Le mura di Adrianopoli
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Le mura di Adrianopoli

  1. 560 pagine
  2. Italian
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Le mura di Adrianopoli

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Stremati dopo un lungo vagabondare e affamati, i Goti si sono schierati lungo le rive del Danubio. Con la promessa di infoltire con i propri uomini le schiere dell'esercito romano, hanno ottenuto dall'imperatore Valente di insediarsi in quelle terre di confine, costantemente sotto la minaccia dei Persiani. Ma la pacifica convivenza si rivela ben presto una chimera. Le condizioni miserabili in cui sono costretti a vivere gli "ospiti" barbari si traducono in aperta ostilità. Fino a quando, il 9 agosto 378, Goti e Romani giungono al confronto decisivo. Nell'assolata piana di Adrianopoli, capitale della Tracia, i due eserciti si fronteggiano, disponendosi a una battaglia che i loro capi, consapevoli della posta in gioco e riluttanti a dare il via alla strage, vorrebbero ancora evitare. Ma basta un niente, uno squillo di trombe, un fraintendimento, per vanificare l'estremo tentativo di instaurare una trattativa e innescare un incendio dilagante. La carica avventata degli arcieri isauri trascina all'assalto tutti i reparti romani, mentre dai colli circostanti le orde barbariche calano su di loro a getto continuo: una marea inarrestabile che investirà di lì a poco la stessa Adrianopoli, in quello che sarà il giorno più lungo dell'Impero, dopo il quale nulla sarà più come prima.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788858501252

PARTE PRIMA

1

Mancavano soltanto tre giorni alle Idi di settembre, ma la lunga, sfibrante estate siriaca era ancora in pieno rigoglio. Quella notte, in particolare, non una nuvola oscurava il cielo di Antiochia, rischiarato quasi a giorno dalla luna piena, che amorevolmente vegliava sulla città e sembrava incoraggiare i suoi abitanti alla vita notturna. Gli antioceni, che già amavano tirar tardi in ogni stagione, nelle serate estive vivevano il meglio della vita, affollando le strade diligentemente lastricate, contrattando nelle botteghe illuminate quasi a giorno dalle lucerne, bevendo e vociando nei termopoli e nelle taverne. La seconda vigilia era già cominciata da un pezzo, ma sotto i portici della grande via principale, che attraversava la città da levante a Occidente, quasi tutte le botteghe erano ancora aperte, e in alcuni punti la ressa era tale che si poteva procedere solo lentamente, a mezzi passi. Mentre compagnie di studenti senza denaro si affollavano all’ingresso dei postriboli e, ridendo e supplicando, altercavano con i truci guardiani, famiglie intere passeggiavano nei vasti giardini orientali o tra i monumentali santuari del sobborgo di Dafne, godendo della tenue brezza che, satura di profumi, scendeva puntuale dal monte Silpio ad accarezzare la città. Sull’isola formata dall’Oronte palpitavano le luci del palazzo imperiale, svelando nel buio le merlature delle torri di guardia e le terrazze che guardavano verso i vasti giardini: probabilmente l’Augusto banchettava all’aperto, oppure, con la sua consorte e i suoi cortigiani, assisteva a qualche esibizione di musici o danzatori. Pulsava anche la vita religiosa: nei templi pagani, da tempo disadorni e desolati, vecchi sacerdoti con poco seguito si ostinavano a rinnovare gli antichi riti che anni prima il defunto imperatore Flavio Giuliano aveva voluto richiamare in vita, mentre nella frescura delle chiese cristiane folle di adepti della religione ormai dominante si radunavano alla luce dei candelieri per ascoltare la parola dei loro seriosi diaconi.
Nell’Epifanio, il quartiere signorile sulle pendici del Silpio, un gruppo di donatisti si era radunato in uno spiazzo al centro di un boschetto di cipressi. Quella sera ascoltavano un nuovo predicatore venuto da Cesarea, e l’eco dei loro cori ispirati si propagava nei giardini delle villae, suscitando qualche fuggevole senso di colpa, ma soprattutto esclamazioni di insofferenza tra gli aristocratici riuniti per la cena sulle logge dei loro peristili. Il giardino della domus di Aristea Sollicina, tuttavia, era quella sera immerso nel silenzio, o quasi... In effetti, nulla si muoveva tra le grandi palme, le cui fronde stormivano pigramente sotto il soffio delicato della brezza notturna, sicché il canto incessante dei grilli e il chioccolio della piccola fontana di porfido erano gli unici suoni che si potessero udire in tutto il vasto perimetro dell’edificio, totalmente immerso nell’ombra; questo, almeno, si sarebbe potuto affermare se non fosse stato per i tonfi, i gemiti e i gridolini di donna che, a brevi intervalli, venivano dal pianterreno. Invano il robusto Bindra supplicava a filo dei denti la giovane schiava di tacere, giacché erano proprio le sue spinte possenti, che ritmicamente portavano il divano a sbattere contro la parete, a produrre quell’effetto sulla prosperosa Sacilla. Constatata l’inadeguatezza allo scopo dei suoi baci appassionati, aveva anche provato a chiuderle con una mano la bocca voluttuosa, ma aveva dovuto ritirarla subito, nel timore di soffocare quella sua occasionale amante. Ansando e sbuffando come un toro in calore, si sforzava dunque di portare a rapido compimento la sua prestazione, pregando tutti gli dèi del monte Meru affinché chiudessero le orecchie del suo signore, il quale dopotutto – questo andava detto, per amor di verità – da molte ore si intratteneva con la padrona di casa nella loggia al piano superiore, divagandosi in battaglie d’amore che lui era forzato a combattere con pari valore ma con ben più sbrigativa procedura in quel piccolo cubicolo adiacente all’atrio. Il guaio era che, cedendo alle lusinghe e alle arti seduttrici della bella schiava, era venuto meno al proprio dovere di sorvegliare il giardino e vegliare sulla vita del nobile Rudradaman. Era pur vero che, sotto l’apparente ruvidezza esteriore, il suo signore nascondeva un animo generoso, sicché già più volte aveva saputo perdonargli le sue mancanze, ma l’esperienza gli aveva anche insegnato a temere i suoi scatti di collera e i suoi momenti di malumore. La sua negligenza, d’altro canto, era tanto più grave in quanto, fatta eccezione per Callipio, il ragazzo addetto ai bagni che vegliava al piano superiore, i servi della domina si erano già ritirati nei loro cubicoli, e probabilmente lo stesso aveva fatto l’atriense che aveva la responsabilità dell’ingresso principale, sicché la vigilanza era in quel momento affidata soltanto ai due levrieri d’Armenia che se ne stavano indolentemente accucciati vicino alla fontana.
In realtà, il bravo bengalese non aveva molto da temere, poiché il suo signore, al piano di sopra, si trovava nel migliore stato d’animo possibile. Spossati da ore di passione, lui e Aristea giacevano nudi e abbracciati nell’ampio letto di lei, collocato in faccia alla porta che immetteva sulla veranda, spalancata per via del caldo. Sazi l’uno dell’altra, conversavano nell’ombra, poiché la luce delle lampade avrebbe attirato sciami di zanzare. Aristea percepiva che la mente di Rudradaman era altrove. Conoscendo gli uomini, sapeva bene che quello è il momento in cui essi si allontanano bruscamente dalla loro amante, e tuttavia era determinata a non consentirlo. Con felina indolenza, strusciava una guancia sul petto muscoloso dell’indiano, si riempiva le narici del suo odore maschile e, come una gatta, si accucciava nella protezione del suo forte abbraccio. D’un tratto, però, alzò un poco il capo, tendendo l’orecchio ai gemiti di piacere che salivano dal pianterreno. «A quanto sembra» osservò ridendo «il tuo schiavo è all’altezza del suo padrone.»
«Bindra è il mio servo, ma non nel senso che voi Romani attribuite a questa parola» precisò l’indiano, «è uno ksatrya di basso rango, che mio padre, anni fa, ha incaricato di custodire la mia persona. Sono il suo signore, ma egli non mi appartiene.»
«Sia come vuoi, ma a quanto pare, nel vegliare su di te, trova il modo di divagarsi.»
Tenendo lo sguardo fisso al riquadro di cielo che si apriva dinanzi a lui, Rudradaman annuì: «Più tardi lo punirò. Sa bene che quando è con me non deve distrarsi».
«Ma no! In fondo, lui e Sacilla stanno facendo quello che abbiamo fatto noi fino a poco fa.»
Rudradaman allentò il suo abbraccio e, puntellandosi su un gomito, si scostò un poco di fianco e la guardò severamente: «Niente affatto» replicò in tono offeso, con perfetta serietà. «Non vorrai confondere il loro accoppiamento animalesco con la nostra unione celestiale. Bindra non conosce nulla dell’arte dell’amore.»
Stringendosi nelle spalle, Aristea sollevò le sopracciglia e increspò le labbra sensuali: «Sarà come tu dici» osservò ridendo «ma a quanto sembra è perfettamente capace di dare piacere a una donna».
Tornando a distendersi tra i cuscini di seta, il principe indù rivolse lo sguardo al buio del soffitto: «A ogni modo, è venuto meno ai suoi doveri e dovrò punirlo».
Da sotto, venne un ultimo tonfo e poi, malamente soffocato, un prolungato gemito di piacere; dopo, tutto fu silenzio. Aristea sollevò di nuovo il capo e si tese all’ascolto: «Ecco, visto? Hanno finito».
Anche tra loro scese un lungo silenzio, rotto soltanto, di quando in quando, dal monotono richiamo di un assiuolo e dall’eco di risate provenienti da una villa confinante. Poi, accarezzando il petto di Rudra, Aristea sollevò il capo e lo fissò con tutta la forza conturbante dei suoi neri occhi mediterranei. «Andrai via anche stasera?»
Rudra annuì. «Sì. Non è bene che ad Antiochia si dica che un ambasciatore del Maharajadhiraja dorme nel letto di una donna romana.»
Senza smettere di vellicargli il torace e contemplare la mascolina bellezza del suo volto, lei appoggiò la testa su una mano. «Maharajadhiraja!» disse sorridendo. «Che epiteto ampolloso! Significa “grande re dei re”, vero?»
«Sì, più o meno. Ma questo è solo il principale dei suoi titoli: egli è anche il “Preferito dagli dèi”, lo “Sguardo amorevole”, il “Compassionevole”, il “Prezioso come il Sole”, l’“Incarnazione della Grazia divina” e, soprattutto, il Chakravartin, che nella tua lingua greca si potrebbe tradurre come... vediamo... sì, direi: “Supremo ordinatore del mondo”.»
«Addirittura!» rise Aristea. «Non credo che l’Augusto Imperatore Valente sia disposto a riconoscergli tale qualità.»
Rudradaman si strinse nelle spalle: «Anche voi Romani, spesso e volentieri, vi chiamate signori del mondo, e così non è».
«E... il mondo del tuo re è molto grande? Più di quello di Roma?»
«Non saprei dirlo. Il suo impero va dall’Indo alla foce del Gange, il fiume sacro, dalle vette altissime dell’Himalaya alle impenetrabili foreste del Deccan. Molti milioni di persone lo abitano, centinaia di dèi vi vengono venerati. Quanto all’Impero di Roma, finora ne ho visto una parte troppo piccola per pronunciarmi. Del resto, tra i miei compiti rientra anche questo: vedere e fare poi un resoconto dettagliato al Maharajadhiraja Chandra.»
Puntellandosi sui gomiti, Aristea lo guardò con rinnovata attenzione: «La tua missione è di andare fino a Roma?».
Rudra sorrise e scosse il capo: «No» puntualizzò, «una missione a Roma si protrarrebbe per troppo tempo; di certo, però, dovrò recarmi a Costantinopoli. Il Maharajadhiraja ne è molto incuriosito».
«Perché?»
«Probabilmente, perché vuole poterla confrontare con la sua Pataliputra, e poi perché è una città costruita in gran parte in tempi recenti e secondo un progetto organico, e anch’egli, a quanto si dice, ha in mente di edificare una nuova capitale. Ma soprattutto, Chandra vuole conoscere il vostro sistema di governo.»
«Se non sbaglio, in passato altre ambascerie sono già venute dall’India.»
«È vero, ma non dal mio regno. So che una quindicina di anni fa un’ambasceria dell’isola di Shri Lanka incontrò l’imperatore Giuliano durante la sua campagna in Persia. In questo frattempo, vi sono stati solo saltuari contatti commerciali.»
«E adesso?»
Invece di risponderle, Rudradaman sorrise e si sciolse dal suo abbraccio. Nudo com’era, si alzò dal letto con un movimento elastico. Giunto alla soglia dei trent’anni, aveva imparato da tempo a non incoraggiare la curiosità, raramente innocente, delle cortigiane. Per quanto s’ingegnasse, Aristea era più portata per i giochi d’amore che non per le trame spionistiche, e non poteva ingannarlo. Si erano conosciuti a uno spettacolo teatrale, poco dopo il suo arrivo ad Antiochia. A presentarli era stato Vivenzio Ursicino, il giovane tribuno della Guardia Imperiale che era stato assegnato come “balia” all’ambasceria indiana durante la sua permanenza in Siria. Fin dal primo momento Rudra si era convinto che quell’incontro non era stato casuale, ma non se n’era per nulla sorpreso, poiché a Pataliputra, con un emissario romano, le cose non sarebbero andate diversamente. Di certo, non era quella la prima volta in cui gli agenti segreti dell’imperatore romano si avvalevano dei servigi di una donna per accertare l’affidabilità di un ambasciatore straniero. Certo che il suo comportamento sarebbe stato attentamente vagliato di lì a poche ore, ritenne dunque che non fosse il caso di mostrarsi sciocco, parlando troppo. Sotto lo sguardo languido ma attento di Aristea, raggiunse la loggia e affacciandosi dalla balaustra si fermò per qualche momento a contemplare le luci della città, che in molti suoi quartieri ancora tardava ad addormentarsi. Il canto dei grilli era cessato e nella villa dei vicini, terminato il banchetto, gli ospiti si stavano congedando dai padroni di casa. Da una strada lontana veniva, osceno e incoerente, un coro di avvinazzati. Nel giardino si udiva soltanto il sommesso mormorio della fontana e lo stormire pigro delle palme. Rudradaman respirò a pieni polmoni l’aria fresca e rigenerante della notte, odorosa di lentischio e di ginepro; il suo sguardo si perse, al di sopra del muro di recinzione, verso la grande pianura a Oriente, e il suo pensiero andò alla lontanissima Pataliputra, alla casa avita, sulla cui soglia, un anno prima, aveva preso congedo dalla vecchia madre per intraprendere quel viaggio, al cui esito il nobilissimo e illuminato Chandra-Gupta II aveva crudelmente legato tutto il suo avvenire. Il suo avvenire, sì. Chissà se Ambarapali lo amava ancora? Chissà se ancora lo aspettava? Ma non era certamente quello il momento delle malinconie, tanto più che Aristea gli si era avvicinata con pochi passi silenziosi e, nuda, lo avvolgeva ora da dietro nella dolce, carezzevole stretta delle sue braccia, appoggiando il volto tra le sue scapole con tenero abbandono. Molto dolce, in effetti, per essere un agente del prefetto del Pretorio. Ma la sua compagnia non gli interessava più. Voleva uscire, allontanarsi da quel seducente concentrato di promesse: il momento del piacere era passato. «Ho tenuto sveglio Callipio» gli disse lei a fior di pelle «e gli ho raccomandato di tenere pronto tutto il necessario nel calidarium. Perciò, se prima di andare via vuoi fare un bagno... anzi, ti farò volentieri compagnia.»
Rudra si girò e, lentamente, si sciolse dal suo abbraccio. «No» rispose «farei troppo tardi, e un bagno a quest’ora mi infiacchirebbe, togliendomi la voglia di rifare la strada per tornare alla mia residenza.»
«Puoi restare qui, se vuoi.»
«Lo sai che non è possibile.»
Le accarezzò la nuca, quindi la lasciò e in pochi passi rientrò nella camera. Non trovando più il suo perizoma nel disordine che entrambi avevano prodotto in quelle ore di acceso godimento carnale, indossò senz’altro i suoi pantaloni di mussola, reperiti su uno sgabello trapuntato. Aristea, che si appoggiava alla balaustra senza curarsi della propria nudità, lo guardava imbronciata. Non volendo che si sentisse offesa, le si accostò nuovamente e le sollevò il mento con le dita. «C’è un’ora per ogni cosa, mia splendida amante, e questa che sta giungendo è l’ora del sonno. Dovrò goderne nel mio letto, e non posso rinunciarvi, perché domattina ho un appuntamento importante. Devo andare.»
Scrutando nei suoi occhi, lei gli si strinse contro e cercò le sue labbra. Un bacio lungo, che riaccese il suo desiderio. «Ti rivedrò?» sussurrò poi, appoggiando la fronte contro la sua spalla.
«Certamente» assicurò lui, ma in un tono assai più cortese che appassionato.
Lei sollevò il capo per cercare nei suoi occhi una conferma della sincerità di quella promessa. «Quando?»
Le rispose annuendo distrattamente. La sua attenzione si era rivolta al giardino sottostante, dove, nella flebile luce della luna, l’imponente figura di Bindra, distinguibile anche per il grande turbante giallo, avanzava sul vialettto lastricato che conduceva alla fontana. Il passo del suo servo gli pareva stranamente circospetto. Lo vide rasentare un vecchio ulivo e sparire per qualche momento, nascosto da una palma gigantesca, per riapparire accanto alla fontana e chinarsi su uno dei cani, del quale, da dove si trovava, lui poteva vedere soltanto la testa e le zampe anteriori. Gli parve, comunque, che l’animale giacesse disteso su un fianco e avesse la lingua penzoloni. Vide Bindra osservare il cane afferrandosi la lunga barba arricciata, come faceva sempre quando si sentiva perplesso, e poi risollevarsi di scatto e portare la mano alla spada, guardandosi attorno con espressione allarmata. Bruscamente, Rudradaman afferrò Aristea per le braccia. «Dove sono i tuoi servi?» le domandò accigliandosi.
Sorpresa, lei sgranò gli occhi. «Sono nei loro cubicoli, nei sotterranei e sull’altro lato dell’edificio. Perché me lo domandi? Che succede?»
La lasciò e con due lunghi passi raggiunse il letto. Le orecchie tese a ogni rumore, con rapide occhiate cercò la propria spada nella stanza immersa nella penombra. La trovò, infine, sotto un lenzuolo di seta scivolato dal letto e in un attimo la brandì, portandosi subito verso la porta che immetteva nel corridoio. Aveva già teso la mano verso il saliscendi quando si fermò e, con la mente attraversata da un dubbio, spostò il suo sguardo sulla donna: ancora ferma nel vano dell’ampia finestra, lo osservava con espressione allarmata e al tempo stesso interrogativa, appoggiando una mano aperta alla radice del collo; con l’altra, in un inconsapevole slancio di pudicizia in presenza del pericolo, aveva raccolto da terra un lenzuolo di seta e con esso copriva le più piacevoli e procaci manifestazioni della sua femminilità. No – si disse Rudra – se qualcuno stava per assassinarlo, non era certo con la complicità di Aristea. Mettendo con gesto lento ma autorevole un dito davanti alle labbra, le ingiunse di restare in silenzio, quindi si riaccostò alla porta. Stava già aprendola quando un improvviso fracasso scoppiò al piano inferiore e alta risuonò la voce di Bindra: «All’erta, mio signore! Vogliono assassinarti!».
D’istinto Rudra balzò indietro, e proprio in quel momento la porta si spalancò. Due scure figure si stagliarono nella fioca luce che illuminava il corridoio e irruppero di slancio nella stanza. Pronta, da sinistra a destra, la spada di Rudra fendé l’aria a recidere la gola del primo assalitore, che si abbatté sul tappeto emettendo un gemito orribile, gorgogliante, mentre l’hindù si gettava di lato per schivare il fendente del suo compare. Spinto dal proprio slancio, questi andò un poco oltre, rovesciò con fragore un candeliere di bronzo, inciampò in uno scendiletto e cadde a due passi soltanto da Aristea che gridava di terrore, mentre dal piano inferiore salivano urla belluine, un frenetico tinnio di spade e il fracasso delle suppellettili e dei mobili rovesciati. Con un ringhio di furore, l’intruso si risollevò subito per fronteggiare Rudradaman, ma non abbastanza in fretta per parare o evitare il suo fulmineo fendente, che gli troncò di netto il capo. Un momento dopo, preannunciato da un frenetico scalpiccio sulla scala di marmo e nel corridoio, Bindra si catapultava ansante e spada alla mano nella stanza. Valutata in un attimo la situazione, alla luce della lampada che reggeva nella sinistra, guardò con un’espressione a un tempo di sollievo e di contrizione il suo signore, che ancora impugnava la sua splendida spada dall’impugnatura rivestita d’avorio. «Principe!» gridò cadendo in ginocchio e piegando fino a terra il capo, avvolto nel turbante, in cerca di remissione. «Perdona il tuo umile servo!»
Seguì un breve silenzio, nel quale echeggiarono drammaticamente, ma ancora lontane, le grida d’allarme dei servi e il loro scalpiccio nei corridoi del pianterreno. Poi dall’atrio sottostante venne un coro di voci spaventate e, dalla stanza, Rudra vide salire ondeggiando, con strani effetti sugli affreschi che decoravano i muri delle scale, la luce di lampade sorrette da mani malferme. Era facile immaginare il gruppo dei servi che, stretti l’uno all’altro e armati alla meno peggio, salivano timorosi verso la camera della padrona, con passo incerto e reticente, due gradini in avanti e uno all’indietro.
«Domina!... Domina...?» domandò una voce ancora lontana, incerta e tremolante di paura. Aristea, tuttavia, non aveva ancora ritrovato la padronanza dei propri nervi e non rispose. Con gli occhi sgranati e la bocca piegata in un’espressione di ribrezzo, fissava attonita i corpi dei due uccisi, illuminati con forti chiaroscuri dalla lampada di Bindra. La cessazione di ogni rumore nel corridoio indicava che, spaventati dal silenzio che avvertivano nella stanza della padrona, i servi si erano fermati, mettendosi forse in ansioso ascolto.
La lampada, posata in terra, illuminava di una luce calda la bronzea, scultorea figura di Rudradaman. Egli si accigliò e apostrofò duramente il suo servo: «È così che vigili sulla mia incolumità? Anni fa, per una cosa del genere mio padre diede due delle sue guardie in pasto ai coccodrilli!».
Deposta la sua arma, Bindra posò la fronte sul pavimento a mosaico e allungò le braccia fino a sfiorare con la punta delle dita i piedi del suo signore. «È vero, me sciagurato! Anche se solo per un breve – ti assicuro – brevissimo tempo, sono venuto meno alla consegna. Sono imperdonabile. Anche se devo solo alle subdole arti di una donna l’essermi distratto dal mio compito, non ho giustificazioni! Disponi dunque a tuo piacimento della mia miserabile vita. Nella prossima, pagherò certamente la mia colpa nel corpo di un lucertola o di un insetto, e poi sconterò ancora in altre mille la mia inettitudine.»
Aveva parlato con un tono di disperata risoluzione, esponendosi a un rischio reale, perché negli occhi fulminanti del suo signore, nella tensione nervosa che percorreva la sua vigorosa muscolatura, erano ancora visibili l’esaltazione cieca e la lucida ferocia che, con la consueta mirabile potenza, si erano sprigionate da lui nella lotta appena sostenuta. Aristea, che naturalmente non conosceva la lingua pancrita, aveva però intuito dal tono accorato della voce di Bindra e dal suo atteggiamento la sostanza di quanto egli aveva detto. Ancora traumatizzata dalla scena di repentina, incredibile violenza di cui era stata testimone, si sentì incapace di sopportare un suo strascico parimenti sanguinoso a spese del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. PREMESSA
  5. PROLOGO
  6. Parte Prima
  7. Parte Seconda
  8. Parte Terza
  9. EPILOGO
  10. Nota dell’autore