La ragazza con la bicicletta rossa
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La ragazza con la bicicletta rossa

  1. 300 pagine
  2. Italian
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La ragazza con la bicicletta rossa

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Informazioni sul libro

Non riuscirete a dimenticare questa ragazzina e la sua bicicletta rossa. È l'inverno del 1943 ad Amsterdam. Mentre i cieli europei sono sempre più offuscati dal fumo delle bombe, Hanneke percorre ogni giorno, con la sua vecchia bicicletta rossa, le strade della città occupata. Ma non lo fa per gioco, come ci si aspetterebbe da una ragazzina della sua età.
Hanneke è una "trovatrice", incaricata di scovare al mercato nero beni ormai introvabili: caffè, tavolette di cioccolato, calze di nylon, piccoli pezzetti di felicità perduta. Li consegna porta a porta, e lo fa per soldi, solo per quello: non c'è tempo per essere buoni in un mondo ormai svuotato di ogni cosa. Perché Hanneke, in questa guerra, ha perso tutto. Ha perso Bas, il ragazzo che le ha dato il primo bacio, e ha perso i propri sogni. O almeno così crede. Finché un giorno una delle sue clienti, la signora Janssen, la supplica di aiutarla, e questa volta non si tratta di candele o zucchero. Si tratta di ritrovare qualcuno: la piccola Mirjam, una ragazzina ebrea che l'anziana signora nascondeva in casa sua¿ Hanneke, contro ogni buon senso, decide di cercarla. E di ritrovare, con Mirjam, quella parte di sé che stava quasi per lasciar andare, la parte di sé in grado di sperare, di sognare, e di vivere.
Un romanzo di lancinante bellezza, che ricorda classici del genere come Storia di una ladra di libri e Il bambino con il pigiama a righe, e racconta la città di Anna Frank e la forza di chi, come Hanneke, ha cercato di sconfiggere l'orrore con il più piccolo, e grande, dei gesti.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858514771

1

Martedì

«Hallo, dolcezza. Che cos’hai lì? Qualcosa per me?»
Mi fermo perché il soldato è giovane e carino, perché la sua voce è ammiccante e perché scommetto che mi farebbe ridere se andassimo al cinema insieme un pomeriggio.
È una bugia.
Mi fermo perché il soldato può essere un buon contatto, perché potrebbe procurarci le cose che non riusciamo più a trovare, perché probabilmente nel suo armadio ci sono file di barrette di cioccolato e di calze che non hanno un buco nell’alluce.
Ma nemmeno questa è la verità.
È solo che a volte scelgo di ignorarla, la verità, perché è più facile fingere che sto prendendo una decisione per un motivo razionale. È più facile fingere di avere un’alternativa.
Mi fermo perché la divisa del soldato è verde. È questa l’unica ragione. Perché la sua divisa è verde e io so di non avere alternativa.
«Sono parecchi pacchi per una ragazza così carina.»
Parla olandese con un leggero accento, ma lo parla bene e questo mi sorprende. Alcuni nella Polizia d’ordine non lo sanno per niente e sono infastiditi dal fatto che noi non capiamo il tedesco, come se avessimo dovuto prepararci tutta la vita al giorno in cui avrebbero invaso il nostro paese.
Fermo la bicicletta ma non scendo. «È esattamente la giusta quantità di pacchi, direi.»
«Che cosa c’è dentro?» Si china sul manubrio e passa pigramente in rassegna con la mano il contenuto del cestino.
«Vuoi davvero vedere? Vuoi davvero aprire tutti i miei pacchetti?» Rido e abbasso le ciglia, perché non veda quanto è studiata la battuta. Così ferma con un piede sul pedale, il vestito è salito un po’ sopra il ginocchio, e il soldato se ne accorge. È blu, un po’ troppo stretto e con l’orlo sfilacciato, risale a molti anni prima della guerra. Sposto il peso in modo che l’orlo salga ancora un po’, a metà della coscia coperta di pelle d’oca.
Questo siparietto sarebbe più sgradevole se lui fosse vecchio, se avesse le rughe, i denti gialli e la pancia cadente. Sarebbe più sgradevole, ma io farei la smorfiosa lo stesso. L’ho fatto decine di volte.
Lui si china in avanti. L’Herengracht alle sue spalle è torbido e puzza di pesce; potrei spingerlo nel canale e coprire la distanza che mi separa da casa sulla mia sgangherata bicicletta rossa di seconda mano prima che lui riesca a uscirne. È un gioco che vorrei fare con tutti i poliziotti d’ordine che mi fermano. Come faccio a fartela pagare e quanto potrò arrivare lontano prima che tu riesca a prendermi?
«Questo è un libro per mia madre» dico indicando il primo pacchetto avvolto nella carta. «E lì ci sono le patate per la nostra cena. E questo è un maglione che ho fatto rammendare.»
«Hoe heet je?» domanda. Vuole sapere come mi chiamo, e me lo sta chiedendo in modo informale, disinvolto, come farebbe un ragazzo sicuro di sé a una festa con una ragazza con i denti in fuori, e questa è una buona notizia perché preferisco che si interessi a me piuttosto che ai pacchetti nel mio cestino.
«Hanneke Bakker.» Vorrei mentire, ma non servirebbe a nulla ora che tutti dobbiamo portare con noi i documenti d’identità. «E tu invece come ti chiami, soldato?»
Gonfia il petto quando lo chiamo “soldato”. I più giovani sono ancora innamorati delle loro divise. Quando si muove, vedo un bagliore dorato intorno al collo. «E che cosa c’è in quel medaglione?» domando.
Il suo sorriso vacilla e la mano scatta al ciondolo che spunta dal colletto. È un cuore color oro che probabilmente custodisce la foto di una ragazza tedesca con il faccino a forma di mela che ha promesso di restargli fedele laggiù a casa, a Berlino. Corro un rischio chiedendoglielo, ma se ho ragione ne sarà valsa la pena.
«È una foto di tua madre? Deve volerti davvero molto bene per darti una catenina così bella.»
Arrossisce mentre la nasconde sotto il colletto inamidato.
«È di tua sorella?» insisto. «Del tuo cagnolino?» È un equilibrio delicato, devo mostrarmi ingenua al punto giusto. Le mie parole devono suonare abbastanza innocenti da non suscitare la sua ira, ma anche taglienti al punto che lui abbia voglia di liberarsi di me invece di continuare a interrogarmi su quello che trasporto. «Non ti ho mai visto prima» dico. «Sei sempre di pattuglia in questa strada?»
«Non ho tempo da perdere con le ragazze sciocche come te. Vai a casa, Hanneke.»
Mentre mi allontano pedalando, il manubrio trema impercettibilmente. Gli ho quasi detto la verità sui pacchetti. I primi tre contengono un libro, un maglione e delle patate. Ma sotto le patate ci sono quattro salsicce, pagate con la razione di un uomo morto, e sotto ancora rossetti e lozioni, comprati con la razione di un altro uomo morto, e sotto ancora sigarette e alcol, comprati con il denaro che il signor Kreuk, il mio capo, mi ha dato stamattina proprio per quello scopo. Nessuna di queste cose è per me. La gente direbbe che commercio al mercato nero, luogo di scambio di beni proibiti. Io preferisco definirmi “una che trova le cose”. Trovo patate, carne e lardo. All’inizio trovavo anche zucchero e cioccolato, ma ultimamente è diventato difficile e mi riesce di rado. Trovo tè e bacon. I ricchi olandesi si mantengono grassottelli grazie a me. Io trovo tutto quello cui siamo costretti a rinunciare, a meno che non si sappia dove cercare.
Alla mia ultima domanda, se fosse fisso in quella postazione, ecco, a quella domanda vorrei che il soldato avesse risposto. Perché se sarà di pattuglia lì ogni giorno, dovrò essere gentile con lui oppure fare un’altra strada.
La mia prima tappa stamattina è la signorina Akkerman, che vive con gli anziani genitori in un antico palazzo nella zona dei musei. La signorina Akkerman è lozioni e rossetti. La settimana scorsa era profumo. Lei è una delle poche donne che ho incontrato che dà ancora importanza a queste cose, ma una volta mi ha confidato che sperava che il suo fidanzato le chiedesse di sposarla prima del suo prossimo compleanno e la gente spende soldi per motivi ben più strani di questo.
Apre la porta con i capelli bagnati trattenuti da forcine. Deve avere un appuntamento con Theo stasera.
«Hanneke! Vieni, entra, vado a prendere il borsellino.» Trova sempre una scusa per invitarmi a entrare. Ho capito che si annoia in casa tutto il giorno, con i suoi genitori che parlano a voce alta e puzzano di cavolo.
Dentro è soffocante e poco illuminato. Attraverso la porta aperta si vede il padre della signorina Akkerman seduto al tavolo della colazione. «Chi è alla porta?» grida.
«Una consegna, papà» gli risponde lei voltando appena il capo.
«Chi?»
«È per me.» Si gira e abbassa la voce. «Hanneke, devi aiutarmi. Theo verrà qui stasera per chiedere ai miei genitori se posso trasferirmi da lui. Devo decidere che cosa indossare. Resta qui, ti faccio vedere, così mi aiuti a scegliere.»
Non riesco a pensare a nessun vestito in grado di convincere i suoi genitori a farla andare a vivere con il fidanzato prima del matrimonio, anche se non sarebbe la prima volta che le tradizioni vengono messe da parte, ora che siamo in guerra.
Quando la signorina Akkerman torna nell’ingresso, fingo di valutare i due abiti che si è portata dietro, ma in realtà sto guardando l’orologio. Non ho tempo per socializzare. Dopo averle detto di indossare il grigio, le tendo i pacchetti che ho tenuto in mano fin da quando sono arrivata. «Questi sono suoi. Vuole controllare che sia tutto a posto?»
«Sono sicura che vanno bene. Ti fermi per un caffè?»
Non mi prendo la briga di chiederle se sia vero caffè. L’unico modo in cui avrebbe potuto procurarselo è se glielo avessi portato io, quindi quando dice che hanno del caffè intende di nocciole o di radici. Un surrogato.
L’altra ragione per cui non voglio fermarmi è la stessa per cui declino le continue offerte della signorina Akkerman di chiamarla Irene. Perché non voglio che confonda il nostro rapporto con l’amicizia. Perché non voglio che pensi che se un giorno non fosse in grado di pagare andrebbe bene lo stesso.
«Non posso. Devo fare un’altra consegna prima di pranzo.»
«Sei sicura? Potresti pranzare qui – stavo giusto per preparare – e potremmo decidere la pettinatura per stasera.»
È strano il rapporto che ho con i miei clienti. Loro pensano che siamo complici, legati dal segreto di fare qualcosa di illegale insieme. «Pranzo sempre a casa con i miei genitori» dico.
«Ma certo, Hanneke.» È a disagio per aver insistito. «Ci vediamo presto allora.»
Fuori il cielo è nuvoloso e opprimente, il tipico inverno di Amsterdam, mentre pedalo lungo le stradine strette e irregolari. Amsterdam è costruita sui canali. Il paesaggio olandese è basso, più basso del livello del mare, e i contadini che lo bonificarono secoli fa crearono una complessa rete di vie d’acqua per impedire ai suoi abitanti di annegare nel Mare del Nord. Il mio insegnante di storia associava sempre quel pezzo del nostro passato a un proverbio olandese: «Dio ha creato il mondo, ma gli olandesi hanno creato i Paesi Bassi». Lo diceva con una punta d’orgoglio, ma a me suonava anche come un avvertimento: «Non aspettatevi che qualcuno venga a salvarci. Siamo soli quaggiù».
Settantacinque chilometri a sud, all’inizio dell’occupazione due anni e mezzo fa, i tedeschi bombardarono Rotterdam, uccidendo novecento civili e distruggendo l’architettura della città. Due giorni dopo arrivarono ad Amsterdam a piedi. Adesso dobbiamo sopportare la loro presenza ma siamo riusciti a tenerci i nostri palazzi. È un compromesso difficile. È tutto un compromesso difficile di questi tempi, a meno che tu non sappia come far fruttare al meglio le cose, come me.
La mia prossima cliente, la signora Janssen, abita poco lontano da qui, in una grande casa azzurra in cui viveva con il marito e tre figli, fino a quando uno non si è trasferito a Londra, l’altro in America e il terzo, il più piccolo, al fronte, là dove duemila soldati olandesi morirono cercando inutilmente di difendere i nostri confini mentre il paese capitolava in cinque giorni. Non parliamo mai molto di Jan.
Mi chiedo, però, se era vicino a Bas, durante l’invasione.
È una cosa che mi chiedo sempre, ormai, nel tentativo di ricostruire gli ultimi istanti di vita del ragazzo che amavo. Era con Bas, oppure lui è morto da solo?
Il marito della signora Janssen è scomparso il mese scorso, ma non le chiedo nulla in proposito. Poteva essere un membro della resistenza, o forse si è solo ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, oppure non è morto e ora è in Inghilterra a bere il tè con il maggiore dei suoi figli, ma comunque sia non sono affari miei. Ho fatto qualche consegna alla signora più di un mese fa e da allora non sono più passata. Conoscevo suo figlio Jan, un po’. Era stato un bambino inatteso, arrivato vent’anni dopo gli altri due, quando i Janssen erano già curvi e grigi. Un bravo ragazzo.
Qui, oggi, decido che Jan potrebbe essere stato vicino a Bas quando i tedeschi hanno preso d’assalto il nostro paese. Qui, oggi, voglio credere che Bas non sia morto da solo. È un pensiero più ottimistico di quanto sia solita concedermi.
La signora Janssen mi aspetta sulla porta, cosa che mi irrita perché se tu fossi un soldato tedesco incaricato di controllare tutto ciò che è sospetto, che cosa penseresti di una vecchia che aspetta l’arrivo di una strana ragazza in bicicletta?
«Buongiorno, signora Janssen. Non doveva aspettarmi sulla porta. Come sta?»
«Sto bene!» grida, come se stesse leggendo la battuta di un copione, toccandosi con gesto nervoso una ciocca grigia scappata dallo chignon. Porta sempre i capelli raccolti in uno chignon; gli occhiali le scivolano sempre sul naso; i suoi vestiti ricordano una tenda, o un diva...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA RAGAZZA CON LA BICICLETTA ROSSA
  4. GENNAIO 1943
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. Nota storica
  40. Ringraziamenti
  41. Copyright