Chi è Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga secondo… Maradiaga?
Sono un figlio di don Bosco. Il mio primo incontro con lui è iniziato molto presto. Avevo sei anni quando mio padre mi portò nel collegio salesiano dove viveva il suo confessore. Rimasi colpito ed entusiasta nel vedere tanti bambini e giovani giocare in cortile.
Mio padre se ne accorse e mi disse: «Tu verrai a studiare qua». Per me, quello fu il regalo più grande che potessi ricevere. L’anno seguente ero già in prima elementare e il collegio divenne la mia seconda casa.
Non molto tempo fa, ho incontrato l’ambasciatore della Colombia presso la Santa Sede, il quale fu salesiano e studente di filosofia, poi abbandonò la Congregazione salesiana e andò in Germania a conseguire un dottorato in filosofia: insieme abbiamo parlato dello spirito di famiglia che si vive negli ambienti salesiani. E lui mi ha detto: «La casa salesiana era la nostra famiglia». Io e lui avevamo a casa i nostri genitori, sorelle, fratelli… però, per noi, la casa era la scuola salesiana.
C’era la musica, si giocava, c’erano i colori, c’erano le “Compagnie”, l’antica formula dell’associazionismo moderno. Mi sentivo veramente bene insieme agli amici, tanto che dovevano pregarci di tornare a casa nostra, perché non volevamo andarcene. Lo spirito di famiglia era una componente essenziale.
Il direttore salesiano che ebbi dalla mia quarta elementare fino al penultimo anno fu per me come don Bosco. In seguito divenne un arcivescovo. Un altro salesiano – un tedesco, un tipo forzuto a cui sarò per sempre riconoscente – fu colui che mi fece innamorare della chimica e della fisica, tant’è che anni dopo decisi di studiare entrambe le materie per poi insegnarle a mia volta agli studenti.
La veste rossa da cardinale non le ricorda forse quella da chierichetto?
È così. Quella che indossai per la prima volta a 8 anni era la divisa del “piccolo clero” con cui salivamo attorno all’altare. Per fare il chierichetto mi dovevo alzare alle 5 e, senza aver fatto colazione perché allora esisteva la norma del digiuno dalla mezzanotte, correvo in chiesa. Mi vestivo e servivo la messa in latino che, a dire il vero, allora non capivo granché. Recitavamo il rosario e ascoltavamo qualche lezione di catechismo. Poi di corsa a colazione e alle 7.30 ero in classe.
Qualche volta, il direttore della scuola, diventato poi mio arcivescovo, mi portava a servire la messa nella scuola delle suore. Noi ragazzi facevamo a gara per andarci, perché era l’unico modo per vedere le ragazze. Una volta, tornando a casa, mi chiese se mi sarebbe piaciuto diventare prete. Risposi subito «sì».
Ne parlai con mia mamma, che cominciò a piangere e a dirmi che ero ancora troppo piccolo per decidere, che non avevo abbastanza salute e che avrei dovuto chiedere il permesso a mio padre. Lui mi disse invece che ero troppo birichino per diventare sacerdote e che sicuramente mi avrebbero cacciato il giorno dopo che fossi entrato in seminario. E comunque, prima di decidere avrei dovuto finire il liceo.
Ci rimasi malissimo. Fu per me una vera delusione. Accantonai il mio sogno e pensai di diventare pilota come lo erano stati altri miei parenti. Mi piaceva volare e alimentavo quest’altra mia passione leggendo libri di aviazione, studiando l’inglese, la lingua dei piloti, disegnando aerei e trasformandoli in modellini.
Lei coltiva due “passioni” importanti: la scienza e la musica. Da dove arrivano?
La prima mi è stata instillata da un sacerdote salesiano, un vero genio. La seconda, invece, in famiglia. Mio papà, rientrando dal lavoro, metteva sempre su dischi musicali, mentre mia sorella maggiore era pianista. Anch’io cominciai a strimpellare qualcosa. Così mio padre mi iscrisse alla scuola di musica. Ho resistito solo due o tre mesi, perché non mi andava che il sabato pomeriggio, mentre i miei fratelli giocavano, io dovessi andare a solfeggiare. Per fortuna, arrivò in collegio un giovane salesiano spagnolo che suonava benissimo la fisarmonica. Avevo 14 anni e mi innamorai subito di quello strumento. L’anno seguente quel salesiano cambiò istituto e io continuai per conto mio.
Con la fine del liceo si presentò poi a suo padre, per riprendere il discorso lasciato aperto anni prima?
Eravamo verso la metà di gennaio del 1960. Mi presentai da mio padre e gli chiesi: «Ti ricordi la promessa che mi hai fatto a proposito del farmi prete?». Non ci fu bisogno di molte parole. Mi fece salire in macchina, con la valigia e la mia fisarmonica, e ci presentammo dai salesiani per entrare in noviziato. Scelsi loro perché desideravo tantissimo insegnare e diventare educatore. E i salesiani erano specialisti in questo.
Non c’era proprio nulla che non le piacesse dei salesiani?
Una cosa che mi colpì molto era il fatto che i sacerdoti venissero spostati da un paese all’altro, da una casa all’altra, senza che ci venissero date molte spiegazioni, anzi, quasi senza dircelo, finché non fosse cominciato il nuovo anno scolastico. Vedevo come i sacerdoti, i chierici, i fratelli coadiutori venivano trasferiti in altri Stati, e questo mi sembrava molto duro, addirittura crudele per noi che avevamo stretto amicizia con loro e avevamo imparato a stimarli. In seguito venni a sapere che era perché nella consacrazione avevano fatto un voto di obbedienza e che in base a questo principio dovevano sempre essere pronti a partire dovunque fosse necessario. A me sembrava pura follia dover lasciare la propria terra, la famiglia e andarsene lontano. Con il tempo compresi, e io stesso sperimentai nella mia vita salesiana l’essere sempre pronti a partire e obbedire.
Invece, che cosa l’affascinava di più del carisma salesiano?
L’allegria, la qualità della vita comunitaria in sé; soprattutto mi colpì che ci fossero salesiani di tante nazionalità e che tuttavia lavorassero uniti a un unico progetto, e che tutti seguissero don Bosco con amore.
La mia ispettoria, ovvero la regione salesiana a cui appartengo, è quella del Centroamerica ed è formata da confratelli di sei nazioni; a questa varietà straordinaria si aggregavano i confratelli missionari giunti dall’Austria, dalla Germania, dall’Italia, dall’Ungheria, dalla Spagna ecc., eppure eravamo tutti uniti nel lavoro e allegri nella vita comunitaria.
Quell’esuberanza di gioia ci faceva innamorare del Vangelo e dell’ideale salesiano. Trascorrevamo tutto il giorno all’interno della casa salesiana, al punto che dovevano staccarci e mandarci alle nostre case al tramonto e noi ce ne andavamo con molta tristezza e con il desiderio di tornare il giorno dopo.
Dopo gli studi di filosofia e teologia, riuscì a realizzare un altro suo sogno: insegnare…
Mi fu chiesto di insegnare teologia al mattino nello stesso istituto dove avevo studiato l’anno prima e, al pomeriggio, chimica in un liceo salesiano. Un bel giorno, però, mi chiamò il mio superiore (che noi salesiani chiamiamo “ispettore”) e mi propose di andare a studiare diritto canonico a Roma. Risposi: «No, per favore. Io non sono “quadrato” e lei mi vuole inquadrare». Discutemmo a lungo e alla fine mi accontentò mandandomi a studiare teologia morale.
Mi iscrissi dunque all’Accademia Alfonsiana di Roma. Un bel giorno, il professore di morale e psicologia, un padre redentorista austriaco, chiese a me e ad altri cinque studenti se ce la sentivamo di aggiungere anche lo studio di un’altra materia in contemporanea con la morale. Accettammo. Si trattava di un corso di psicologia clinica alla Sapienza, al sabato, e in estate continuavamo in Austria, a Innsbruck. Così, terminati gli studi di teologia morale, mi ritrovai anche con un diploma in psicologia clinica. Tornai in Guatemala con questi titoli e fui nominato direttore dello studentato filosofico, fin quando arrivò una telefonata dalla Nunziatura in cui mi dissero: «Il nunzio l’aspetta lunedì prossimo alle nove». Io avevo un problema con il cardinale del Guatemala: i suoi studenti diocesani venivano a frequentare il mio studentato e dovevano pagare una retta, ma lui non voleva, e allora, dopo quella chiamata dalla Nunziatura dissi al mio economo: «Per favore, forniscimi uno studio di tutte le spese per dimostrare al nunzio che abbiamo bisogno di questi soldi, perché immagino che il cardinale sia andato dal nunzio per crearci problemi…». Il povero economo trascorse il fine settimana tra i numeri.
Che cosa accadde, poi, quando andò in Nunziatura?
Arrivai quel lunedì in Nunziatura già predisposto alla battaglia, quando mi vide una suora che mi disse: «Lei è quel sacerdote che ha un appuntamento con monsignor Higuera?». Ah! Non era il nunzio del Guatemala, ma il nunzio dell’Honduras! “Che cosa succede?” mi chiedevo alquanto allarmato. Il nunzio finalmente entrò e mi disse: «Padre, l’ho ingannata». «No,» risposi «perché la suora mi ha appena detto che l’appuntamento è con lei.» Allora il nunzio mi sorrise: «Adesso capisce perché le suore non possono essere sacerdoti? Non sono capaci di mantenere un segreto!».
Dopo aver riso insieme, mi chiese un parere su un sacerdote dell’Honduras candidato a diventare vescovo. Pensai stupito: “Queste consultazioni si fanno per iscritto, che bisogno c’era di venire fin qui da un altro paese?”. Però feci il mio dovere. Confessai che quel sacerdote lo conoscevo poco, ma gli espressi quello che pensavo. Dopodiché, il nunzio mi disse: «E che ne pensa se il Santo Padre la chiamasse a servire in Honduras?». Io replicai prontamente: «Non credo che succeda, perché io sono preparato a lavorare nei seminari e noi salesiani non abbiamo seminari in Honduras». «No,» mi rispose il nunzio «non è per quello, ma come vescovo.» A quel punto vidi quasi la morte venirmi incontro. Avevo 35 anni, sarebbe stato un infanticidio. Riluttante risposi: «No, eccellenza, mi scusi. Questa non è la mia vocazione. La mia vocazione è essere salesiano. Può cercare un altro?». E il nunzio: «Lei deve rispondermi». E io: «Non posso. Devo pregarci su e consultare il mio confessore». Allora concluse: «Va bene; l’aspetto lunedì di Pasqua, a Tegucigalpa, con una risposta definitiva».
Fu una scelta sofferta? Insomma, era sempre stato in mezzo ai ragazzi…
Non passai una bella Quaresima. Per me era quasi una sentenza di morte. Ma pregai molto, e il giorno seguente mi consultai con il mio confessore, il mio direttore spirituale. Non sapevo come fare con il mio ispettore. Avrei dovuto dirgli: «Devo andare in Honduras, ma non posso dirle il motivo». Lui si mise a ridere. Ho capito dopo il perché: era già stato consultato con largo anticipo. Andai in Nunziatura convinto di rispondere di no, in tutta coscienza, dopo essermi consultato e dopo tanta preghiera. Nell’ufficio del nunzio non feci in tempo ad aprire la bocca che lui mi anticipò: «Prima di rispondermi, legga questa lettera». Era di Paolo VI, il quale mi chiedeva di accettare per il bene della Chiesa dell’Honduras. A quel punto che cosa avrei potuto ancora replicare? Mi sono ricordato di don Bosco che diceva: «Un desiderio del Papa è un ordine per un salesiano». In spagnolo si dice Fui por lana y volví trasquilado, «Sono andato a tosare la lana e ne sono uscito tosato». Così divenni vescovo senza volerlo, senza sapere nulla o avere una preparazione pastorale. Però fui anche ribelle, perché avevo obiettato al nunzio: «Sono a metà anno scolastico. Come faccio? Non c’è nessuno che venga a sostituirmi. Per favore, riprendiamo questo discorso a ottobre». Fu l’unica concessione che mi venne fatta.
Più avanti, il 6 agosto, eravamo in riunione nel consiglio ispettoriale della nostra regione salesiana, a San Salvador, quando giunse la notizia che Paolo VI era morto. Mamma mia! Ricordo che pensai: “Dio mio, lasciami libero”. Venne poi eletto Giovanni Paolo I, il quale confermò la mia nomina, e un mese dopo morì. Feci la seconda preghiera: “Signore, ti prego… lasciami perdere”, ma non fu ascoltata. Il 22 ottobre 1978 salì al soglio di Pietro Giovanni Paolo II, e sei giorni dopo fui nominato vescovo. La mia è stata una tra le sue primissime nomine. Il rapporto che mi lega a lui è molto profondo.
È stato facile, per lei, obbedire alle numerose richieste dei suoi superiori?
Finito il liceo, i miei superiori salesiani mi mandarono in aspirantato per cinque mesi perché desideravo diventare salesiano anche io. E lì, in aspirantato, studiavo il latino, il greco.
Al quinto mese venne il mio superiore a dirmi: «Qua tu perdi tempo. Ti manderò in noviziato». E così, una sera, il superiore diede l’annuncio che sarei passato al noviziato. Tutti gli altri aspiranti erano tristi: «Perderai la vocazione…» mi disse qualcuno, ma il superiore sbottò deciso che sarei andato in noviziato. Tutti ridevano. Feci il noviziato con altri compagni.
Nel 1961 – anno in cui presi i voti definitivi – andai all’università dedicandomi agli studi filosofici. Al primo anno di filosofia, quasi tutte le materie erano dell’ultimo anno di scuola secondaria, dunque io facevo filosofia, continuavo a studiare il latino e il greco, e così chiusi il primo anno di filosofia in quattro mesi. Al secondo anno di filosofia passai a pedagogia, magistero…, e dopo il secondo anno il superiore mi comunicò che avrei fatto il tirocinio, mandandomi a insegnare ai piccoli dell’aspirantato di quinta e sesta elementare. Dovevo anche fare il direttore del coro e dell’orchestra, più diverse altre mansioni. Fu un anno prezioso.
Stavo preparando un’operetta per quel Natale, quando venne il superiore e mi prese a braccetto. Sapevamo che quando il superiore prendeva un confratello a braccetto doveva imporgli una nuova obbedienza. «Come stai?» mi chiese, e io: «Felice! Sto preparando un’operetta per Natale». E lui: «Domani dovrai andare a Sant’Anna come professore di chimica e di musica». Preparai la valigia e il giorno dopo ero a Sant’Anna.
Quell’obbedienza mi costò molto. Lì trascorsi due anni di tirocinio altrettanto preziosi, al punto che non volevo andare a teologia per non lasciare quell’esperienza. Una volta esauriti gli studi, già ordinato prete – perché noi avevamo le ordinazioni a giugno mentre l’anno accademico terminava a ottobre (questa era una prassi bellissima, ora non c’è più: infatti è meglio essere ordinati durante l’ultimo anno di studi, così uno durante il secondo semestre, già ordinato prete, può ancora consultare i superiori del teologato per qualsiasi cosa) – chiesi al mio superiore: «E adesso?», e lui mi disse: «Va’ un po’ a casa, in vacanza, poi ti dirò». Così sono andato in vacanza e un giorno mi arriva una telefonata dal superiore: «Óscar, sei pronto?». E io: «Sì, certo…». «Vai al teologato come catechista.» «Ma lei è pazzo,» ho risposto io «fino all’anno scorso ero loro compagno, e adesso vi ritorno come loro superiore? Questo non mi piace.» E il superiore: «Tu vai!». Va bene. Obbedienza.
Sono rimasto là due anni, insegnando anche ecclesiologia, chimica al pomeriggio, e alla sera ecclesiologia all’Istituto delle suore. Sabato e domenica ero in oratorio. Ero tanto felice.
Dopo gli studi di teologia morale lasciai Sant’Anna e tornai come incaricato degli studi del teologato e dopo quattro mesi venne il nuovo superiore che mi disse: «Domani andrai come nuovo direttore al filosofato». Com’è possibile? Avevo solo trent’anni. Come avrei fatto? Ho obbedito. Fu la penultima obbedienza perché l’ultima non fu verso la Congregazione salesiana ma verso il Papa stesso, accettando di diventare vescovo ausiliare di Tegucigalpa.
Torniamo alla sua ordinazione episcopale. Fu ordinato in un giorno speciale… come ha imparato a essere vescovo?
Era l’8 dicembre, una data che avevo scelto io perché è la data di nascita della Congregazione salesiana e la festa di Maria. A consacrarmi furono il nunzio apostolico, monsignor Gabriel Montalvo Higuera, il mio amico arcivescovo Héctor Enrique Santos Hernández, e un altro arcivescovo salesiano che sarebbe divenuto poi il cardinale Miguel Obando Brando di Nicaragua e che fu mio direttore durante gli anni di tirocinio pratico. Vengo, così, da una stirpe salesiana.
Due mesi dopo la mia ordinazione episcopale, c’era la Conferenza di Puebla; i vescovi dell’Honduras, a quel tempo, erano quattro. Due di loro andarono alla Conferenza, mentre io rimasi in diocesi imparando a fare il vescovo. Un mese dopo c’era un invito a un corso per sacerdoti (140 preti!) per studiare il Documento di Puebla, e io chiesi all’arcivescovo: «Chi andrà dell’Honduras?». «Nessuno» mi rispose. Questo non era accettabile, mi dissi, perché la Conferenza di Puebla rappresentò una svolta nella pastorale dell’America Latina, così chiesi di andarci io a quel corso: l’arcivescovo me lo concesse. Constatai che a quel corso eravamo solo tre vescovi, tutti gli altri erano sacerdoti; con me avevo portato due sacerdoti e due laici. Furo...