L'arte di avere coraggio
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L'arte di avere coraggio

  1. 228 pagine
  2. Italian
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L'arte di avere coraggio

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"Il coraggio, uno non se lo può dare!" protestava il don Abbondio dei Promessi Sposi. Francesco Alberoni rovescia questa famosa massima rivendicando l'urgenza di un valore dimenticato e sostenendo che "il coraggio si può imparare".
Audacia e timore sono legati a doppio filo. Chi non ha paura non sarà mai capace di atti di eroismo. Proprio per questo l'ardimento non va confuso con l'inconsapevolezza o l'incoscienza.
La riflessione di Alberoni si concentra su una "virtù morale e sociale" che investe tutti gli aspetti dell'esistenza: amore, amicizia, lavoro, famiglia. E quel "coraggio quotidiano" che ci permette di plasmare il nostro destino è forza d'animo, rifiuto delle ipocrisie proprie e altrui, gesto che sovverte un sistema ingiusto, ricerca di ciò che innalza.
La mediocrità, l'indifferenza e la vigliaccheria sono facili: basta lasciarsi andare, nascondersi e adagiarsi nella propria nicchia. C'è invece un gran bisogno di opporsi alla cultura della comodità, del disfattismo e della codardia.
Partendo dal presupposto che ogni essere umano ha una missione da scoprire e da compiere nell'arco di una vita, il coraggio va esercitato per essere fedeli a se stessi, per non farsi confondere dalla complessità del reale e, a volte, per superare se stessi.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858515204
PARTE TERZA

LE VIRTÙ DELL’AZIONE

Il coraggio non è un atto isolato, un impulso momentaneo. È un’azione completa e complessa, che deve essere perseguita fino al suo obiettivo finale. Gli sforzi maggiori non sono quelli dell’inizio, ma quelli necessari in seguito per resistere alle nostre debolezze e agli ostacoli imprevisti, che dobbiamo affrontare con pazienza e sagacia. Il coraggio non è solo la virtù del cominciamento, ma anche quella del proseguimento, del completamento e della lungimiranza
1

VIGILANZA

Molte persone, quando raggiungono una posizione di potere, pensano di essere amate da coloro che le circondano. Il sindaco appena eletto pensa: “Se mi hanno eletto vuol dire che mi apprezzano, che hanno fiducia in me”. L’amministratore delegato si compiace dell’applauso che lo accoglie alla prima assemblea e della sollecitudine con cui si mettono a sua disposizione tutti i dirigenti. Eppure basterebbe un attimo di riflessione: “Se al mio posto fosse stato eletto o nominato un altro, costoro si comporterebbero diversamente? No. Quindi non è me che omaggiano, ma la mia carica”.
Ricordo che quando sono stato nominato nel consiglio di amministrazione della Rai tutti erano gentili, ossequiosi con me ed era molto difficile restare diffidenti e sulla difensiva. A un certo punto mi sono accorto che due persone, formalmente molto corrette, mi avevano ingannato. Quando sono stato nominato rettore dell’Università di Trento c’era stata la rivoluzione degli studenti, il rettore si era dimesso e non ci voleva andare nessuno. Perciò non mi sono fatto illusioni, sono andato con la mente aperta, con dei programmi nuovi e gli studenti, che prima mi disegnavano una svastica sulla macchina, si sono convinti e abbiamo fatto insieme un bellissimo anno scolastico. Ma la cosa è stata possibile perché erano giovani, pieni di speranza e di ideali, e la mia sincerità e la mia buona fede li hanno convinti. Quando invece sono stato nominato presidente del Centro sperimentale di cinematografia, che andava a rotoli, ho trovato persone ostili per motivi ideologici e che, nonostante avessi risanato le finanze, costruito nuove sedi, edificato un grande edificio, preparato nuovi programmi, mi avevano accettato solo perché ne avevano un vantaggio; ma non hanno mai avuto per me una parola di elogio.
Le cose sono un po’ diverse nei movimenti politici, perché il capo carismatico appare come un essere superiore, e molti lo amano sinceramente. Ma anche nel gruppo di seguaci che collaborano quotidianamente con lui è sempre in atto una lotta per emergere, e ci sono sempre persone che lo invidiano e altre che cercano di prendere il suo posto. Noi ci identifichiamo con chi consideriamo migliore, più forte, più potente, più abile e vogliamo essere come lui. Se lo amiamo, lo ammiriamo, lo consideriamo un capo, ma se invece ci convinciamo di valere quanto o più di lui, allora veniamo divorati dall’invidia. Quasi tutti i senatori che vivevano accanto a Cesare credevano di essere come Cesare, meglio di Cesare. E per questo che Bruto, Cassio e gli altri congiurati lo hanno ucciso. Napoleone diceva che tutti i suoi marescialli erano convinti di saper fare meglio di lui. Però solo Bernadotte l’ha tradito. Quelli che lo amavano veramente gli sono rimasti a fianco nell’ultima battaglia. Alcuni, come Ney, fino alla morte.
Nelle imprese private il capo ha la possibilità di sostituire i suoi collaboratori e, quindi, di sbarazzarsi di quelli che lo ostacolano apertamente o che intrigano per danneggiarlo. In politica e nelle imprese pubbliche, invece, non sempre il capo ha questa possibilità. Soprattutto quando si tratta di alleati in una coalizione. Egli perciò è costretto a lavorare con persone ostili, invidiose e spesso abituate a fare i propri affari indisturbate. Perfino Napoleone ha dovuto utilizzare persone come Talleyrand e Fouché, che considerava traditrici e infide. Per creare da questo materiale umano un gruppo capace di lavorare assieme, con una meta, con un ideale, il capo deve avere una fede grandissima e una energia smisurata e deve riuscire anche a trovare qualcuno che condivide le sue stesse mete e che è disposto a battersi con entusiasmo al suo fianco. Poi deve neutralizzare le invidie, gli ostacoli, le ripicche che sorgono continuamente. Lasciando che Tizio o Caio possano ricavarne anche un vantaggio personale.
Egli ha perciò sempre una duplice funzione. Pedagogica in quanto indica la meta e i valori, demagogica in quanto fa appello agli interessi personali. E questo comporta sempre anche un certo grado di ipocrisia. Per esempio deve far finta di non capire che quello che si dichiara suo amico, in realtà, lo invidia a morte. E deve collaborare con persone che passano il loro tempo a tessergli contro intrighi e trabocchetti.
È questo il motivo per cui le persone che hanno delle alte responsabilità sono spesso amareggiate. Capita all’insegnante osteggiato dal suo preside, dai suoi colleghi e dalla sua classe, al dirigente ostacolato dai superiori e dai dipendenti. Al capo politico che ha portato alla vittoria il suo partito e la sua coalizione perché i suoi alleati cominciano subito a intrigare.
C’è un’amara verità che tutti dobbiamo ricordare. Qualsiasi impresa, anche la più nobile, anche la più utile, anche la più disinteressata, suscita sempre invidie, rancori, ostilità, odio. Chi si getta nell’azione deve perciò prepararsi a combattere contro i nemici più imprevedibili e più subdoli. E deve essere pronto anche ad allontanare i suoi amici quando si accorge che, nonostante tutti i suoi sforzi, nonostante tutta la sua pazienza, gli sono contro, lo ostacolano, lo danneggiano. Nello stesso tempo, però, se non vuole cedere all’amarezza e al cinismo, deve coltivare in se stesso una fede ardente, di un entusiasmo inestinguibile. Anche a costo di apparire, talvolta, un donchisciotte sognatore. L’entusiasmo e la fede, infatti, sono le uniche armi capaci di resistere alla delusione, al disinganno, alla derisione e al tradimento.
2

PREPARARSI AL PEGGIO

Ogni volta che diamo inizio a una nuova impresa imbocchiamo una strada piena di insidie. Possiamo prepararci accuratamente, prevedere tutte le alternative, ma non potremo mai evitare di imbatterci in ostacoli imprevisti, nemici inattesi, tradimenti e sconosciuti soccorritori.
Per riuscire, per raggiungere la meta, occorrono diverse qualità e virtù. La prima, forse la più importante, è la determinazione, la fermezza dei propositi, la forza d’animo. I nostri sentimenti sono labili, il nostro umore cambia con facilità. Una mattina ci svegliamo allegri, un’altra incerti. Un successo ci rende euforici, un contrattempo depressi. La persona d’azione deve essere capace di controllare tutti questi dubbi, queste oscillazioni. Non lasciarsi mai, assolutamente mai, prendere dallo scoramento. Deve immaginare tutte le possibili difficoltà, magari esagerandole. Ma poi fare con se stessa il patto di non cedere alla paura e di concentrarsi solo sul modo di superarle.
Ho già detto prima che per fare l’imprenditore, per realizzare grandi progetti e perfino per affrontare i problemi della nostra vita quotidiana occorre essere ottimisti. Ma, nello stesso tempo, bisogna sempre prevedere anche il peggio. Cioè: avere chiaramente davanti la meta positiva, però tenere anche sempre presente che può andare male. Quando incomincia una malattia molte persone non vogliono pensarci, non vogliono lasciare le loro occupazioni quotidiane e si fermano solo quando la febbre è alta, quando non riescono più a stare in piedi e finiscono al pronto soccorso. Ma a questo punto la malattia è già troppo progredita. Meglio rendersi conto all’inizio che non si sta bene, riposare un po’, sentire il parere di un medico, eventualmente fare degli esami.
L’ottimista che prevede sempre anche il peggio è già pronto a incontrare difficoltà, insuccessi, tradimenti. Saprà reagire in modo fulmineo. Il suo ottimismo non nasce da una visione ingenua, rosea, del futuro, ma dal convincimento interiore di essere nel giusto, dalla forza che sente dentro di sé, dal coraggio con cui affronta l’impresa. Sbaglia chi fa fantasie megalomani o spera nell’arrivo di un miracoloso socio o di un miracoloso soccorritore. Deve contare essenzialmente su se stesso, sulla sua capacità di convincere, di farsi degli alleati, e mai sulla loro generosità e sulla loro bontà spontanea. Quando ho costruito lo IULM ho avuto un grandissimo aiuto da un imprenditore e da alcuni politici, ma sono stato io a cercarli, a convincerli che si trattava di una cosa utile per Milano. Se mi fossi limitato ad aspettare che fossero loro a farsi avanti non avrei combinato nulla.
Bisogna tenere sempre presente che l’impresa non è mai un fatto individuale, ma collettivo. Nell’esempio fatto prima ho cercato di coinvolgere imprenditori e politici chiedendo loro di aiutarmi a realizzare un’opera non per me, ma per la città, per gli studenti.
Inoltre ricordiamo che noi siamo inseriti in una rete di interessi, di rapporti di lavoro, professionali, famigliari, di amicizia. Quando mettiamo in moto qualcosa di nuovo modifichiamo l’ambiente, cambiamo la vita di altre persone. Possiamo generare in loro tanto nuove aspettative quanto nuove ansie. La gente teme le novità, teme l’ignoto. Quindi accanto a chi è contento, addirittura entusiasta, c’è chi ha paura e vede tutto nero. La persona d’azione deve sapere che ci sono questi dubbi, queste paure, e deve far fronte al disfattismo di chi lo circonda e di coloro a cui si rivolge per un aiuto e una collaborazione. C’è sempre qualcuno che lo consiglia, per il suo bene, di rinunciare, di rimandare. Egli dovrà difendersi non solo dai nemici reali, ma anche dagli amici titubanti. E poiché ha bisogno di loro, deve esaminare le loro obiezioni, dimostrare col freddo ragionamento che sono infondate e poi rassicurarli, rincuorarli, promettere loro dei vantaggi pratici e, alla fine, cercare di trascinarli con la sua carica vitale. La persona d’azione se vuol riuscire deve essere sempre un leader.
Dobbiamo infine ricordare l’importanza della duttilità, della flessibilità. Quello che conta è tener ferma la meta generale, i valori di fondo. Ma i mezzi da usare e la strada da seguire devono essere prontamente cambiati man mano che si conosce la realtà. Se i costi sono troppo alti, si riducono le spese. Se ci sono ostacoli legali, si modificano le formule. Se non si può fare da soli, si cercano dei soci, degli alleati. Se non si possono raggiungere tutti gli obiettivi, si cercano altre opportunità. Occorre anche flessibilità con i collaboratori. Non tutti quelli che partecipano alla creazione di un’impresa sono adatti a raggiungere la meta. La persona d’azione deve essere pronta a lasciarli e a utilizzare collaboratori nuovi, incontrati lungo il cammino.
3

I COLLABORATORI

La persona d’azione deve scoprire le vere capacità, le vere potenzialità di coloro con cui collabora, le loro virtù, i loro difetti, i loro limiti. Deve intuire se quel tale è intelligente o solo brillante, se quell’altro è geniale o è un fanfarone. Deve capire chi è un grande lavoratore onesto, fedele, leale e chi, invece, è solo un abile mistificatore nel farsi sempre trovare presente. E deve avere il coraggio di scegliere le persone di cui si può fidare, quelle che non scappano e non tradiscono nei momenti del pericolo e della sventura. E per ottenere questo risultato deve guardare i fatti, soprattutto ricordare i fatti, non ascoltare le parole. Molti si lasciano incantare dalle apparenze, dalle belle parole, e finiscono così per circondarsi di avventurieri spregiudicati, di pasticcioni presuntuosi e di avidi profittatori. In politica soprattutto c’è una corsa per salire sul carro del vincitore (comportamento che gli americani chiamano bandwagon) e spesso coloro che corrono per primi sono anche i più disonesti, i voltagabbana pronti a tradire per pochi soldi. È questo il motivo per cui il vero leader finisce per tenere accanto a sé quelli che considera amici sicuri, o perlomeno le persone che conosce meglio e di cui conosce anche i difetti.
Ci sono alcuni che scelgono sempre degli ottimi collaboratori e si circondano di amici sinceri e generosi. Spesso scelgono altrettanto bene il marito o la moglie. Altri, invece, scelgono male gli uni e gli altri. Così si ritrovano sempre con dei collaboratori pigri, avidi, che creano loro problemi anziché risolverli. Hanno amici che fanno fare loro cattiva figura e di cui non si possono fidare, e sposano una persona non adatta. Non è questione di intelligenza pura, astratta. Ci sono dei geni nel campo dell’arte e della scienza che, quanto a rapporti umani, sono una rovina. Le persone che sanno scegliere posseggono un tipo particolare di intelligenza che possiamo chiamare sociale ed emotiva. Una particolare abilità nell’osservare gli esseri umani e la capacità di scartare quelli che non vanno bene con lucidità e sicurezza.
Più volte ho scritto che tutti noi abbiamo la capacità di percepire i sentimenti e gli atteggiamenti degli altri. Lo dimostra il fatto che, spesso, la prima impressione è quella giusta. Perché, quando non sappiamo nulla di una persona, siamo come una macchina fotografica che registra obiettivamente il suo comportamento. Nei momenti successivi, invece, l’altro ha avuto il tempo di cogliere i nostri desideri e i nostri punti deboli, e ci fa vedere solo ciò che desideriamo vedere. Mentre noi, frequentandolo, ci abituiamo ai suoi difetti e troviamo il modo di scusarli. La ragione può dimostrare e giustificare qualsiasi cosa.
Le persone che sanno scegliere fanno tesoro delle prime impressioni e le ricordano. Se quel tale, durante il primo incontro, è dubbioso, pessimista, elogia il passato e disprezza il presente vuol dire che non ha voglia di fare e creerà solo ostacoli. Se dà la mano in modo sfuggente, è incerto o infido. Se è euforico, cordiale, ma parla solo di se stesso, è un ambizioso. Se siede sulla punta della seggiola o della poltrona è un timido, se ti sommerge con un uragano di parole è uno che vuole imporsi. Sono impressioni che lui ci trasmette perché non sa come siamo e non ha ancora potuto prepararsi. Negli incontri successivi invece sa qualcosa di noi, si mette in scena per piacerci, e questo avverrà in misura ancora maggiore in seguito. È molto importante ricordare le sue prime reazioni, quando non si era preparato, e che impressione ne abbiamo avuto.
Le persone che scelgono male, invece, non si fidano dell’intuito. Ascoltano quello che l’altro dice di sé, si fanno condurre da lui. Lo seguono mentre parla della sua vita, delle sue capacità, delle sue realizzazioni, dei suoi progetti, delle sue sofferenze. Partecipano dei suoi problemi, si mettono dalla sua parte senza criticare, senza giudicare. A volte lo fanno perché sono generosi, altre volte perché sono ingenui, altre volte ancora perché vogliono apparire magnanimi. In tutti i casi non osservano con cura l’interlocutore e non guardano dentro se stessi.
Altri invece si fanno influenzare da una terza persona. A me è capitato più volte di seguire i consigli insistenti di una persona che aveva come programma di collocare la gente del suo partito politico nelle posizioni chiave. E in questo modo è riuscito a circondarmi di nemici che avrebbero agito nel momento in cui io fossi stato debole. Io sospettavo di questo personaggio, però non ho mai capito che aveva un piano preciso, non ho mai avuto il coraggio di allontanarlo.
C’è anche chi sbaglia perché ha bisogno di sentirsi amato. Desidera che tutti quelli con cui è in contatto siano d’accordo, amichevoli, ossequienti. Questa persona, fra una che si dice d’accordo e una che si dice in disaccordo, prova una immediata simpatia per la prima. Non vorrebbe avere nemici e, quando qualcuno la ostacola o la critica, ci resta male. Si difende evitando di avere rapporto con tutti quelli che non gli vogliono bene, che non l’ammirano e così finisce per circondarsi di persone che la pensano come lui o che gli danno sempre ragione. Avrà perciò solo pochissimi amici sinceri e fedeli che conoscendolo non ne approfittano, ma molti adulatori che lo faranno sbagliare.
Altri, invece, fanno errori perché vogliono dimostrare a se stessi di non avere pregiudizi. Quando incontrano una persona aggressiva, che li tratta male, ci tengono a dimostrarle che sono comprensivi, tolleranti. E, così, si portano a casa un violento. Volendo arrivare a una conclusione sintetica, possiamo dire che il difetto comune a tutti coloro che scelgono male è la vanità, mentre la virtù comune a tutti coloro che scelgono bene è la vigilanza.
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ADDITARE IL FINE

La realizzazione di una intrapresa dipende sempre dall’apporto e dal consenso di molte persone. E spesso fallisce perché queste non convergono nel realizzare la meta, ma si dividono non solo sulla strada da seguire, ma, soprattutto, sulla meta stessa da raggiungere. Ricordo molto bene il caso dei due fratelli Gianni e Pietro Barilla. Gianni era un grande tecnico, un ottimo amministratore, un abile finanziere. Pietro si occupava più dell’immagine, delle vendite e della pubblicità. Nel 1968-69 ci furono le agitazioni degli studenti e degli operai nel cosiddetto autunno caldo. Gianni temeva i sindacati e temeva che i comunisti potessero andare al governo. L’azienda si era anche molto esposta per gli investimenti fatti nel grande stabilimento della pasta di Pedrignano. Secondo lui era perciò il momenti di vendere. Pietro non era d’accordo, lui amava l’azienda, amava Parma e venderla gli sembrava un tradimento. Ma Pietro era in difficoltà e dovette cedere alle richieste del fratello. Gli anni successivi furono per lui una tortura, gli mancava la sua impresa, i suoi operai, si sentiva in colpa, si vergognava di girare per Parma e così decise di ricomprarla. Cosa che gli è riuscita nel 1979, e le ha impresso un vertiginoso sviluppo.
Anche all’interno delle organizzazioni sorgono molte divergenze. E, quando ciò accade, l’organizzazione diventa rigida, burocratica, inefficiente. Ogni singolo ufficio si preoccupa di aumentare il suo raggio d’azione, ogni singolo f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ARTE DI AVERE CORAGGIO
  4. Introduzione
  5. PARTE PRIMA. LA BATTAGLIA
  6. PARTE SECONDA. LA FORZA D’ANIMO
  7. PARTE TERZA. LE VIRTÙ DELL’AZIONE
  8. PARTE QUARTA. NOI STESSI
  9. PARTE QUINTA. POLARITÀ
  10. PARTE SESTA. FORME DI ESISTENZA SBAGLIATA
  11. PARTE SETTIMA. DUBBI MORALI
  12. PARTE OTTAVA. GUARDARE PIÙ IN ALTO
  13. Copyright