Lunedì mattina Marco Luciani si presentò all’Accademia con un’ora buona di anticipo, una grandissima voglia di giocare e un’ancora più grande voglia di cominciare finalmente l’indagine. Confidando sul conto spese si era comprato due completi da tennis nuovi, compreso quello di Wawrinka con i calzoncini simili a un costume da bagno, e nuove erano anche le scarpe: voleva dare l’impressione di un uomo ricco, un professionista che era lì per togliersi lo sfizio di migliorare il suo tennis. Nella borsa, anch’essa nuova, aveva le racchette vecchie ma incordate di fresco, oltre al necessario per fare la doccia e cambiarsi nell’intervallo del pranzo. Parlò di nuovo per un po’ con la segretaria italiana, Elisa, che gli consegnò una sacca con il materiale della scuola, quindi, in attesa che arrivasse il maestro, uscì sulla terrazza a osservare la distesa di campi. Le allieve non avevano ancora cominciato ad allenarsi e gli innaffiatori automatici erano in azione, la terra rossa percossa e attonita beveva acqua e riprendeva piano piano colore e morbidezza.
Lo misero sul campo 14 con il maestro Matt, il classico ragazzo americano alto, biondo e dal sorriso bianchissimo, insieme ad altri tre turisti del tennis: un francese di una trentina d’anni che gli risultò antipatico fin dal primo sguardo e due tedeschi della sua età, in perfetta forma e assatanati. Cominciarono con un po’ di riscaldamento a metà campo, poi dal fondo. Era da qualche settimana che non giocava, ma nel giro di dieci minuti gli parve di non aver mai smesso. Le racchette rispondevano bene, le gambe anche, la giornata era gloriosa e lui era di nuovo in pista, pronto a risolvere un mistero. Provarono qualche volée e i servizi, quindi, a turno, palleggiarono con Matt sotto lo sguardo del Gran Maestro, mentre un assistente li riprendeva con la telecamera. Marco Luciani si sforzò di eseguire i colpi con stile impeccabile, perché non gli piaceva l’idea che i suoi errori venissero evidenziati sullo schermo. Resse bene lo scambio per un po’, poi quando l’altro aumentò la velocità di palla e andò a cercare gli angoli cominciò ad arrivare in ritardo, e a perdere il controllo dei colpi. Finiti i palleggi passarono alle volée, agli smash, al servizio. Fu una mattinata abbastanza divertente, anche se in un angolo della testa Marco Luciani continuava a pensare a Martina, alla sua improvvisa scomparsa. Non vedeva l’ora che arrivasse la pausa pranzo per cominciare a guardarsi intorno.
Dopo due ore intense di allenamento e una doccia si mise in coda al self service della mensa con più appetito del solito. Le ragazze si scambiavano battute e scherzavano con i maestri, quasi tutti poco più grandi di loro. Parlavano in inglese, generalmente, o in uno spagnolo istoriato di espressioni francesi, russe, tedesche. Mentre le atlete sceglievano con una certa attenzione cosa mangiare, i giovani maestri riempivano i piatti con montagne di pasta, uova, carne e altri cibi non identificati immersi nell’olio o nel sugo. Alla loro età bruciano tutto, pensò Luciani, hanno una fornace al posto dello stomaco. Girellò nella sala finché sentì una ragazza parlare italiano, era una bionda con i capelli ricci, bruttina ma dal viso simpatico, e quando un’amica la chiamò «Chiara», Luciani esultò in cuor suo e decise di non perderla di vista. Scodellò nel piatto due mestoli di riso in bianco e delle verdure al vapore, quindi si fermò al buffet dei piatti freddi e mise insieme un’insalata mista con lattuga, pomodori e carote. I dolci non li guardò neppure, ma prese una macedonia per assicurarsi una delle porzioni di frutta consentite dalla dieta. Trovò con lo sguardo un tavolo libero vicino a quello della biondina che stava parlando fitto con le amiche, ma quando fece per sedersi una di loro gli disse in inglese: «Qui è riservato agli allievi, la zona dei visitatori è quell’altra». Marco Luciani fece finta di non capire, chiese in italiano che cosa aveva detto, e Chiara gli rispose: «Lascia perdere, siediti dove ti pare», facendo un gesto alla sua amica come a dire, rilassati.
«Grazie, sei molto gentile» disse Luciani e per far vedere che non era interessato a loro indossò le cuffiette e accese l’iPod, mettendo la musica al massimo. Poi chiese scusa con un sorriso, «Abbasso», e riportò il volume a zero, guardando fisso nel piatto e cercando di intercettare i loro discorsi.
Mangiò molto lentamente, per ascoltare il più possibile di quello che dicevano, ma non ne trasse grandi indicazioni. Stavano parlando male di una qualche altra allieva che se la tirava, che era convinta di essere la più bella e la più brava del mazzo, ma che secondo loro era solo una montata, senza tette per di più. Parlarono anche di un torneo in programma la settimana successiva, poi una delle ragazze virò il discorso sulla musica e su un cantante figo dal nome improbabile e andarono avanti a parlare di quello per un bel po’, mentre Marco Luciani cercava di centellinare le foglie di insalata.
Le tenniste si divisero due dolci in quattro, un modo come un altro per sentirsi meno colpevoli. Quando si alzarono, l’italiana passò accanto al suo tavolo e lui ne approfittò per alzarsi in piedi, togliersi le cuffiette e salutarla: «Ciao. Divertiti, col tennis».
Lei fece una risatina, mentre scuoteva leggermente i riccioli biondi. «Grazie. Anche tu.»
«Oh, io di sicuro. Per me è una settimana di vacanza. Marco» aggiunse col suo miglior sorriso, sforzando di rendere ancor più trasparenti i suoi occhi azzurri e porgendole la mano.
«Chiara» disse lei stringendola con una presa decisa. «Arrivato oggi?»
«Sì. Devo assolutamente migliorare il rovescio.»
La ragazza rise. «Ho lo stesso problema.»
«Chiara, c’mon!» la chiamò una delle altre ragazze.
«Devo andare. Ci vediamo.»
Marco Luciani la salutò, quindi attaccò con gusto la sua macedonia.
Impiegò l’ora abbondante di tempo tra la fine del pranzo e la ripresa delle lezioni per prendere confidenza con le strutture dell’Accademia. Avevano a disposizione uno spazio enorme, ettari di terreno erano stati spianati per fare spazio ai campi ma ai margini della proprietà restava verde in abbondanza, e c’era anche una parte dedicata agli orti e agli alberi da frutto, in particolare arance. Si ricordò di averne viste un po’ dappertutto, in cestini sparsi in giro per la reception o sui tavolini all’ombra, messe a disposizione degli ospiti.
Fece una lunga passeggiata prendendo nota delle uscite di sicurezza degli edifici e dei sistemi di allarme sui muri di recinzione. Del parcheggio per i fornitori, dell’ubicazione della lavanderia e del centro massaggi. Delle toilette e della sala relax, dove potevano entrare solo le allieve fisse e i maestri, mentre agli ospiti come lui ne era riservata un’altra più piccola. Aveva incontrato nei viali diversi addetti impegnati a curare le piante, svuotare i cestini, trasportare materiali in macchinette simili a quelle usate sui campi da golf. Salutava tutti con uno squillante «Buongiorno, come va?» nella speranza di incontrare qualche altro italiano, ma i visi che gli rispondevano con un sorriso e un inchino erano perlopiù asiatici.
Questo posto è una macchina da soldi, pensò. Ma deve avere anche spese notevoli. Si chiese se l’Accademia aveva una percentuale sui premi guadagnati dalle giocatrici più brave, e se pagava un affitto elevato o puramente simbolico. Ma chissà se queste informazioni farebbero una qualche differenza per la mia indagine, rifletté, in fondo non dovrebbe essere questione di soldi ma qualcosa di molto più semplice, una ragazza che si ribella al padre, tutto lì.
Si accorse che mancavano cinque minuti alla ripresa del corso e si affrettò a tornare ai campi, cercando di svuotare la testa e concentrarsi solo sui colpi. Fu un pomeriggio divertente, con un’ora abbondante dedicata al doppio: il servizio, la risposta, come posizionarsi nella fase di attacco e in quella di difesa, l’uso dei pallonetti e dei passanti, gli smash. Marco Luciani era uno specialista e conosceva già praticamente tutti i segreti, ricevette i complimenti del maestro e concluse la sua prima giornata in uno stato di semi-esaltazione. Era tornato a indagare in piena libertà ed era tornato a giocare a tennis, forse le due cose che amava di più nella vita.
«Permesso?»
«Vieni, vieni, Martina. Come va?»
«Tutto a posto, grazie.»
Il Gran Maestro si alzò dalla poltrona e le andò incontro. Le mise una mano sul fianco e le stampò due baci sulle guance. Lei si sforzò di sorridere e di non pulirsi il viso con le mani.
«Siediti. È andato bene l’allenamento?»
«Sì, certo. Come sempre.»
L’uomo la guardava, con un’espressione che voleva essere da padre preoccupato, ma nella quale lampeggiavano sguardi da vecchio maiale. Sguardi che Martina aveva imparato a riconoscere molto presto, nella vita.
«Siediti. Vuoi un succo di frutta?»
«No, grazie. Ho la mia acqua.»
Il Gran Maestro annuì. «Stai attenta a tutto. Brava. Vedo che stai lavorando bene. Con impegno. E i primi risultati stanno arrivando.»
«Insomma.»
«La strada per arrivare in cima è molto lunga, Martina. È come una scala da percorrere un gradino alla volta.»
«Io ne ho ancora più di duecento, per arrivare in cima» sorrise lei.
«Già. Ma tu ce la farai. Sicuro. Com’è andata al torneo?»
«Proprio di questo volevo parlarle. Della mia sconfitta con Jenny.»
«Non mi ha sorpreso. Jenny è una buona giocatrice, più esperta di te.»
«Ma io la stavo battendo. Solo che non ho potuto!»
Il Gran Maestro teneva gli occhi socchiusi e le mani quasi ...