Maledetta guerra
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Maledetta guerra

Le bugie, i misfatti, gli inganni che mandarono a morire i nostri nonni

  1. 324 pagine
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Maledetta guerra

Le bugie, i misfatti, gli inganni che mandarono a morire i nostri nonni

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Un conflitto che ha accatastato venti milioni di morti, probabilmente il più sanguinoso dell'intera storia umana (per non parlare delle epidemie collegate, altrimenti si superano i sessanta milioni), è nato dalle menzogne di un duplice omicidio e dalla fucilazione di 50 innocenti. Un conflitto che decisero economia, politici e un manipolo di invasati¿ ma poi a combattere dovettero andarci i soldati. E fu una carneficina.
Lettere e diari dal fronte sono stati sempre trascurati - al più lasciati alle cure delle Pro Loco che, di tanto in tanto, potevano scoprire qualche scritto di un loro concittadino. Ma quei fogli raccontano un'altra guerra. Una guerra insensata, da combattere con armi vecchie, indumenti inadeguati, cartine sbagliate. Con i piedi a mollo nel fango delle trincee, i gomiti appoggiati sulla neve, facendo colazione a un passo dai corpi dei caduti. Altro che l'epica e l'eroismo, altro che medaglie al valore. Dalla voce dei soldati traspare il dolore, la sofferenza, la necessità di obbedire a ordini spesso insensati e la voglia di mandarli tutti a quel paese. "Il nostro peggior nemico era Cadorna" dichiara efficacemente uno di loro. Rivelando segreti inediti, Lorenzo Del Boca racconta l'altra faccia della Prima guerra mondiale, quella che la retorica ufficiale e i libri di scuola nascondono. Perché dovremmo deciderci finalmente a onorare il debito di riconoscenza nei confronti dei nostri nonni.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858513385
Argomento
Storia

Capitolo 1

Libertà per gli “irredenti”
nelle braccia del Padreterno

L’esercito tricolore non aveva ancora avuto l’opportunità di sparare una schioppettata contro gli austriaci (i nemici da scacciare dal “suolo sacro”) ma già si era trovato nelle condizioni di assassinare alcune dozzine d’italianissimi “irredenti” (per liberare i quali era sceso sul piede di guerra).
Le prime pattuglie italiane attraversarono il confine di stato nel tardo pomeriggio del 25 maggio. Con quieta solerzia.
L’Italia era entrata ufficialmente nel conflitto un anno dopo tutti gli altri, il 24 maggio 1915. Nei propositi dei caporioni doveva trattarsi di una passeggiata, magari faticosa, ma comunque niente più di una corsa a ostacoli. Qualche settimana per raggiungere Lubiana e pochi mesi per prendersi anche Vienna. Con sfacciata disinvoltura.
In realtà, per il “balzo iniziale” che doveva evidenziare le intenzioni e le capacità guerriere dell’Italia furono necessarie quasi 48 ore, che servirono per “conquistare” il primo villaggio, a qualche centinaio di metri oltre il confine. Offensiva prudentemente cauta.
Tre staffette dei “cavalleggeri di Saluzzo” si affacciarono alla periferia di Villesse1. Era già l’imbrunire e la gente che non era stata reclutata per il fronte aveva appena fatto rientro a casa, dopo la giornata di lavoro. Le strade erano deserte. Incontrarono un ragazzino del quale la memoria collettiva tramanda anche il nome: Igino Fonzari. Gli domandarono se c’erano dei nemici in giro. Quello, che era austriaco ed evidentemente convinto della sua cittadinanza, rispose che “per il momento” loro erano i primi a mostrarsi. Piaccia o non piaccia, altro che liberatori, gli italiani erano considerati invasori.
La maggior parte dei soldati, imbevuti di propaganda nazionalista, immaginava di essere ricevuta con sventolare di bandiere e marce di fanfare. Gli ufficiali erano preparati a un’accoglienza più tiepida. Certo, essere indicati esplicitamente come nemici li mise di cattivo umore.
Il 27 maggio – furono necessari un altro paio di giorni – arrivarono gli uomini del 3° battaglione (del 13° reggimento, della brigata Pinerolo).
Il comandante, maggiore Domenico Citarella, mise subito in mostra la tempra del condottiero. Ritenne superfluo rispondere al saluto del podestà Marcuzzi e del parroco don Nicodemo Plet, che volevano omaggiarlo e mettersi a sua disposizione. Ordinò il coprifuoco2. E pretese che, anche di notte, porte e finestre delle case rimanessero spalancate. Divieto di accendere fuochi, candele, lumi, insomma, qualunque cosa che, facendo luce, si potesse vedere da lontano. Voleva evitare che la gente del posto comunicasse in quel modo con l’esercito austriaco che doveva trovarsi nei paraggi. Nel primo villaggio “liberato”, temeva agguati, tradimenti, spionaggio e imboscate.
Pioveva forte, e il torrente Torre si gonfiò al punto da straripare. Si trattava di un fenomeno assolutamente consueto, ma l’ufficiale aveva studiato la storia militare e si ricordò che, nel corso della seconda guerra d’Indipendenza, la marcia degli austriaci era stata rallentata allagando le risaie e trasformando il terreno in un pantano. La sua perspicacia lo portò a concludere che quelli lo stavano sabotando allo stesso modo. Perciò diede disposizione di radunare sulla piazza tutti gli uomini del posto. La maggior parte stava prestando servizio militare nell’esercito austro-ungarico e da un anno era impegnata a combattere sui vari fronti del conflitto mondiale. Dei restanti, ne vennero raccolti centocinquanta: alcuni erano ragazzini che non avevano ancora l’età per indossare la divisa e gli altri erano talmente avanti con gli anni da essere ormai fuori quota. Citarella pretese di trattenerli come ostaggi3 mentre i suoi uomini costruivano delle trincee per proteggersi. Intanto erano passati altri due giorni e stava arrivando la notte del 29 maggio.
I cittadini di Villesse furono dunque costretti a disporsi davanti ai soldati al lavoro, in modo da fare da barriera ai possibili – e presunti – assalitori austriaci. La terminologia della guerra moderna li indicherebbe come “scudi umani”.
Continuò a piovere, fra un borbottare di tuoni e lampi che qualcuno, aggredito dall’adrenalina, confuse con le detonazioni dei fucili al punto da rispondere al fuoco provocando un effetto domino in tutto il reparto. Scoppiò un pandemonio. E quando – a fatica – i soldati tornarono in sé, c’erano cinque ostaggi stecchiti4 a terra e una dozzina di feriti, alcuni anche gravemente.
La dinamica dell’incidente non venne mai chiarita nel dettaglio, anche perché le indagini si limitarono allo stretto necessario. Poiché non si trovarono proiettili austriaci, fin dall’inizio si dovette escludere la possibilità che si fosse trattato di un assalto nemico.
Il maggiore Citarella spostò i reparti sull’argine del Torre e in prima linea, davanti a tutti, restarono gli ostaggi. Compresi i feriti, che non poterono che peggiorare. Uno morì dissanguato in poche ore.
Indi il comando dispose di perquisire le case, che da giorni erano spalancate, e nell’abitazione del segretario comunale Portelli trovarono una carta geografica, un appunto con annotazioni che riguardavano il 72° reggimento bosniaco e 3.000 scellini. Il Portelli capofamiglia era rimasto ucciso nella sparatoria della notte e non aveva più niente da dire. Il figlio non ebbe difficoltà a spiegare che ogni mandriano teneva una mappa per segnare i pascoli da frequentare. L’appunto si riferiva a un rifornimento di farina effettuato dai soldati nel mulino del comune limitrofo di Sagrado dove lui lavorava come manovale. E gli scellini venivano dalla vendita di un manzo. Del resto, che denaro avrebbe dovuto possedere un cittadino austriaco in territorio austriaco?
Il maggiore non si lasciò ingannare. Quelle erano le prove dello spionaggio. Vestì, contemporaneamente, gli abiti del pubblico ministero (feroce), dell’avvocato difensore (compiacente), del giudice (monocratico) e del boia (inflessibile). Lo accompagnò al muro e comandò il plotone d’esecuzione5.
Sembrò che la furia non riuscisse più a placarsi. Attilio Frescura ne diede conto nel suo Diario di un imboscato: «Si fucilarono circa centocinquanta tra giovani e vecchi ma poi avvenne il peggio. I soldati accatastarono i mobili della gente agli incroci delle strade, li cosparsero di petrolio e accesero il fuoco. Le donne e i bambini, in preda al terrore, urlavano, chiedendo pietà. Qualcuno impazzì. La popolazione, atterrita, per molto tempo non uscì dalle case. Ancora oggi, non ha dimenticato e ci porta un sordo rancore»6.
A pochi chilometri di distanza fu “liberato” – nel senso che venne consegnato direttamente al Padreterno – anche un gruppo di “irredenti” di Lucinico.
Giovanni Vidoz, assessore del Comune, fu fucilato senza processo perché accusato di tenere in casa un’arma. Stessa sorte per due Bressan, un Francesco e un Michele, che però in paese erano piuttosto indicati come lo “Stefanut” e il “Mica Maloro”. Uno faceva la guardia campestre e l’altro era guardiacaccia. Sarebbe stata una stranezza se non avessero posseduto un fucile7.
Ammazzarono anche Antonio Bregant: per lui non ci fu nemmeno una parvenza di giudizio sommario. Scomparve e basta. La gente del posto raccontò che la vittima stava lavorando nella sua vigna, dietro casa e, a un certo punto, per asciugarsi il sudore, si cavò di tasca un fazzoletto. I soldati italiani si convinsero che quello sventolare di stoffa fosse un messaggio indirizzato agli austriaci. Non sentirono la necessità di verificare e diedero voce agli schioppi8.
Altri quattro furono graziati all’ultimo momento quando il prete già aveva impartito loro la benedizione per una buona morte.
Le accuse non mancarono di fantasia. La più strampalata riguardava Francesco Pillon, un giovane muratore, al quale chiedevano conto dei suoi trasferimenti a Olivers di Mossa, sei chilometri più avanti. Andava a trovare la fidanzata che abitava in quella cascina, ma per gli ufficiali erano trasferte sospette, perché da là si poteva vedere per intero la zona del Carso.
Non c’erano elementi che giustificassero tanta severità. Le vittime erano state segnalate (non si sa da chi) come «facinorosi alla causa italiana».
I giornali, evidentemente male informati dagli uffici del comando militare, pubblicarono la notizia dell’avvenuta esecuzione di tutti, anche di quelli che, all’ultimo momento, erano scampati alla fucilazione. Il «Secolo XIX», per esempio, enfatizzò la pericolosità di queste spie «pronte a scambiarsi intelligenze con il nemico in un paese ignominioso di gente infida».
«La Stampa», in una corrispondenza del 30 luglio 1915, informò: «Tutti i paesi che da Cormons conducono all’Isonzo e cioè Capriva, Mossa, Lucinico, soprattutto Lucinico, furono altrettanti covi di spie».
A Visco i soldati arrivarono all’ora del vespro, mentre il prete, battendo le campane, chiamava i fedeli alle orazioni della sera. Secondo i comandanti, invece, i rintocchi servivano per mettere in allerta gli austriaci, e così il sacerdote finì in carcere con un buon numero di capifamiglia9. E arrestarono i maggiorenti del paese di Ajello, perché non si fidavano della gente del posto.
In prigione finì anche don Giovanni Meizlik10, parroco di Aquileia, con quattrocento concittadini, a cominciare dai baroni Eugenio ed Ettore Ritter, Isidoro Dean, i fratelli Pasqualis e Gianni Miani. Non potevano trattenerli sotto sorveglianza in villaggi troppo vicini alle zone di combattimento, perciò li inviarono “in internamento” a Firenze, dove sarebbero stati liberati solo alla fine del conflitto mondiale. Don Meizlik, padre boemo e madre veneta di Roncade, venne assegnato alla parrocchia di Monfalcone, ma non gli risparmiarono un’ultima umiliazione. Lo obbligarono a italianizzare il suo cognome in “Mazzi”.
Nel campo di concentramento, i prigionieri si trovarono in sovrannumero. Mandarono anche 70.000 slavi.
«Si sono internati quasi tutti i sacerdoti e si è fatto benissimo.» Il documento del comando generale sembrerebbe ispirato da compiaciuta soddisfazione. Erano «nemici e austriacanti»11.
Gli ufficiali, prima di bere l’acqua che veniva loro offerta, pretendevano che qualcuno ne assaggiasse un sorso per assicurarsi di non finire avvelenati. Si presentarono ai capifamiglia con la bandiera tricolore perché la esponessero su loro ordine. E vietarono le canzoni in lingue diverse dall’italiano, anche se i risultati furono trascurabili. I giovani continuarono a fischiettare “maledetto katzelmacher” per schernire gli italiani «venditori di cucchiai»12.
Nel Comelico – primi giorni di guerra – i reparti dell’esercito italiano bombardarono il forte di Heideck. Inutilmente, perché era già stato sgomberato dagli austriaci. Nelle case di Sesto, invece, erano rimasti tutti. I proiettili centrarono la casa del sindaco “irredento”, la chiesa e la veranda dell’albergo “della Posta”. In attesa di essere definitivamente “liberati”, i cittadini che non morirono fra le macerie furono costretti ad abbandonare tutto per andarsene come randagi. E gli uomini del IV corpo d’armata, per frustrazione, incendiarono sei villaggi attorno al Monte Nero.
Gorizia, invece, era una delle città simbolo della guerra. Gli ordini – perentori – impedirono di cannoneggiarla. Al momento della sua “liberazione”, ci abitavano soltanto vecchi e bambini. Non più di 5.000 persone. Fra loro, 1.500 vennero imprigionate e internate perché i comandanti militari non se ne fidavano e temevano azioni di sabotaggio. Con il risultato che, chi rimase, fu considerato “traditore” dagli austriaci. I quali, dopo Caporetto, tornarono in quelle province e sfogarono la frustrazione della guerra sulle popolazioni civili. Resta ancora tutta da scrivere la storia delle donne violentate e dei bambini rifiutati perché frutto di quegli stupri13.
La popolazione slava di Clabuzzaro era ostile ai soldati italiani, che rubavano loro anche le castagne, unico modo per sfamarsi. E da Cortina a Livinallongo la gente coltivava sentimenti sinceramente austriaci. Non aveva motivo di ribellarsi all’impero. Ancora il 10 ottobre 1918, pochi giorni prima della conclusione della guerra, l’imperatore Carlo I, informandosi sulla condizione dei suoi popoli, a proposito di quelli di lingua italiana, si sentì rispondere che non ne volevano sapere dell’Italia. Il deputato Kraft di Merano era convinto che la popolazione del suo territorio fosse incrollabilmente tirolese «a meno di non essere diversamente costretta». Il Trentino era stabilmente tedesco e la minoranza ladina non desiderava unirsi all’Italia14.
Del resto, il Sud Tirolo è sempre stato relativamente “distante” dall’Italia di Roma. Hanno tirato bombe contro il tricolore e solo alla fine si sono lasciati convincere, al prezzo di un’autonomia “speciale” garantita dalla Costituzione.
Da questo punto di vista, il primo conflitto mondiale è davvero la quarta guerra del Risorgimento. Ne è la continuità in termini di ambizioni politiche e di noncuranza per chi quelle ambizioni doveva subire.
Nelle terre del Meridione, l’arrivo della “libertà” coincise con la spoliazione, l’offesa, la prepotenza e il saccheggio. Obbligarono a diventare sabaude popolazioni che non avevano nessuna intenzione di cambiare regime. E poiché, dopo i primi mesi di nuova amministrazione, cominciarono anche a dichiararlo, furono massacrate in nome di principi etici che, presi alla lettera, avrebbero dovuto indurre all’opposto.
Nemmeno dopo centocinquant’anni (abbondanti), i difensori della loro patri...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Maledetta guerra
  3. 1. Libertà per gli “irredenti” nelle braccia del Padreterno
  4. 2. Le follie della Belle Époque all’inseguimento della morte
  5. 3. Un complotto al quadrato per far fuori Francesco Ferdinando
  6. 4. L’Europa, di corsa, verso il fronte: «E se non partissi anch’io sarebbe una viltà»
  7. 5. “Cartina” e siringa all’hotel Turin per assassinare il generale Pollio
  8. 6. Prima delle cannonate sul Carso. Una guerra combattuta a colpi di milioni
  9. 7. «L’avanzata è quella cosa che si fa segnando il passo...»
  10. 8. Il combattimento dei “fissi” e dei “fessi”: gli imboscati in città e gli altri al fronte
  11. 9. Le trincee come gironi infernali dove era più facile morire che vivere
  12. 10. Ogni zolla nella terra del Carso trasudava lacrime e sangue
  13. 11. Il “generalissimo” Cadorna: quello zuccone arrogante
  14. 12. “Assalto frontale” comunque senza curarsi se i soldati muoiono
  15. 13. Un colpo d’ala sul Sabotino e il “Paolino” di Carzano
  16. 14. Plotone d’esecuzione fra Carso e Isonzo: «Qui, ieri, hanno ammazzato Cristo...»
  17. 15. L’impegno dei “succhionisti” ad arricchirsi: la segatura nel pane e i sacchi di carta
  18. 16. Caporetto: le informazioni correvano ma Cadorna non ci credeva...
  19. 17. «Fuggivano i napoleoni degli stati maggiori, gli organizzatori delle difese arretrate»
  20. 18. Sabotarono le trattative di pace per falsificare la vittoria
  21. Note
  22. Copyright