LA VECCHIA SIGNORA AVEVA CAMBIATO IDEA. Non voleva più morire. Ma quando l’aveva deciso era ormai troppo tardi. Aveva conficcato le unghie nell’intonaco della parete fino a spezzarsele, poi aveva portato le mani al collo, cercando di infilarle sotto la corda. Si era rotta quattro dita dei piedi sferrando calci al muro. Tutto questo rivelava una disperata voglia di vivere, tanto che Harry Bosch si chiese cosa l’avesse spinta a suicidarsi. Perché il gusto della vita l’aveva abbandonata, per ripresentarsi solo al momento in cui aveva infilato la testa nel nodo scorsoio e aveva fatto cadere la sedia?
Era una domanda che non avrebbe scritto nel suo rapporto, ma non poté fare a meno di porsela mentre se ne stava in macchina fuori dalla Casa di Riposo sul Sunset Boulevard, a est della Hollywood Freeway. Erano le quattro e venti del pomeriggio del primo dell’anno quando l’avevano convocato. Bosch era in vacanza, con possibilità di essere reperito.
La giornata era quasi finita e il motivo della convocazione erano due suicidi, uno con arma da fuoco e l’altro per impiccagione. Entrambe le vittime erano donne, e in entrambi i casi il motivo era lo stesso. Solitudine e disperazione. Il primo dell’anno era un gran giorno per i suicidi. Mentre la maggior parte della gente accoglieva il nuovo inizio con un senso di speranza e di rinnovamento, c’erano altri che lo consideravano il momento ideale per farla finita, rendendosi conto troppo tardi del loro errore, come era successo alla vecchia signora.
Bosch alzò gli occhi e, attraverso il finestrino, guardò il corpo dell’ultima vittima che, coperto con un lenzuolo verde, veniva caricato sul furgone del medico legale. Vide che all’interno c’era già una barella con un altro corpo, evidentemente quello della vittima precedente, un’attrice di trentaquattro anni che si era sparata in macchina in un punto panoramico sul Mulholland Drive.
Il suo cellulare squillò e lui accolse con sollievo quell’intrusione, che lo distoglieva dal pensare a quelle morti senza ragione. Era Mankiewicz, il sergente di guardia alla Divisione Hollywood del Dipartimento di Polizia di Los Angeles.
«A che punto sei?»
«Me ne sto andando.»
«Che roba era?»
«Una suicida pentita. C’è dell’altro?»
«Sì. Ma non mi sembra il caso di parlarne per radio. Dev’essere una giornata morta per i cronisti, ho ricevuto più telefonate dai giornali che chiamate di servizio. Si sono fiondati tutti sul primo suicidio, quello dell’attrice, a Mulholland. Normale, la storia della fine di un sogno hollywoodiano. E probabilmente, se ne fossero informati, si butterebbero anche su quest’ultima faccenda.»
«Di che cosa si tratta?»
«Un tizio, su a Laurel Canyon, ha appena chiamato dicendo che il suo cane è tornato da una corsa nei boschi con un osso in bocca. Sostiene che si tratta di un osso umano, quello del braccio di un bambino.»
Bosch si lasciò andare a una sorta di grugnito. In un anno ne capitavano tre o quattro di chiamate di quel tipo. All’eccitazione iniziale seguiva immancabilmente la spiegazione più semplice, e cioè che le ossa appartenevano a un animale. Attraverso il finestrino salutò i due inservienti dell’ufficio del medico legale, che si stavano dirigendo verso le portiere anteriori del furgone.
«Harry, so cosa stai pensando. Un’altra maledetta corsa per niente. Sarà successo un centinaio di volte ed è sempre la stessa solfa. Coyote, cervo, e via dicendo. Ma stavolta il tizio che ha chiamato è un medico e sostiene di non avere dubbi. Anzi, secondo lui si tratta di un omero, la parte superiore del braccio. E appartiene a un bambino. Non è finita, ha detto anche…»
Ci fu un attimo di silenzio mentre Mankiewicz scorreva i suoi appunti. Bosch guardò il furgone azzurro del medico legale che si immetteva nel traffico. Quando Mankiewicz riprese a parlare, capì che stava leggendo.
«L’osso presenta una frattura ben visibile immediatamente sopra l’epicondilo mediano, qualsiasi cosa voglia dire.»
Bosch irrigidì la mascella e sentì una leggera corrente, una sorta di scossa elettrica, percorrergli la nuca.
«Il punto è che, secondo il tizio che ha chiamato, si tratta di un bambino. Harry, puoi andare a controllare?»
«Qual è l’indirizzo?»
Mankiewicz glielo diede e aggiunse che sul luogo aveva già mandato una pattuglia.
«Hai fatto bene a non parlarne per radio. Tieni la faccenda per te.»
Mankiewicz lo rassicurò. Bosch chiuse il telefono e avviò il motore. Prima di partire, lanciò un’ultima occhiata alla Casa di Riposo. Secondo il personale dell’istituto, la donna che si era impiccata nello sgabuzzino della sua modesta camera da letto non aveva parenti. Avrebbe ricevuto da morta lo stesso trattamento di cui aveva goduto in vita. Solitudine e oblio.
Si allontanò, diretto verso Laurel Canyon.
MENTRE RISALIVA IL CANYON verso Wonderland Avenue, Bosch ascoltò alla radio la partita dei Lakers. Non era un fanatico del basket professionista, ma voleva sapere come stavano andando le cose, nel caso in cui avesse avuto bisogno del suo partner, Jerry Edgar. Edgar aveva avuto la fortuna di trovare un paio di ottimi posti per la partita. Bosch gli aveva promesso che se la sarebbe sbrigata da solo per le chiamate di ordinaria amministrazione e che l’avrebbe lasciato in pace, a meno che non si fosse verificato qualcosa che avesse reso necessaria la sua presenza. Non poteva più contare nemmeno su Kizmin Rider, il terzo membro della squadra, che un anno prima era stata promossa alla Divisione Rapine-Omicidi e non era ancora stata sostituita.
La partita era più o meno a metà ed era molto combattuta. Nonostante non fosse un tifoso, dall’insistenza con cui Edgar l’aveva pregato di lasciarlo fuori aveva capito che si trattava di un match importante, contro una delle principali squadre rivali. Decise di non chiamarlo finché non fosse arrivato sul luogo del ritrovamento e si fosse reso conto della situazione. Man mano che si addentrava nel canyon la ricezione divenne pessima, e Bosch spense la radio.
La strada saliva ripida. Laurel Canyon era come una ferita nelle Santa Monica Mountains e le vie che si staccavano dalla linea centrale si inerpicavano lateralmente verso la cresta montuosa. Wonderland Avenue terminava in un punto remoto dove le case da mezzo milione di dollari erano circondate da fitti boschi che crescevano lungo un’erta scoscesa. Bosch aveva la netta sensazione che cercare delle ossa in quella zona sarebbe stato un incubo. Si fermò dietro un’auto di pattuglia all’indirizzo che Mankiewicz gli aveva dato e guardò l’orologio: erano le quattro e quarantotto. Riportò l’ora sul suo taccuino. Tra non molto sarebbe stato buio.
Un agente di pattuglia che non conosceva gli aprì la porta. Era una donna e dalla targhetta di identificazione vide che si chiamava Brasher. Lo precedette all’interno della casa verso una sorta di studio dove il suo partner, un certo Edgewood, stava parlando con un uomo dai capelli bianchi, seduto dietro una scrivania ingombra. Sul piano c’era una scatola da scarpe senza il coperchio.
Bosch si presentò. L’uomo con i capelli bianchi si chiamava Paul Guyot ed era un medico generico. Bosch si protese e vide che nella scatola era riposto l’osso che li aveva condotti lì. Era marrone scuro, simile a un rametto nodoso.
Accucciato a terra, accanto alla sedia del dottore, c’era un cane di grossa taglia con il pelo giallo. «Dunque è questo» disse Bosch, tornando a guardare nella scatola.
«Sì, detective, quello è il suo osso» rispose Guyot. «Ora le faccio vedere…»
Allungò un braccio verso lo scaffale dietro la scrivania e prese un libro voluminoso. Era un trattato di anatomia, che il medico aprì a una pagina contrassegnata in precedenza. Bosch notò che indossava dei guanti di gomma.
La pagina riportava l’illustrazione di un osso, visto frontalmente e lateralmente. In un angolo c’era il disegno di uno scheletro, su cui erano evidenziati gli omeri di entrambe le braccia.
«Ecco qui» disse Guyot, indicando con il dito. «E questo è quello che abbiamo trovato.»
Infilò la mano nella scatola da scarpe e ne estrasse con cautela l’osso. Accostandolo all’illustrazione, si lanciò in un accurato esame comparativo.
«Epicondilo mediano, troclea, tubercoli maggiori e minori. Come accennavo prima ai due agenti, so quello che dico, anche senza bisogno del manuale. Questo è un osso umano, detective. Non ci sono dubbi.»
Bosch lo scrutò. Il suo viso era percorso da un leggero tremore, forse il primo indizio del morbo di Parkinson.
«È in pensione, dottore?»
«Sì, ma questo non vuol dire che io non sappia più riconoscere un osso…»
«Non intendevo mettere in dubbio le sue capacità» intervenne Bosch, cercando di sorridere. «Mi fido. Volevo solo definire un paio di cose. Può rimetterlo nella scatola se vuole.»
Guyot ripose l’osso.
«Qual è il nome del cane?»
«È una femmina e si chiama Calamity.»
Bosch posò lo sguardo sull’animale. Sembrava che dormisse.
«Quando era cucciolo ne combinava di tutti i colori. Ecco perché l’ho chiamata così.»
Bosch annuì.
«Mi dispiace doverglielo chiedere, ma vorrei che mi ripetesse che cosa è successo oggi.»
Guyot abbassò una mano e si mise ad arruffare il pelo del cane.
Calamity alzò la testa per g...