Lo scandalo della morte
Come accennavo all’inizio, per parlare adeguatamente di eutanasia, è indispensabile riflettere assieme sul senso stesso della morte, che resta comunque un enigma che turba e spaventa. Alfonso Di Nola, uno studioso di antropologia, ne parla come di una gelida “signora nera”1 che da sempre suscita – e continua a suscitare – interrogativi che lacerano l’intimo di ognuno e della stessa società. La morte non è soltanto l’ultimo istante della vita; essa traversa tutta l’esistenza: dalla tristezza delle separazioni e delle rotture, alla scomparsa dei vicini; dal sentimento acuto del “mai più” alla tentazione di uccidere o di togliersi la vita. Dalla morte salgono innumerevoli domande, ma tutte, per lo più, restano senza una risposta vera che convinca, che soddisfi o almeno che chiarisca.
Ricordo quei versi di Cesare Pavese che aprono la poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
Questa morte che ci accompagna
Dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
Quando su te sola ti pieghi
Nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla2.
L’unica cosa certa della morte è che riguarda tutti, nessuno escluso. E si abbatte inesorabile. Fa pensare che nel mondo muoiano ogni giorno circa 155.000 persone, vale a dire 57 milioni ogni anno3. E sappiamo che moriranno anche gli altri miliardi di esseri umani che verranno dopo di noi: la morte resta drammatica e ineliminabile per tutti e per ogni tempo. Qualcuno può cercare di non pensarci, illudendosi così di non doversi confrontare con essa. Ludwig Feuerbach, ad esempio, nei suoi Pensieri sulla morte e l’immortalità, pubblicati in forma anonima nel 1830, scriveva: «La morte non è in sostanza che un fantasma, una chimera […] un nulla, nulla di positivo, nulla di assoluto, la cui immaginaria realtà non sorge che dalle nostre idee […] un mero nulla, uno zero […]. Essa rapisce tutto senza eccezione di sorta, e quindi sparisce essa medesima […]. Sicché può dirsi che la morte nostra è a un tempo la morte della morte»4. A dire il vero già Lucrezio ed Epicuro, nell’antica Roma, esortavano a non considerare la morte: «Non ci raggiunge mai perché quando ci siamo noi essa non c’è, e quando arriva non ci siamo più noi». Molti, anche ai nostri giorni, cercano di affidarsi a considerazioni simili. Ma è difficile evitare l’avvertimento di Pascal: visto che gli uomini non possono cancellare la morte, l’allontanano, pensando così di essere felici. In verità, tutti sperimentiamo la paura della morte e tutti sentiamo che resta un problema insolubile: nessuno sa veramente cosa essa sia.
C’è un paradosso nella cultura contemporanea: l’uomo, mai come oggi, ha avuto strumenti efficaci per combattere la morte o almeno per allontanarla, eppure mai è stato così indifeso culturalmente nei suoi confronti. La morte è divenuta un tabù. Non è stato così nei secoli passati. Le grandi tradizioni religiose hanno robustamente aiutato i loro seguaci a elaborare il senso della morte e della sua presenza nella storia: è forte il bisogno di scongiurare disperazione e nichilismo5. E oggi l’uomo contemporaneo – nonostante i progressi raggiunti in numerosissimi campi – si trova senza parole nei confronti della morte. E fa tutto per occultarla, negarla e, comunque, per non incontrarla.
Se per un verso vi è una evidente convergenza nell’occultare la morte, per l’altro verso si sono moltiplicati gli studi su di essa nei vari campi del sapere: storia, religioni, filosofia, medicina, scienze umane. Si potrebbe dire che la morte non è mai stata messa così a nudo come lo è oggi nella cultura contemporanea6. Ernest Becker giunge a dire che uno degli impegni più robusti della cultura contemporanea è proprio quello di aiutare gli uomini e le donne di oggi a liberarsi dalla coscienza della loro mortalità. E si ipotizzano le strategie più diverse per spingere verso una negazione psicologica della morte7. William M. Spellmann8, ad esempio, mentre ne rileva la signoria – peraltro feconda e drammatica – nei secoli passati, afferma che oggi, nonostante siamo nel pieno di una “rivoluzione della mortalità” che ha invertito la percentuale dei decessi (prematuri o violenti) tipici della storia passata, la morte viene sistematicamente occultata. Ma – nota lo studioso – il mancato confronto con la morte si riflette negativamente sulla vita: «L’atteggiamento che assumiamo nei confronti della morte plasma anche la nostra risposta alla vita, fornisce le basi per i codici di condotta personale, nonché per sistemi etici più ampi, e giustifica l’esistenza o la nascita di strutture sociali e politiche»9.
La morte resta per tutti un enigma misterioso. Molti, con atteggiamento superficiale, pensano che essa sia semplicemente uno degli eventi della vita, una tappa come tante altre. Remo Bodei saggiamente avverte: «Una certa cultura laica vorrebbe trasformare la morte in un evento banale, ma la morte non è mai banale: è solennità, è mistero. Ogni volta che muore qualcuno, un intero mondo scompare e si perde per sempre». E aggiunge: «Io difendo quel mistero. Viviamo come ospiti grati che cercano di capire perché sono finiti in questo mondo e quanto durerà»10. La morte è sempre la chiusura dell’esistenza di una persona. L’interrogativo è come porsi di fronte a essa. Ci sono coloro che invitano ad accettarla con serenità, sottomettendosi al destino e accogliendo la lezione della finitudine così come si accoglierebbe un tramonto che non avrà più l’aurora. Così me ne parlava Arrigo Levi in un nostro dialogo su questo tema. E Norberto Bobbio in poche pagine cerca di cogliere il senso di quel che accade dopo la morte – ma non lo trova – nel contesto della sua vita come in quella dei “mortali”, appunto11.
Ci sono altri – probabilmente la maggioranza – che non riescono ad allontanare lo scandalo della morte. Penso al grido di Miguel de Unamuno: «Non voglio morire, no; non voglio, né voglio volerlo; voglio vivere sempre, sempre, sempre, e vivere io, questo povero me che sono e mi sento essere qui e ora, e per questo mi tormenta la durata della mia anima, proprio della mia»12. Una cosa è chiara: la cultura contemporanea non sembra più capace di sopportare il pensiero della morte. E cerca di occultarla.
La morte occultata
Geoffrey Gorer, un antropologo inglese, in un volume del 1955, rilevava il profondo cambiamento che stava avvenendo nel corso del Novecento: la morte “naturale” e i suoi riti stavano scomparendo dalla scena pubblica. Divennero o-sceni, letteralmente “fuori della scena”, quasi “pornografici”13. Nella società ottocentesca erano considerati un tabù la sessualità e la nascita, mentre la morte naturale era uno spettacolo normale adatto anche ai bambini. Romanzieri e scrittori, vittoriani ed edoardiani, dedicavano alla morte e alla sua messa in scena pagine edificanti. Nella metà del Novecento – nota l’antropologo inglese – le cose si sono rovesciate: è la morte a diventare un tabù, non il sesso. Alcuni anni dopo, l’autore scrive un nuovo testo, a seguito di un lutto che lo aveva riguardato da vicino. Questa volta, Gorer descrive la disumanità che ormai circonda la morte. Non solo è normale ormai morire in solitudine, come nota l’autore14, ma neppure si può parlare della morte, anche quando qualcuno lo vorrebbe. È divenuta innominabile, aggiunge Werner Fuchs: «Parlarne significa commettere una gaffe e infrangere le convenzioni». Vi è come una «inibizione comunicativa» rispetto a essa15.
È esperienza comune avere in famiglia o tra le persone care qualcuno, in genere in età avanzata, che desidera aprire con chi gli è più vicino una conversazione sulla propria morte: si tratta di far conoscere o di spiegare le disposizioni testamentarie; oppure di comunicare le ultime volontà, tra cui i dettagli legati agli obblighi o ai riti successivi al decesso; a volte si vuole essere rassicurati che non si sarà soli quando arriverà l’ora; o si avverte il bisogno di porre interrogativi sull’“oltre”, sul futuro che li attende, su ciò che ci sarà dopo, o semplicemente se ci si ricorderà di loro, magari andando con regolarità a mettere fiori sulla propria tomba. Di fronte a queste richieste l’impulso dell’interlocutore è sempre quello di cambiare argomento, di scherzare sul tema, di dire che non è il momento. La conversazione sulla morte provoca molti imbarazzi, anche se chi ha alle spalle una lunga esperienza di amicizia con gli anziani e di profonda comprensione dei loro bisogni avverte che «non sono discorsi da evitare per tenere gli anziani allegri. Non è di questo che hanno bisogno»16.
Il grande storico della morte Philippe Ariès mostra l’enorme capovolgimento dell’atteggiamento verso la morte avvenuto nel corso del Novecento soprattutto in Occidente, ma non solo. Basti pensare a quel che scrive, a tale proposito, Aleksandr Solzenicyn: «Ma più di tutto abbiamo cominciato a temere i morti e la morte. Se in una famiglia c’è un decesso, allora evitiamo di scriverle, di passare di lì: non conosciamo le frasi adatte a parlare a lei, della morte […]. Sparite, odiosi, sotto un’erma di legno piuttosto e lasciateci in pace! Noi, tanto, non moriremo mai. Questa è la sommità della filosofia del XX secolo»17. La morte viene nascosta a chi sta per morire e a chi resta. Ariès sintetizza con questa immagine a effetto tale processo: «Non sono più i bambini che nascono sotto i cavoli, ma sono i morti che scompaiono tra i fiori»18.
In effetti, è una consuetudine consolidata ormai non portare più i bambini ai funerali, come pure impedire loro di accedere negli ospedali o nelle case di cura. Si dice: altrimenti si impressionano! Sono troppo piccoli per capire. E si consuma, così, quella separazione dei piccoli dai nonni malati, scavando un abisso tra loro e la generazione che li ha preceduti. L...