La stirpe dell'aquila
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La stirpe dell'aquila

  1. 656 pagine
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La stirpe dell'aquila

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Nel fortino di Camelot i coloni romani, dopo la ritirata delle legioni, richiamate in Patria per difendere altrove la salvezza dell'Impero, resistono agli assalti delle tribù barbare. Il mondo che tanti avevano conosciuto è destinato a scomparire, preda di nemici che ambiscono a sopraffare quelle terre. Il nuovo comandante dell'insediamento è Merlino Britannico, un capo giusto e capace, e tutti, celti e romani, si affidano a lui in questo delicato momento. Al suo fianco il cugino Uther Pendragon, futuro padre di Artù. I due valorosi condottieri sono nati lo stesso giorno e la loro amicizia ha radici salde e profonde. Sono come le due facce di una stessa moneta: Uther è il guerriero instancabile, Merlino il sottile stratega. Finché saranno insieme nessuno riuscirà a impadronirsi di Camelot. Ma un crimine esecrabile, un gesto che attenta alla vita stessa di Merlino, traccerà un solco profondo tra di loro e metterà a repentaglio la sopravvivenza della Colonia e il futuro dell'intera nazione britannica.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858503959

LIBRO TERZO

RAPACI

XIII.

Dal mio posto di osservazione al limitare del bosco vidi da lontano il mio decurione esploratore uscire da un folto di cespugli e farmi cenno. Parlai da sopra la spalla.
«Ecco il segnale. Sono passati. Andiamo.» Spinsi il mio cavallo al passo lungo la valletta simile a una gola che ci aveva nascosti tra due creste. Dietro a me, quattrocento uomini cavalcavano in doppia fila. Attraversai l’ampio sentiero battuto dagli Scoti iberni e contai cento passi prima di voltare il cavallo a sinistra verso il ripido pendio che saliva fino alla cresta. I miei uomini si allinearono a sinistra in attesa del mio comando. Guardai la sommità della cresta davanti a me e contai ancora fino a cento, lentamente. Sapevo che cosa c’era dall’altro lato della cresta e non volevo compromettere troppo presto la nostra posizione. Finalmente diedi il segnale, spingemmo i cavalli su per il pendio e arrivammo sulla cresta che sovrastava la valle. In quattrocento, una doppia fila di uomini e cavalli, duecento per fila, occupavamo adesso la strada che gli Iberni avevano seguito fino in fondo alla valle. Mi fermai, accarezzando il collo del cavallo e rimirando la scena che si stendeva davanti a me.
La maggior parte delle valli in quella regione si allungava da est a ovest, allargandosi verso la costa. Eravamo rivolti a sud in una valle che invece si approfondiva allontanandosi dalla costa verso l’interno. Era larga circa due miglia dal punto in cui ci trovavamo fino alla sommità della cresta opposta. Una fitta foresta la ostruiva all’interno verso est e copriva il pendio della collina di fronte a noi, ma sul nostro lato la collina era spoglia e verde, come il fondo della valle, che si levava gradatamente in direzione del mare alla nostra destra rastremandosi poi tra le alte scogliere. Era il fondo della valle che ci aveva fatto scegliere quel posto per la nostra azione; una trappola mortale, come aveva detto mio padre. La strada attraversava perpendicolarmente la valle e proseguiva verso sud, da cresta a cresta, e più di mezzo miglio correva lungo il fondo pianeggiante della valle, fiancheggiata su ogni lato da erba dall’aspetto innocente che copriva acquitrini infidi e profondi capaci di inghiottire una truppa di cavalieri e i loro cavalli senza lasciarne alcuna traccia. Sull’altro lato di quel tratto pianeggiante, la strada ricominciava a salire verso sud, attraverso alberi sempre più fitti che la assediavano da ogni parte fino a farla somigliare a una galleria. Dal punto in cui ero seduto a cavallo non vedevo nessun segno dei duemila uomini che avevamo nascosto tra gli alberi.
Adesso il tempismo era cruciale. Prima che ci muovessimo, i nostri avversari dovevano avere superato il punto di non ritorno. Dovevano essere circondati dagli acquitrini, in modo che quando li avessimo attaccati alle spalle non avrebbero potuto disporsi su una linea di difesa. Volevamo indurli al panico. Ma gli acquitrini erano nemici nostri quanto loro. Dovevamo fermarci prima degli acquitrini, e prima ancora dovevamo far correre quegli Iberni lungo la strada davanti a loro e in mezzo agli alberi con i duemila uomini nascosti, e fuori dalla valle dove mio padre aspettava con altri mille uomini per ricevere quelli che fossero sfuggiti alla trappola.
Levai alto il braccio con lo scudo e attesi il momento propizio, godendo la tensione dei muscoli del braccio e della spalla. L’esercito nemico era un grosso bruco nero sulla strada sotto di noi; più di metà era già sul tratto che attraversava gli acquitrini. Abbassai il braccio, squillarono le trombe, e avanzammo al passo. L’effetto fu istantaneo: quelli della retroguardia che udirono le nostre trombe si girarono e ci videro arrivare, e nonostante il rumore della nostra avanzata li sentimmo gridare e avvertire gli uomini che li precedevano, e vedemmo il bruco dimenarsi terrorizzato. Rompemmo il passo per un piccolo galoppo, e la nostra linea posteriore si spostò tra gli uomini della prima linea formando una solida barriera. Nella retroguardia nemica apparvero segni di effettivo disordine: gli uomini avevano aumentato il passo, incalzando e urtando quelli più avanti. Ma non tutti erano in preda al panico. Alcuni uomini si staccarono dalla colonna e iniziarono a organizzare linee di difesa, ma era troppo tardi. La mia scelta del tempo era stata perfetta. Erano negli acquitrini. Le linee che cercavano di allargarsi sui fianchi si dibattevano nel fango, gli uomini scivolavano e cadevano impotenti, risucchiati dalla palude. E allora li mettemmo in rotta. Avevo ordinato ai trombettieri di suonare senza posa, e in quel momento i miei uomini iniziarono a urlare. La velocità della nostra avanzata era andata costantemente aumentando, ed eravamo a meno di trecento passi dalla retroguardia nemica, e a circa duecentocinquanta passi dagli acquitrini. Non c’era un solo uomo dell’esercito avversario che non sapesse che eravamo alle loro spalle. La crescente pressione da dietro si trasmetteva visibilmente alla colonna larga non meno di sei uomini e lunga cinquecento. Lo spazio tra gli uomini in marcia diminuì fino a sparire, e l’avanguardia ruppe i ranghi e corse via dalla calca, diretta all’apparente salvezza di un’altra valle che si apriva tra gli alberi in fondo alla strettoia. Tutta la colonna era in precipitosa fuga quando fermai i miei cavalieri appena prima degli acquitrini. Rimanemmo lì seduti a guardare l’ondata frangersi e spezzarsi sulla cresta della collina, dove i nemici in fuga si trovarono di fronte due coorti romane riunite in manipoli pronti ad accoglierli. Mentre l’esitazione fatale li spingeva in un mucchio, i nostri uomini nascosti li colpirono da entrambi i lati.
Militarmente, suppongo che sia stato un grande successo. Fu un massacro spaventoso, perché il nemico, ammassato sulla strada, era impossibilitato a rispondere all’attacco combinato dei nostri uomini che sbucavano dai boschi. Noi, la cavalleria, eravamo serviti allo scopo. Adesso dovevamo solo osservare e aspettare eventuali tentativi di ritirata nella nostra direzione.
All’inizio ci furono una dozzina, forse una ventina di uomini che ripiegarono dalla galleria della morte che quella strada era diventata. Quando videro che li aspettavamo si fermarono. Ma non erano in una posizione di immediato pericolo, e il loro numero crebbe fino a circa duecento, ammassati in un grande gruppo sulla strada, a mezza via tra noi e i boschi. Dopo un poco, i fuggitivi iniziarono ad arrivare in numero sempre minore, fino a cessare completamente. Invece di affrontarci, alcuni tentarono disperatamente di scappare attraverso gli acquitrini che fiancheggiavano la strada, ma l’uomo che andò più lontano fece meno di cento passi prima di cadere per l’ultima volta. Portava sgargianti colori, rosso e verde, ma quando svanì non era altro che un grumo nero. Mi rivolsi a Catone Achmed, il mio luogotenente.
«Quanti credi che siano?»
«Due, forse trecento. Difficile contarli, comandante.»
«Diciamo trecento. Su tremila.» Li guardai, rammentando Publio Varro. «Sei cristiano, Catone?»
«Sì, comandante, a Camulod.»
«Che cosa vuoi dire?» Lo fissai. «Non qui?»
Sorrise, imbarazzato. «Mitra è il dio dei soldati, comandante. Non mi ha mai abbandonato in battaglia.»
«Capisco. Il cristianesimo può essere scomodo quando si tratta di uccidere. Talvolta penso che i druidi abbiano ragione. I loro dei non sono così permalosi. Sembrano più vecchi, convivere con loro è più semplice.» Ricordai che Publio Varro aveva descritto il proprio dilemma di fronte a tre iberni legati su una spiaggia sassosa. Erano indifesi, ma cattivi e pericolosi. Ucciderli sarebbe stato un omicidio, secondo la fede cristiana, ma se li avesse liberati avrebbero ucciso altre persone, e non poteva portarli con sé. Io ne avevo di fronte trecento, adesso, e non avevo arcieri appostati in cima al dirupo che mi sollevassero dalla responsabilità di compiere una scelta. «Chissà se la Chiesa cristiana vanterà mai dei soldati tra le sue schiere?» Catone mi guardò come se fossi impazzito. Non aveva idea di che cosa mi passasse per la mente. «Catone» continuai, «questi uomini ci affronteranno. Non voglio ucciderli, ma non possiamo prendere trecento prigionieri.»
«Allora lascia che combattano, comandante.»
«Potrebbero non avere voglia di combattere. A vederli, non si direbbero granché belligeranti.»
«Prendili come schiavi, allora.»
«A Camulod? Non abbiamo schiavi, e non ne abbiamo bisogno. Gli schiavi sono una malattia. Richiama all’attenzione i trombettieri.» Anche l’assassinio è una malattia, mi diceva la mia mente, e uccidere questi uomini sarebbe un assassinio. Anche se decidessero di combattere, sarebbero morti prima ancora di iniziare. Mi chiedevo quanti ne fossero usciti dall’altra parte dei boschi, e come se la stessero passando.
Un unico squillo di tromba mi diede l’attenzione di ogni uomo. Alzai la voce. «Al prossimo segnale, vi disporrete intorno a me in un cerchio, aperto verso gli acquitrini. Quegli uomini entreranno nel cerchio. Lo voglio profondo un uomo. Se decidono di combattere, un uomo ogni due dalla mia sinistra e dalla mia destra comporrà immediatamente tre formazioni a punta di freccia, una dietro di me, una dietro al luogotenente Catone e una dietro al luogotenente Maripone. Che questi uomini si facciano riconoscere ora.» Mentre in un rimescolio di interesse i soldati si contavano a partire dalla mia sinistra e dalla mia destra, io girai il mio cavallo, chiedendo a Catone e a Maripone di seguirmi, e tornai indietro fino a essere settanta passi buoni dal punto in cui la strada emergeva dagli acquitrini sulla terraferma. Feci cenno al trombettiere e un altro squillo diede inizio al comporsi delle formazioni secondo i miei ordini.
«Maripone» dissi, «voglio che tu ti metta qui alla mia destra, a metà tra me e la fine della linea. Prendi posizione trenta passi indietro rispetto al cerchio. Catone, fai lo stesso alla mia sinistra.» Feci un altro cenno al trombettiere, e un altro squillo riportò a me l’attenzione di tutti. Alzai di nuovo la voce. «Quando le punte di freccia saranno formate, due squilli saranno il segnale per gli uomini ancora rimasti nel cerchio di indietreggiare immediatamente e di mettersi in formazione dietro alla mia punta. Voglio una formazione compatta, quattro ranghi di cinquanta uomini. Quando il blocco sarà disposto, muoverò la mia formazione a destra, sgomberando il terreno. È chiaro?» Li vidi annuire. Avevano capito. Alzai ancora di più la voce. «Voglio intimidire quegli uomini, ma non combatterli a meno che non ci siamo costretti. Se tentano di attaccare una sezione del cerchio durante la formazione delle punte di freccia, quella sezione indietreggerà e cercherà di evitarli senza permettere loro di fuggire. Ricordate che sono appiedati. Dovranno corrervi dietro. Li aspetteremo qui. Senza parlare. Senza muoverci. Che vedano la nostra disciplina.» Mi rivolsi al soldato che era dietro a me, alla mia destra, e reggeva il mio stendardo. «Vieni con me.» Spinsi il mio cavallo fino davanti al cerchio e lì mi fermai. Nel pugno d’uomini alla testa del gruppo sulla strada c’era del fermento. Alla fine un uomo enorme, che superava di tutta la testa e le spalle i suoi compagni, si staccò dagli altri e avanzò con passo deciso verso di me. I suoi compagni lo seguirono, e io rimasi ad aspettarli.
L’uomo in testa al gruppetto camminava con fare altezzoso, e quando fu più vicino vidi che era sbarbato. La cosa mi sorprese, perché gli esponenti del suo popolo che avevo incontrato in passato portavano barbe intere o lussureggianti baffoni. Quando fu più vicino ancora, e vidi perché non aveva peli sul viso, la sorpresa si mutò in sconcerto. Era solo un ragazzo! Un ragazzo gigantesco, ma per età pur sempre un adolescente. Intorno a lui aleggiava un barbarico sfarzo: indossava una tunica gialla bordata di rosso, il torace massiccio era protetto da una corazza di bronzo, e gambali di pelliccia gli avvolgevano i polpacci robusti; al braccio sinistro, sopra al polso, portava un bracciale d’oro battuto, e il torchio d’oro di un capo celtico gli adornava il collo. Una spada alquanto lunga pendeva da una cinghia buttata a tracolla sulla spalla destra.
Quando raggiunse il confine degli acquitrini tra le punte dell’anello formato dai miei uomini, si fermò e percorse con lo sguardo il cerchio aperto, da sinistra a destra, prima di riportare gli occhi su di me. Il suo volto era inespressivo. Gli uomini alle sue spalle si erano fermati insieme a lui. Nessuno muoveva un muscolo. Alla mia destra un cavallo sbuffò forte e scalpitò, morso da un insetto. Il silenzio si prolungò, e poi il ragazzo imberbe allungò una mano dietro a sé e tolse dalla tracolla un’ascia di guerra. La roteò piano tenendo la lama nella destra e afferrò l’impugnatura con la sinistra, dietro la nuca. Avanzò ancora, e si fermò a circa dodici passi da me, mentre i suoi uomini si aprivano a ventaglio formando un semicerchio opposto a quello dei miei. Ovviamente aveva dato gli ordini prima di avvicinarsi. Non aveva distolto gli occhi da me.
«E così» disse. «È tempo per noi tutti di morire.» I suoi occhi pieni di disprezzo andarono da me al cerchio dei miei uomini. «Vedrete che non esiteremo a portarci appresso un po’ di compagnia.»
Mi accorsi con stupore che parlava nella sua lingua e che tuttavia lo comprendevo con facilità. Pronunciava alcune parole in modo diverso, era diverso l’accento, ma il linguaggio fondamentale era lo stesso del popolo di Uric. Scelsi le parole con cura e gli risposi nella sua lingua. «Se desiderate morire, possiamo accontentarvi in fretta» dissi. «Ma chiediti prima se è davvero necessario.»
Restò a bocca aperta per la meraviglia. Era evidente che stava parlando a se stesso.
«Come mai uno stronzo romano come te parla la lingua dei Re?»
«La lingua dei Re? I Romani la chiamano la lingua dei barbari, che io sappia. Ma noi non siamo Romani.»
Corrugò appena la fronte, e i suoi occhi guizzarono incerti dalla mia armatura alle insegne. «Non siete Romani? Che cosa significa? Siete vestiti come Romani. Agite come Romani. Chi siete, allora, se non siete Romani?»
Strinsi l’asta della lancia e tirai le redini del cavallo che cercava di sottrarsi alle mosche. «Siamo i possessori di questa terra» dissi. «E voi siete predatori. Forse siamo vestiti come Romani e combattiamo di certo come Romani, ma siamo Britanni, preoccupati solo di difendere le nostre case, il nostro popolo e le nostre terre da quelli come voi, invasori d’oltremare.»
Sollevò la testa altera. «Invasori, eh?»
Scrollai le spalle. «Invasori, pirati, predatori, non fa differenza. Non appartenete a questo luogo e venite in guerra, perciò, come hai detto, è tempo per voi di morire.»
Si acquattò in posizione d’attacco e i suoi uomini si prepararono a imitarlo. «Venite a ucciderci, allora, se potete.»
Gli sorrisi dall’alto del mio cavallo. «Oh, possiamo. Non dubitarne.» Iniziai ad alzare il braccio per dare il segnale di ingaggiare battaglia, ma mi fermò.
«Aspetta!»
Abbassai il braccio. «Ebbene?»
Si bagnò le labbra e guardò di nuovo i miei uomini in cerchio, tutti con gli occhi puntati su di me. «Prendici prigionieri!»
Sorrisi mio malgrado, ammirando l’impudenza di quel ragazzo. «Prigionieri? Trecento uomini? Non puoi dirlo seriamente! Che cosa ce ne faremmo di trecento prigionieri? Dovremmo passare il resto della nostra vita a farvi la guardia in attesa che vi ribelliate e cerchiate di scappare?» Scossi la testa. «No, non credo che sia una buona soluzione...»
Mi interruppe. «Non dovrete trattenerci a lungo. Re Lot pagherà per la nostra libertà.»
Allora risi forte. «Lot? Re Lot? A quel bruco immondo sono spuntate ali di farfalla? Re Lot!» Smisi di ridere e scossi di nuovo il capo. «Sei due volte pazzo, gigante. Pazzo a pensare che a quell’animale importi se vivete o morite, e pazzo a pensare che vi venderemmo a lui per permettergli di usarvi ancora contro di noi.»
Il ragazzo riprese a parlare con enfasi e convinzione. «Pagherà il nostro riscatto, lo giuro! Deve farlo! Non ha altra scelta.»
Le sue parole mi fecero riflettere. Calmai di nuovo il mio cavallo e guardai il gigante negli occhi. «Tu mi incuriosisci. Lot, da quel poco che so di lui, avrà sempre un’altra scelta. Ma prosegui. Dimmi che cosa intendi.»
Si bagnò ancora le labbra e lasciò cadere a terra la testa dell’ascia, raddrizzandosi dalla posizione di attacco. «Io sono Donuil, nobile principe del popolo che i Romani chiamano Scotii. Mio padre Athol è Ard Righ, Alto Re. Mia sorella Ygraine è promessa sposa a Lot di Cornovaglia, e Lot e mio padre hanno stretto un’alleanza: lui ci aiuta nelle nostre guerre; noi lo aiutiamo nelle sue. Questo era il nostro primo combattimento in suo nome.»
«Non è andato molto bene, vero?» Alzai il braccio e il nostro cerchio si divise come avevo ordinato, lasciando un anello di uomini a cavallo dietro ai quali si disposero tre grandi formazioni a punta di freccia, con la punta rivolta all’interno. Il gigante osservò i miei uomini eseguire gli ordini come macchine, e il suo viso perse un po’ del suo altezzoso colorito. Tre singoli squilli di tromba mi avvisarono che la manovra era stata portata a termine, e alzai nuovamente il braccio. Il resto del cerchio si ruppe e formò un massiccio blocco quadrato dietro la mia punta di freccia. Il giovane gigante mi guardò con espressione desolata.
«È tempo di morire, amico mio» dissi. «Non possiamo permetterci di lasciarvi in vita, e inoltre, con un po’ di fortuna, mio cugino Uther ha già ucciso Re Lot. Combattete lealmente, e addio.» Di nuovo feci per alzare il braccio e di nuovo mi fermò.
«Tuo cugino Uther? Allora tu devi essere Merlino.»
Chinai leggermente il capo. «Lo sono.»
«Dicono che sei un uomo di buon senso e di onore.»
«Davvero?» Un sorriso asciutto mi tirò le labbra, e rimpiansi di dover uccidere quel ragazzo. «E chi lo dice? Lot di Cornovaglia non sa nulla di buon senso o di onore, e sono sorpreso di sentire che i suoi alleati fan mostra di conoscerli.»
«Ho sentito i druidi parlare di te.»
Stavo diventando impaziente, e quella situazione iniziava a mettermi a disagio. Non avevo nessuna voglia di fare amicizia con un nemico prima di ucciderlo.
«Dove vuoi arrivare?» La mia voce rifletteva la mia impazienza.
«Farò un patto con te, Merlino.» Nei suoi occhi vidi la disperazione, e sentii un informe rimescolio di disgusto.
«Che patto dovrei fare con te?» chiesi con un mezzo ghigno che mi era involontariamente salito alle labbra.
«Vita! Vite... I tuoi uomini e i miei.»
«Prosegui» dissi, «ti ascolto.»
Deglutì a fatica e guardò gli uomini raccolti alle sue spalle. Erano cupi in volto, ma in segno di rispetto per il figlio del loro re mantenevano un silenzio assoluto. Il ragazzo parlò.
«Sono morti in molti. Il mio popolo non si riavrà mai da questa perdita. Siamo battuti.» Sospirò rabbrividendo di raccapriccio. «Se dobbiamo morir...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. IMPLUMI
  5. AQUILOTTI
  6. RAPACI
  7. RE