papa dal suo seguito, e Montini, che voleva percorrere a piedi la Via Dolorosa verso il Calvario, venne completamente circondato e quasi travolto da una marea umana. Le immagini mostrano il pontefice bresciano attorniato dai soldati mentre viene trascinato da una parte e dall’altra per i vicoli della Città Santa. Pallido ma sorridente, Paolo VI riuscì ad arrivare incolume alla meta, il Santo Sepolcro, dove avrebbe celebrato la messa. Quella sera, padre Giulio Bevilacqua, un amico del papa, rivelò a un gruppo di giornalisti radunati fuori della delegazione apostolica di Gerusalemme un pensiero che Montini gli aveva confidato molti anni prima: «Sogno un papa che viva libero dalla pompa della corte e dalle prigionie protocollari. Finalmente solo in mezzo ai suoi diaconi». Ecco perché, aveva concluso Bevilacqua, «sono convinto che oggi, sebbene travolto dalla folla, egli sia più contento di quando scende in San Pietro sulla sedia gestatoria tra le alabarde delle guardie e le porpore dei cardinali».
Esattamente come oggi accade con Francesco, che davanti alla presidente e alle autorità brasiliane dice: «Ho imparato che, per avere accesso al popolo brasiliano, bisogna entrare dal portale del suo immenso cuore; mi sia quindi permesso in questo momento di bussare delicatamente a questa porta. Chiedo permesso per entrare e trascorrere questa settimana con voi. Io non ho né oro né argento, ma porto ciò che di più prezioso mi è stato dato: Gesù Cristo!».
Dopo una giornata di riposo e di incontri privati, il 24 luglio il papa si reca ad Aparecida. Il santuario mariano più importante del Brasile si trova nello stato di San Paolo. Vi si venera una statuetta della Madonna nera alta quaranta centimetri, ritrovata in tre pezzi nell’ottobre 1717 nel fiume Paraíba da tre pescatori. La tradizione sostiene che è nera perché vuole rimanere accanto agli oppressi, e il fatto di essere stata pescata in frantumi ricorda la vita spezzata dalla schiavitù.
È un luogo caro a Francesco perché proprio lì, sei anni prima, da arcivescovo di Buenos Aires, era stato incaricato di presiedere il gruppo di lavoro per la stesura del documento finale della conferenza del Celam, l’assemblea generale dell’episcopato latinoamericano. Un appuntamento che aveva messo in luce a livello continentale la leadership dell’allora cardinale Bergoglio.
La riunione del CELAM nel 2007 era stata la prima assemblea tenuta in un santuario mariano e, secondo Bergoglio, l’essere quotidianamente a contatto con i fedeli – ogni anno si contano a milioni – aveva condizionato i lavori dei vescovi, facendo loro comprendere l’importanza della devozione e della pietà popolare. «Celebrare l’eucaristia insieme al popolo è diverso che celebrarla tra noi vescovi separatamente. Questo ci ha dato vivo il senso dell’appartenenza alla nostra gente, della Chiesa che cammina come popolo di Dio, di noi vescovi come suoi servitori.»
Il documento finale di Aparecida conteneva le parole chiave e i messaggi che ora Francesco trasmette a tutta la Chiesa. A partire dall’invito alla missione: «Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce». «Nel Vangelo» sintetizzava il cardinale francescano Aloísio Lorscheider, oggi scomparso, che di Aparecida fu arcivescovo «gli incontri più belli di Dio con l’umanità avvengono sulla strada. Secoli di storia di cristianesimo vissuto non ci dicono altro.»
Fa freddo e piove quando il papa arriva all’imponente santuario mariano. Concelebrano con lui centinaia di vescovi. «Gesù ci ha mostrato che il volto di Dio è quello di un Padre che ci ama» dice Francesco nell’omelia. «Il peccato e la morte sono stati sconfitti. Il cristiano non può essere pessimista! Non ha la faccia di chi sembra trovarsi in un lutto perpetuo. Se siamo davvero innamorati di Cristo e sentiamo quanto ci ama, il nostro cuore si “infiammerà” di una gioia tale che contagerà quanti vivono vicini a noi.»
Una grande folla attende fuori il papa, che al termine della messa si dirige verso la loggia affacciata all’esterno portando con sé la statua della Madonna. Un’immagine eloquente, che colpisce. Non si limita a portarla con sé per ostenderla alla folla che ha trascorso ore sotto la pioggia nel piazzale. Prima la bacia e poi quasi la culla, tenendola in braccio come se si trattasse di un bambino.
Il papa è abituato a svegliarsi poco dopo le quattro di mattina, dunque ha la necessità di fare una breve siesta dopo pranzo: quel riposo che il presidente argentino Juan Domingo Perón definiva un «obbligo quasi liturgico» e che gli permetteva di avere ogni giorno «due mattine». Ma quel 24 luglio Francesco deve rinunciare alla sua siesta. Impegni di stato? No. Un vertice improvviso con i cardinali? Nemmeno. A impedirgli il riposo pomeridiano sono alcune suore di clausura, con il loro entusiasmo e la loro insistenza. Un gruppo di monache attende infatti nel seminario di Aparecida, dove Bergoglio arriva al termine della cerimonia. «Uno si sarebbe aspettato che le religiose fossero tranquille e silenziose» commenta con ironia padre Federico Lombardi. «Invece, nonostante si fosse all’aperto nel cortile del seminario e piovesse, si sono scatenate nel festeggiare il pontefice.» Non solo: ognuna di loro pretende una foto con il pontefice e una sua firma autografa. Francesco rimane con loro tutto il tempo previsto per il riposo.
Di ritorno a Rio de Janeiro, Francesco si reca all’ospedale São Francisco de Assis na Providência de Deus, specializzato nell’assistenza ai tossicodipendenti. Piove a dirotto, mentre il papa saluta alcuni ospiti della struttura e tiene un breve discorso sotto la pensilina dell’ingresso principale. «Abbracciare, abbracciare» dice. «Abbiamo tutti bisogno di imparare ad abbracciare chi è nel bisogno, come ha fatto san Francesco. Ci sono tante situazioni in Brasile, nel mondo, che chiedono attenzione, cura, amore, come la lotta contro la dipendenza chimica. Spesso, invece, nelle nostre società ciò che prevale è l’egoismo. Quanti “mercanti di morte” che seguono la logica del potere e del denaro a ogni costo! La piaga del narcotraffico, che favorisce la violenza e semina dolore e morte, richiede un atto di coraggio di tutta la società.»
Il 25 luglio è il giorno dell’incontro con i poveri e del primo abbraccio con i giovani.
La mattina, Francesco riceve le chiavi di Rio de Janeiro. Poi va a incontrare la comunità che vive nella popolosa favela di Varginha. Arriva, scende dall’utilitaria e si avventura a piedi tra le baracche, incurante della pioggia, avvolto e quasi travolto dall’incontenibile affetto della gente. Nessun protocollo, nessuna etichetta, pochi preti al seguito, tante persone comuni. Abbraccia chiunque, ascolta tutti, si lascia tirare da una parte e dall’altra. Riceve doni, magliette colorate, fotografie. Asciuga le lacrime della mamma che tiene tra le braccia una bambina gravemente handicappata avvolta in una coperta rosa. Entra nella piccola chiesa parrocchiale con i mattoni a vista perché non c’erano soldi per l’intonaco, incastrata tra le baracche dal tetto di lamiera. Il suo volto s’illumina a ogni abbraccio, a ogni bacio, a ogni stretta di mano. Si infila con passo rapido nella porticina di legno di una casa con il muro giallo, una stanza di quattro metri per quattro dove lo attendono venti persone. È una famiglia povera, che Francesco visita lontano da telecamere e fotografi. Li abbraccia come avrebbe desiderato fare con ogni famiglia brasiliana. «Avrei voluto bussare a ogni porta, dire “buongiorno”, prendere un cafezinho… ma non un bicchiere di cachaça!» aggiunge scherzoso, riferendosi all’acquavite apprezzatissima in America latina. «Avrei voluto parlare come ad amici di casa, ascoltare il cuore di ciascuno, dei genitori, dei figli, dei nonni… Ma il Brasile è così grande! E non è possibile bussare a tutte le porte! Allora ho scelto di venire qui…»
Sulla parete di una casa vicina giganteggia un murale con il volto di Óscar Romero, il vescovo martire di El Salvador. «Nessuno può rimanere insensibile alle disuguaglianze che ancora ci sono nel mondo!» dice Francesco alla folla che lo acclama sul campo da calcio della favela. La solidarietà «oggi è una parola dimenticata, sembra quasi una parolaccia». Ma qui a Varginha il papa – che non si stanca di ripetere le parole di Gesù: “Avevo fame, sete e mi avete dato da mangiare e da bere, ero nudo e mi avete vestito” – viene a ringraziare le «persone più semplici» per la «preziosa lezione di solidarietà». «So bene che quando qualcuno che ha bisogno di mangiare bussa alla vostra porta, voi trovate sempre un modo per condividere il cibo: come dice il proverbio, si può sempre “aggiungere più acqua ai fagioli”! E voi lo fate con amore, mostrando che la vera ricchezza non sta nelle cose, ma nel cuore!»
Tra la folla che accoglie Francesco nella favela, insieme a un gruppo di giovani, c’è padre Renato Chiera, settantadue anni, originario di Villanova Mondovì, fondatore della Casa do Menor, una ONG che gestisce case di prima accoglienza per ragazzi di strada. «Si vede che il papa vuole bene a questa gente» dice. «Ama questi poveri, li abbraccia, non ha paura di sporcarsi. Questi ragazzi gridano il loro bisogno di amore. Servono l’aiuto materiale e l’educazione, ma hanno soprattutto bisogno di qualcuno che voglia loro bene.»
Nel pomeriggio, prima della festa di accoglienza della GMG sulla spiaggia di Copacabana, c’è un fuori programma. Il papa decide di incontrare migliaia di giovani argentini ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IN VIAGGIO
  4. Introduzione. Lampedusa, porta d’ingresso sulle ferite del mondo
  5. La vecchietta con la pelle di pergamena. Intervista a papa Francesco sui suoi viaggi
  6. 1. Con i giovani in Brasile
  7. 2. In Terra Santa con Bartolomeo
  8. 3. Corea, viaggio nella Chiesa che fu fondata dai laici
  9. 4. Tirana, nella terra di madre Teresa
  10. 5. Toccata e fuga nel cuore delle istituzioni europee
  11. 6. Pietro visita il fratello Andrea (ai confini del califfato)
  12. 7. Sri Lanka e Filippine: un papa nel cuore dell’Asia
  13. 8. Sarajevo, viaggio lampo nella “Gerusalemme d’Europa”
  14. 9. Nelle periferie d’America
  15. 10. Cuba, la porta per gli Stati Uniti
  16. 11. Anticipo di Giubileo nel cuore dell’Africa
  17. 12. Messico e lo storico abbraccio di Cuba
  18. 13. Lesbo, una scossa alla coscienza dell’Europa
  19. 14. Armenia, memoria per la riconciliazione
  20. 15. Polonia, l’abbraccio dei giovani e il silenzio ad Auschwitz
  21. 16. Georgia e Azerbaigian. In visita al piccolo gregge
  22. 17. A Lund, per un nuovo inizio con i luterani
  23. 18. In Egitto per isolare i fondamentalisti e abbracciare i cristiani copti che subiscono il martirio
  24. 19. Fatima, preghiera per la concordia dei popoli
  25. 20. In alta quota, a ruota libera. I retroscena dei viaggi sull’aereo papale
  26. Copyright