Un eremo è il cuore del mondo
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Un eremo è il cuore del mondo

Viaggio fra gli ultimi custodi del silenzio

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Un eremo è il cuore del mondo

Viaggio fra gli ultimi custodi del silenzio

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Esistono ancora gli eremiti? Chi sono? Dove vivono? Perché scelgono un’esistenza austera ai margini della società?
Un giornalista si è messo sulle loro tracce: li ha incontrati – in Italia, in Francia, in Svizzera, in Medio Oriente, in Asia – dentro una grotta, nascosti in baracche fatiscenti, in eremi sperduti nella natura o semplicemente al riparo dai frastuoni della “civiltà del rumore”. E, dopo averli scovati, li ha invitati e poi convinti, talvolta con lunga insistenza, a “raccontarsi”.
Quelli che hanno accettato, lo hanno fatto in memoria di quelle tradizioni antiche – padri del deserto, stiliti, anacoreti – che li vedevano separati dal mondo, ma in comunione con esso, disposti ad accogliere schiere di “cercatori di verità” desiderosi di ricevere un frammento di sapienza. E infatti, le parole e le storie di questi personaggi anonimi e conosciuti come Adriana Zarri – appartenenti a filosofie e tradizioni spirituali diverse – svelano preziosi segreti per chi vive immerso nel caos della vita quotidiana: la necessità di interrompere il vorticoso attivismo per ritrovare il senso del proprio agire; il valore della meditazione come disciplina laica; il bisogno di spazi per la “coltivazione di sé”, il fascino della ricerca dell’Assoluto; e, più di tutto, la necessità di un sano distacco dal potere, dai beni e dalle comodità per risvegliare coscienze intorpidite ormai diventate incapaci di produrre il bene, di cercare la giustizia, di generare bellezza.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858505571

1

CAPODANNO 2011
L’inizio, tra Cascia e Assisi

Fa freddo. Punge, entra nelle ossa, screpola le labbra. Due anziane contadine s’infilano nella minuscola cappella dell’eremo. Battono i piedi per scaldarsi, anche se c’è una stufa accesa da almeno mezz’ora. Arrivano dalla cascina che sta oltre la strada. Lei è felice. Vive in questo piccolo lembo della Valle Nerina da oltre quattro anni. Sola. Si chiama Cristina. Ne ha avvertito il desiderio, prima tenue poi sempre più insistente, dopo un lungo periodo di clausura monastica. Pensava fosse una tentazione diabolica quel rovello. Si è messa alla prova, con tenacia. Non ha niente, ma veramente niente. Eppure sembra che abbia tutto. Vive in due stanzette con un bagno. Fuori, l’orto, una croce, una panchina verso gli Appennini e l’orizzonte. Ha ristrutturato i ruderi con l’aiuto di genitori, amici, ex colleghi di lavoro. Occhi limpidi dietro gli occhiali, sembra giovanissima. Prepara la preghiera del Te Deum. È il 31 dicembre, è l’inno di ringraziamento per l’anno che va a concludersi.
Sono tornato per le strade dell’Umbria piene di buche nell’asfalto. Qui, sopra Cascia, ci arrivi o perché ti sei perso o perché lo vuoi. In effetti, ero approdato quassù il giorno di Ferragosto: per curiosità, senza alcun preavviso. Su internet mi aveva colpito la notizia che nella diocesi di Spoleto-Norcia vivessero sei eremiti di diritto diocesano, sparsi qua e là; tra loro anche un polacco, Tadeusz, che se ne sta abbarbicato sui monti Sibillini. Hanno un consulente spirituale, un vero e proprio “sistema” organizzato e promosso dal dinamico vescovo Renato Boccardo. Con moglie e figli, di passaggio, provai a bussare. Da Cristina ci fermammo tutto il pomeriggio: una preghiera, un bicchiere d’acqua e poi a parlare. A lungo. Affascinati, colpiti da quello sguardo dolce, intenso, trasparente. Soprattutto i ragazzi: stupidamente, pensavo considerassero noioso il contesto. Invece, che impatto.
Con quella stessa squisitezza, adesso che ormai è buio e si entra nella notte di San Silvestro, mi dice di no. Le avevo chiesto di poter raccontare la sua storia. La sua bella storia di donna. Da tempo desidero riprendere carte, appunti e reportage di tempo addietro, quando mi ero messo sulle tracce degli ultimi anacoreti: incontri straordinari, arricchenti. Con alcuni ho mantenuto contatti abbastanza regolari, con altri intendo riprenderli, con altri ancora spero di attivarli. Provando magari ad aprire nuove porte, anche con chi vive una tradizione diversa da quella cristiana. Chissà, forse perché quando si avvicinano i cinquant’anni uno si fa prendere dall’ansia dei primi bilanci e pensi che queste creature, così radicali, così all’opposto della logica con cui tutti stiamo vivendo freneticamente, possano offrire risposte sensate a quelle domande, interiori, che ancora non le hanno ottenute. Oppure perché l’angoscia che viene dall’interminabile crisi economica corrode le sicurezze e come un naufrago cerchi appigli in modelli esistenziali diversi, diversissimi da te.
Sono deluso, un po’ avvilito, spiazzato. Cristina argomenta con chiarezza. No, perché sarebbe un’incongruenza. No, perché c’è troppa confusione in giro, soprattutto tra le nuove generazioni. Mischiare i temi, ritrovandosi poi insieme a buddhisti, induisti o a chi ha compiuto scelte diverse dalla sua, non la convince, non le pare un buon servizio alla causa. Vede il rischio del sincretismo o di quei minestroni new age dove finisce un po’ di tutto. Retta fede, per prima cosa, come ammonivano i padri del deserto. E poi dovrebbe chiedere il permesso, tanto per cominciare. Mi contropropone di spiegare soltanto quanto sta accadendo nella sua diocesi, facendo scrivere direttamente i protagonisti. Diffidenza nei confronti dei giornalisti? Suppongo, e in una certa dose ne ha ben donde. Ma ha ragione per un altro motivo: pur non volendolo, sono stato prepotente, mi ero già immaginato come impostare la narrazione della sua esperienza. Non si può violare un’intimità così intensa, complessa. Il mio proposito – anche se rispettoso – può apparire sacrilego, empio: una vera e propria effrazione. Ovvero, secondo vocabolario, una deliberata violazione, una circostanza aggravante del reato di furto. Probabilmente lo è. Restiamo sulle nostre posizioni, provo a discutere un po’, sostengo la necessità di una conoscenza anche delle altre fedi, ma è irremovibile. Non sono né teologo né saggista: un cronista, questo sì, e con questo approccio vorrei avvicinare gli eremiti. In qualche modo, aggiungo, compiendo un viaggio dentro me stesso, attratto da quell’eco lontana – ma indelebile – di vertigini spirituali un tempo intuite con altri come lei. Cristina è serena, rimette legna sul fuoco. Mi dispiace andare via. Ciao, allora, a presto, riguardati. Di sicuro, prima o poi, ci rivedremo. E senza intenti scellerati da parte mia.
Lungo i tornanti, mentre petardi e botti fanno qualche prova in vista della mezzanotte, penso alle contraddizioni dell’Umbria: così ricca di spiritualità, di pellegrini, così povera e incapace di far presa tra i suoi giovani. Malessere comune, qui forse più evidente. Discoteche, pub, noia. Le chiese sono tendenzialmente vuote, nonostante le iniziative e le proposte. Vicino al santuario di Santa Rita non mancano i pullman, c’è un viavai continuo; ingredienti troppo devozionali, per la mia sensibilità. Più a valle c’è il bivio per Norcia, terra di san Benedetto. Continuo a ragionare, la testa è altrove. Anche durante il brindisi con amici di Montefalco, dalle parti di Foligno.
Il giorno dopo, supero la Spello di Carlo Carretto e mi fermo all’ingresso del convento di San Damiano, alle pendici di Assisi. C’è fra Simone. Saio marrone scuro, corda bianca in vita, i sandali. Scalzo. È alto, non avrà più di trent’anni. Ed è felice. Scherza con un gruppo di famiglie. Per essere la mattina di Capodanno – tutto sommato – di gente ce n’è. Si forma rapidamente un capannello ad ascoltare. Siamo lontani dalla bolgia dei turisti vocianti, c’è la terra essenziale, quella delle radici di un’esperienza religiosa tra le più entusiasmanti. Per fortuna, nei dintorni, non luccicano negozi del sacro e del profano, quelli che vendono il peggio del kitsch: cappelli goliardici e magliette che sbertucciano i grandi marchi della moda con frasi scurrili e battute da caserma. Nelle vie che salgono dai parcheggi e conducono alla grande basilica, di queste vetrine è pieno. Mercanti del tempio, ma debbono campare: eppoi, c’è chi compra.
Fra Simone, che è pure sacerdote, risiede nel noviziato. Con due parole, dal bell’accento toscano, prepara all’itinerario guidato. In particolare, si sofferma sul crocifisso dagli occhi spalancati che Francesco si trovò di fronte nel 1205, frugando tra pietre e mattoni, quando arrivò tra queste mura sgretolate e diroccate. Sentì una voce: «Va’ e ripara la mia chiesa». Un equivoco: il futuro santo pensava all’edificio, il buon Dio a Santa Romana Chiesa. «Fate silenzio dentro il vostro cuore», invita con passione fra Simone. Seguo il flusso, mi siedo negli ultimi banchi. Fisso quell’immagine: in effetti quel Cristo sembra guardarsi attorno. Sanguinante, massacrato, ma vivo. L’insieme ricorda le icone bizantine, ispirate al Vangelo di Giovanni, centrate sulla Risurrezione, nocciolo duro della fede cristiana. Proprio qui ad Assisi, il 27 ottobre 1986, i leader religiosi del mondo s’incontrarono nel nome della pace, invitati da Giovanni Paolo II. Uno spirito che ha soffiato a lungo, provocando consensi, critiche, dibattiti. Adesso Benedetto XVI vuole rievocare quell’evento venticinque anni dopo: e lo ha annunciato oggi, primo gennaio. All’uscita fra Simone ne sta parlando con un confratello.
La contingenza mi sembra quasi un segno. Dialogo, silenzio nel cuore, prospettiva ampia. Un fraintendimento? Decido di andare avanti nell’idea. Beata solitudo, sola beatitudo. Nelle settimane successive scrivo lettere, indago un po’. Ottengo risposte educate, secche, talvolta persino brusche e infastidite: no e basta. È una proposta indecente voler carpire qualche suggerimento dagli anacoreti? Può darsi lo sia forzarli a spiegarmelo. Può darsi lo sia insistere. Ma intendo provarci lo stesso. Molti non vogliono farsi raggiungere, scappano. Un po’ come quell’ambizioso barone in divisa che intraprese la vita monastica e successivamente la totale solitudine eremitica, descritto bene dai fratelli Taviani nel film drammatico Il Sole anche di notte del 1990. Interpretato da Julian Sands, l’uomo – preso per santo – trovò pace soltanto sparendo, facendosi inghiottire dall’anonimato; la pellicola è una retrodatazione del racconto Padre Sergio di Tolstoj all’epoca di Carlo III, re delle due Sicilie.
Qualcuno tra questi solitari, comunque, accetta la proposta. Qualcun altro mi riceverà in baite sperdute – conversazioni inattese, serrate – a patto che non scriva nulla circa la sua esistenza. Passano i giorni. Con taluni riannodo il filo interrotto. Scoprirò coincidenze, collegamenti. Tra loro, molti si conoscono anche senza essersi mai visti. C’è chi mi conforta: «Un’effrazione? E come avremmo mai potuto disporre dei detti dei padri del deserto se qualcuno non li avesse seguiti venendo poi accolto e ascoltato?». Cerco di preparare una “bisaccia del pellegrino” prima di incontrarli. La questione dell’interiorità mi stuzzica. Anche perché – su questo punto concordano le grandi religioni monoteistiche – il cammino della conoscenza di sé è sempre in qualche modo strettamente legato alla conoscenza di Dio. Se ci riesci, beninteso. Mi torna alla mente una riflessione sulla vita interiore di Luciano Manicardi, monaco della Comunità di Bose. Citava le graffianti parole di Kierkegaard con cui il filosofo danese mette in guardia da “folla”, “pubblico”, “massa”: nemici dell’interiorità e dello stesso cristianesimo. Si corre sempre a perdifiato, non è così? Io, sovente, sono angosciato dal tempo che mi manca e scivola via. Servono una “ascesi del tempo”, ribatteva Manicardi, e un’ “arte della lettura”: «La vita interiore si nutre di relazioni con altre persone, altri mondi culturali e altre tradizioni religiose che ci hanno lasciato tracce di sé nei loro libri, nelle loro scritture sacre. C’è da mettere in atto una lotta di resistenza per salvaguardare l’interiorità. Ne va della qualità della vita del nostro oggi e di quelli che verranno domani, dopo di noi». Chi, allora, meglio dei “custodi del silenzio” può aiutare a comprendere, a individuare una rotta?
Nella “bisaccia” metto tre brani della Bibbia nei quali mi sono imbattuto nel corso degli anni e che si ripresenteranno durante questo anomalo viaggio. Il primo è l’episodio della Samaritana al pozzo di Sichar (Giovanni 4,1 ss.). Ricordate? Incontra Gesù, lascia la brocca con cui era andata per dissetarsi e corre in città a raccontare che cosa le era capitato. Di una brocca mi parlò per la prima volta un monaco cistercense, Cesare Falletti, all’epoca maestro dei novizi al monastero di Saint-Honorat, sull’isola di Lérins, davanti a Cannes. Ventenne o poco più, ero finito lì con alcuni amici dell’Azione cattolica; pensavo di dover “fare” delle cose (“fare”, “fare”: ti dicono sempre così in certi ambienti), tant’è che avevo con me il tomo per un rognoso esame universitario. Invece, dopo due giorni lì dentro, andai in crisi, imbarazzato dal silenzio, da quel silenzio. Nessuno, di fronte, se non me stesso. Figurarsi poi i sentimenti dopo aver assistito alla vestizione di un novizio, con i genitori stravolti nel vederlo, giovane, bello, felice, attratto e risucchiato nel mondo dei contemplativi. Tutto scarno, essenziale, anche i canti a più voci. Sentivo affiorare alcune sofferenze non risolte. Mi spiegò Falletti: «Eri come dell’acqua in una brocca che adesso si è rotta nel mare. Non ti preoccupare se provi dolore». Bisogna toccare il fondo buio di sé per conoscere la luce.
Un “deragliamento”, di questo si tratta. Un po’ come la brocca abbandonata di quella donna di Samaria, così intensamente occupata nella mente e nel cuore da dimenticare il motivo primario per cui era andata al pozzo. Tutto parte da un cuore che si scalda per un incontro non banale; ed è con il cuore rinnovato e caldo che questa donna andò poi in città a dire. Un cuore scaldato. Un cuore caldo. Molti eremiti mi parlano della “fiamma dell’amore”. Mistica. Inarrivabile, immagino, nella normalità. Mi dicono: «Che cos’è una buona spiritualità, in fin dei conti, se non permettere a Dio di prendere contatto con la verità scomoda di noi stessi? Se questo non accade, Dio è soltanto un ospite, non invece un confidente e un amico. D’altronde, l’irruzione nella nostra miseria è proprio la chiave che il Signore ha utilizzato per entrare nella storia degli uomini: nella stalla e nella mangiatoia dove Gesù viene sistemato non appena venuto al mondo c’è tutta la “puzza” dell’umanità. Se Dio è l’acqua, noi possiamo diventare la nuova brocca che può versare acqua viva. A patto di lasciarsi amare nella nostra parte peggiore».
Dunque, un cammino di relazione con se stessi (diventiamo adulti veri, lo si sa, quando ci accettiamo per quello che siamo); e un cammino di relazione con Dio (liberarsi delle piccolezze per lasciare spazio a Lui). Questo fanno e sono i “custodi del silenzio”. San Basilio parlava di una conoscenza di sé con un preciso intento teologico: conoscere Dio, contemplando la sua immagine nella nostra anima e ascoltando la voce dello Spirito nel proprio cuore. È la “preghiera del cuore” – così viene chiamata – che dovrebbe praticare questo esercizio. Affascinante? Irraggiungibile? Eppure, la comunicazione autentica passa proprio da cuore a cuore: cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore, è il detto attribuito a san Francesco di Sales, vescovo francese di Annecy (e – non a caso – patrono dei giornalisti). Solo un “cuore caldo” può innescare il “deragliamento” della brocca. Dovrebbe valere più che tanti altri espedienti dell’offerta religiosa ormai priva di appeal. Il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, peraltro, significa proprio il passaggio dal comandamento del fare al comandamento del cuore, un tema caro alla Filocalia, cioè “l’amore per il bello”, il meglio della tradizione patristica orientale del primo millennio cristiano, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1782. Sul tavolino di un eremita che abita in un borgo abbandonato delle Alpi è lì, in bella vista. Lui, tanto per cambiare, mi stupisce, aggiungendo: «Sai che anche nella cultura dei nativi d’America ci sono un po’ questi temi?». Si tratta della simbologia della “ruota”, come quella sulle montagne del Big Horn, nel Wyoming, a quasi tremila metri d’altezza, costruita forse cinquecento anni fa con grosse pietre bianche e bastoni: ha un diametro di ventotto metri e quattordici raggi. Viene chiamata anche il “sacro cerchio”, specchio dell’universo, dell’uomo e del Grande Mistero. «Com’è dentro, così è fuori», ammonivano i vecchi Dakota. «Più vai verso il centro della ruota» sillaba lentamente l’anacoreta «più vai verso il cuore, più ti avvicini alla verità.»
Ho una pagina ritagliata dal «Corriere della Sera» del 2 agosto 2010. C’è una riflessione di Susanna Tamaro. Si chiede se servono nuovi organismi della Curia Romana per la nuova evangelizzazione. «Non occorrono nuovi input, nuovi dicasteri, nuove sfide, nuovi raduni oceanici», osserva. Semplicemente, «occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste una parte di mistero e che questa parte va nutrita». Aggiunge: «La bocca si riempie di parole alte, ma la vita, spesso, non le manifesta». Per la scrittrice è uno sfogo su certi contrasti evidenti tra teoria e prassi in casa cattolica. «La coerenza sembra non essere richiesta. Eppure, dove la coerenza c’è, dove c’è testimonianza della pienezza della vita di fede, le chiese sono piene, i nuovi eremiti sparsi per l’Appennino hanno il problema di gestire il flusso delle persone che ininterrottamente va da loro. Già, perché questi sono tempi di grande inquietudine e di grande ricerca. L’uomo in cammino non si accontenta più di formule, di luoghi comuni, di convenzioni sociali. È molto più esigente, cerca risposte vere e profonde alle domande che ha dentro. Questa sete di verità e di bellezza non può venire soddisfatta dalla mediocrità delle vite e delle testimonianze né da una liturgia che ha abbandonato il sacro diventando sempre più simile a una sorta di intrattenimento televisivo.» E quanti – incalzo – se non proprio coloro che hanno praticato il descensus ad cor senza paura della vita interiore, possono avere risposte a queste domande esigenti? «Attento, però, a dove ti può portare il cuore» mi ammonisce con decisione un eremita. «Oggigiorno c’è un malinteso spontaneismo. Rischi di andare a pescare soltanto quello che ti piace, specie se pensi di guardare dentro tradizioni diverse da quella cristiana. Una tradizione non vale l’altra: corri il pericolo di vedere quello che desideri vedere tu, non la realtà. Insomma, sono d’accordo con quanto ti ha detto suor Cristina in Umbria. La fede è trasmissione, è ricevere; significa entrare in una tradizione. La provocazione, per noi, dovrebbe essere un’altra: perché noi cristiani non riusciamo più a parlare di interiorità e per farlo dobbiamo andare in India o raggiungere qualche esotica destinazione? Vuol dire che qualcosa non funziona... Stai pur certo che al Monte Athos hanno già provato tutte le posizioni per pregare anche senza lo yoga, che potrebbe essere null’altro che un’autostimolazione. Sentire più eremiti può essere utile, ma – alla fine – tu solo puoi decidere di camminare. E fino a che punto vuoi metterti in gioco?»
Uno a zero. Io non lo so fino a che punto desidero espormi, ma un po’ ci proverò. Di sicuro, però, non rispetterò l’avvertimento. Sì, andrò a vedere anche “altrove”: per raccontare, non per farmi sedurre. Tant’è che leggo con circospezione il consistente e recente volume di Paul Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano (Fazi Editore, 2011). Mi fa comunque pensare: l’autore è un teologo americano, ex sacerdote, impegnato nel dialogo interreligioso. «La mia conversazione con il buddhismo» sostiene «mi ha consentito di fare ciò che ogni teologo deve fare per professione e che ogni cristiano deve fare personalmente, ovverossia capire e vivere la nostra fede cristiana in modo tale che essa risulti sia coerente con, sia una sfida per il mondo in cui viviamo. Il buddhismo mi ha messo in grado di conferire senso alla mia fede cristiana, così da poter mantenere la mia integrità intellettuale e affermare quanto considero vero e buono nella mia cultura; al contempo, però, mi ha aiutato a esercitare la mia responsabilità profetico-religiosa e a mettere in discussione ciò che considero falso e dannoso nella mia cultura.» È anche vicino alla teologia della liberazione. Troppo per il “teologo” Joseph Ratzinger, che lo ha liquidato così: «Knitter opta per una semplificazione radicale del dialogo interreligioso e al fine di renderlo effettivo lo fonda su un unico principio: “il primato dell’ortoprassi rispetto all’ortodossia”. Questo modo di porre la prassi al di sopra della conoscenza è una chiara eredità marxista».
Sarà. Nella “bisaccia” metto un secondo brano. Quello di Lazzaro. L’amico di Cristo che viene resuscitato a Betania. È il mistero della morte. Lo patisco. Di fronte al lutto siamo obbligati a confrontarci con ciò che conta di più nella nostra vita. Lì sento emergere l’ateo che è in me. E chi non lo sentirebbe venire fuori? Un altro eremita anonimo mi ha raccontato di un giovane entrato in monastero per dedicare la sua vita a Dio. Dopo circa due anni dice al maestro dei novizi: «Se uno ha davvero fede, non piange di fronte a un lutto». «Ah, sì?» gli risponde il confratello. «Prova un po’ a leggere il capitolo 11 di Giovanni.» Nel pomeriggio, passando davanti alla cella del giovane lo sente singhiozzare. «Hai pianto», lo pizzica il giorno dopo. «Sì, per mio fratello. È morto da dodici anni. Ho pianto per la prima volta.» Il maestro gli risponde: «Ho sentito il Signore piangere con te». Gesù, in quell’occasione, pianse. Non dobbiamo cancellare le lacrime. A volte lo facciamo perché non ci importa molto di chi se n’è andato; o perché – soprattutto per noi maschi – è disdicevole. «Alle volte ci priviamo delle lacrime facendoci scudo con la fede» aggiunge il mistico. «Una scusa, perché abbiamo paura di entrare nella nostra sofferenza, che è un luogo impervio dell’anima. Entrare nella nostra sofferenza ci permette di essere consolati da Dio.» A quel punto – nel racconto evangelico – scatta l’impensabile, stimolato dal dolore delle sorelle di Lazzaro e dei presenti: «L’amore spinge il miracolo». Nella liturgia orientale ortodossa il sabato santo viene chiamato “il sabato di Lazzaro” per ricordare tutto questo. Io, invece, sento tragicamente vera una splendida poesia di David Maria Turoldo. Poche parole: No, credere a Pasqua non è giusta fede. Come dire: dalla croce bisogna per forza passare.
C’è un terzo brano per la mia “bisaccia”: quello dei discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35). Camminano con Cristo risorto, gli parlano, non lo riconoscono. Stanno bene con quella persona. Li aiuta a tirare fuori la sofferenza: «Di che cosa state parlando?». Gli raccontano del rabbi galileo giustiziato. Non sanno ancora. Sperano che ritorni. Quando lo riconoscono, non lo vedono, non riescono più a vederlo. Bello, umano, realissimo. Mi sembra di essere sempre su quella strada. «Il Vangelo» mi avverte un altro eremita «vuole dire che non siamo un vuoto a perdere, ma solo l’amore e ciò che sei stato capace di dare in questa tua vita rimane. È un invito a non restare fermi.» Però, in me, cova il dubbio sottile: follia o sapienza secolare? Lo psichiatra Eugenio Borgna ha esplorato recentemente questi territori. Nel suo La solitudine dell’anima (Feltrinelli, 2011) azzarda: «Non c’è una conclusione possibile nel discorso senza fine sulla solitudine, che rinasca dalle aree fragili e arcane della vita interiore: della vita mistica nel silenzio di un monastero, o della vita mistica nelle frontiere aperte della vita di ogni giorno, come in Teresa di Calcutta. Non c’è una conclusione. Nel senso che, solo con un’emozione ogni volta rinnovata, ci è possibile rivolgere lo sguardo, il nostro sguardo terrestre chiuso nei confini del nostro io, negli abissi delle esperienze mistiche». È vero. Sul tema, chi se la cava con il francese, provi a leggere l’intenso libricino di un eremita carmelitano che circola da poco oltralpe (Un frère Carme, Le jardin clos, Éditions du Carmel, 2010).
Un altro psichiatra, Vittorino Andreoli, che è anche un buon narratore oltre che un prolifico saggista, nel suo accattivante Un pellegrino (Bur, 2010) immagina un uomo alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui è capace di definire. La verità, probabilmente. Tra i vari personaggi che gli fa incontrare lungo la strada c’è un eremita. Un mistico, con cui scatta un dialogo emblematico: «Sono un eremita dell’Oriente dove sorge la luce, e troverai strano che io ti parli di buio, e che magari nell’occidente dove la luce tramonta e la civiltà sta per morire, si vogliano fugare le tenebre e lasciare che la luce domini sempre. Dove c’è tenebra si cerca la luce, dove c’è luce si ha bisogno di tenebre. Voglio dirti subito che sono felice, molto felice, ma che non sono niente. Anzi sono felice di essere nulla perché l’uomo è colui che finisce nel nulla e dunque sono contento di essere semplicemente un nulla». Il pellegrino gli risponde che cammina sempre per non ancorarsi a nessun sentimento e a nessuna persona. Andreoli racconta: «L’eremita si coprì di silenzio, spense anche il cero e così si percepiva il buio totale che è nulla, e il silenzio che è nulla e non si vedeva nulla e gli occhi, che servono alla luce, erano inutili. Il pellegrino si aspettava di udire qualcosa, ma l’eremita sapeva che ogni parola era vana e dunque non insegnava nulla e non rispondeva veramente a niente».
Ultimamente – poco noti, purtroppo – sono apparsi due volumi interessanti. Le testimonianze raccolte da Cristina Saviozzi (Come gufi nella notte. Storie di eremiti del nostro tempo, Edizioni San Paolo, 2010). E gli studi di Isacco Turina dell’Università di Bologna (I nuovi eremiti. La «fuga mundi» nell’Italia di oggi, Medusa, 2007), che tentano un censimento (110-150 in Italia, 20...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. 1. Capodanno 2011. L’inizio, tra Cascia e Assisi
  5. 2. Angeli assurdi. Nella grotta siciliana del fiammingo Ugo Van Doorne
  6. 3. As´ram. Svami Yogananda Giri, svamini Ham.sananda, i molossi iberici e la montagna della saggezza induista
  7. 4. Coincidenze. Luc Cornuau, Marcel Driot e Adalbert De Vogüé nei boschi del Morvan
  8. 5. Accidia. Gabriel Bunge, ieromonaco tra gli ortodossi di Mosca
  9. 6. Luang Prabang. La spiritualità fotografica di Hans Georg Berger
  10. 7. Spoliazione. Il priore artigiano Patrice Romefort, Balzac e i poeti maledetti
  11. 8. Dom. Franco Mosconi, il predicatore di Camaldoli
  12. 9. Ciascuno a suo modo. Pirandello, i trappisti e l’officina di Charles Jegge
  13. 10. Web. San Serafino, Leletta d’Isola e le meditazioni online di Wilma Chasseur
  14. 11. No Tav. Elvio Arancio, il sufi che crede nella satyagraha
  15. 12. Canone 603. Devis Rocco e l’eremo dei giovani a Montezago
  16. 13. In memoriam. Quell’8 marzo con Adriana Zarri
  17. Ringraziamenti