La sognatrice bugiarda
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La sognatrice bugiarda

  1. 210 pagine
  2. Italian
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La sognatrice bugiarda

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Informazioni sul libro

Jim non aveva mai notato una donna prima di quel momento, troppo concentrato sulla fuga dalla miseria della casa in Irlanda in cui era nato, sul lavoro da apprendista cuoco nella cittadina inglese di Stockport che aveva appena trovato. Ma quella che stava di fronte a lui era diversa da tutte le altre. Dall'aspetto si sarebbe detta una gran signora, i modi raffinati e la pelliccia di visone adagiata sulle spalle. Gli occhi, però, erano inconfondibili: quella donna aveva fame. Jim aveva deciso di non fare domande, le aveva preparato il suo piatto migliore e l'aveva lasciata andare via, senza saldare il conto e senza una parola. Rose era fatta così. Amava fingersi una persona che non era, costruirsi ogni giorno una vita diversa. Fin da bambina raccoglieva dalla strada cartoni laceri e li portava a casa come se fossero gli eleganti arredi del suo palazzo. Oppure si recava nei giardini delle zone altolocate raccontando bugie a chiunque volesse ascoltarla. Quando, però, anni dopo il loro primo incontro, Rose e Jim si ritrovano per caso in una strada di New York, lei sarta in un magazzino putrido e malfrequentato e lui venditore ambulante di hot-dog, tutto quello che sono stati costretti ad affrontare e le menzogne che hanno accompagnato il loro primo incontro sembrano scomparire. Per Rose, lui potrebbe rappresentare l'occasione per amare finalmente la propria vita e per smettere di inventarne una migliore. Un omaggio dedicato dall'autore a sua sorella Rose, l'elemento più ribelle e audace della famiglia Bernstein. Una storia toccante sulla sottile linea che divide i sogni dalla realtà.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858506240

Capitolo Uno

Mia sorella Rose aveva un modo tutto suo di tenere il broncio: scappava di casa. A un tratto non la trovavamo più. Ma dopo le prime volte imparammo dove cercarla. Gironzolava su al parco, come chiamavamo il quartiere di case e persone ricche intorno a Hollywood Park. E non ho dubbi che immaginasse di vivere in uno di quei bei palazzi.
Quando ci accorgevamo della sua sparizione, facevamo a turno per andare a recuperarla. Un giorno che toccò a me pioveva, a quanto ricordo. Mia madre mi diede un ombrello, e io risalii spedito la collina fino al parco. Giunto alla prima schiera di case, vidi Rose che faceva su e giù senza sosta di fronte ai giardinetti circondati da eleganti inferriate che stavano sul davanti delle imponenti palazzine. C’era del metodo nella sua follia. Voleva apparire la figura triste, fradicia che era. Voleva che la invitassero a entrare in una di quelle case a scaldarsi al fuoco, e magari a prendere pure una tazza di tè. E questo fu esattamente ciò che accadde mentre mi avvicinavo. Da una grande villa in stile Tudor uscì di corsa una domestica, gridando: «Venite a ripararvi dalla pioggia, poveri piccoli! Siete bagnati come pulcini».
Io ero inzuppato, sofferente, infreddolito. Dentro c’era un bel calduccio, e una signora anziana dai capelli candidi sedeva davanti al camino acceso con una tazza di tè in mano. Appena entrammo, alzò la testa con espressione meravigliata e disse: «Che ci facevate là fuori, poveri bambini?».
Fu Rose a rispondere. «Aspettavamo il nonno.»
«E come si chiama, vostro nonno?» chiese la signora.
Con mia grande sorpresa, Rose affermò: «Si chiama Lord Hathaway. Un tempo abitavamo con lui in una di queste case, così ho pensato che potesse trovarsi ancora qui e aiutarci. Sa, dopo la morte della mamma, papà si è risposato, ma la nuova moglie non è molto gentile con noi. Ci ha fatto capire che non eravamo benvoluti in casa con loro. Papà è troppo preso dai suoi purosangue per badare a noi, così, dopo essere già scappata in un paio di occasioni, oggi ho finalmente deciso di farlo una volta per tutte e di non tornare mai più. A quanto sembra, però, il nonno se n’è andato».
Ascoltavo a bocca aperta quelle scempiaggini chiedendomi da dove le uscissero. Papà e i suoi purosangue, figuriamoci! L’unico contatto con i purosangue nostro padre lo aveva alla sala corse il fine settimana, dove scommetteva buona parte della paga che riceveva. Quanto alla signora dai capelli bianchi, non saprei dire se avesse creduto a una sola delle parole di Rose. Tuttavia erano quelli gli eccessi e le fantasticherie cui si abbandonava una povera ragazzina come lei per compensare il fatto di essere nata da una famiglia bisognosa.
Personalmente non ci vedevo niente di male. Anzi, in casa Rose era la meno molesta di tutti. Nelle baruffe non metteva mai becco. Era silenziosa, riservata, e gli insulti le sfuggivano solo di rado. Eppure era capace delle cattiverie più inaudite. Ricordo perfettamente un episodio in particolare. In quinta elementare cominciai a pubblicare un giornalino dal titolo «Il pettegolezzo». Consisteva in un foglio di due pagine, battute a macchina da una ragazza nostra vicina che studiava da stenografa, e conteneva le piccanti ultime notizie della nostra strada. Per fare un esempio, uno dei titoli recitava: FUGGITO IL GALLO DELLA SIGNORA ZAREMBAR. L’articolo raccontava di come il prezioso pennuto fosse riuscito a svignarsela dal cortile sul retro per darsi alla pazza gioia tra le galline. Un altro era intitolato: IL RABBINO HA BISOGNO DI SOLDI PER ACQUISTARE UN NUOVO PAIO DI MUTANDE DI LANA. Si avvicinava l’inverno, e il sant’uomo prevedeva che il cheder, la piccola scuola dove istruiva i bambini nella lingua e nella religione ebraica, sarebbe stato molto freddo. Il giornalino era offerto in prestito alla cifra di un penny a lettura e, nonostante ci fossero già delle lamentele sui miei pezzi scandalistici, andava a ruba. Quel giorno, quando l’ennesima donna venne a offrirmi il suo penny per leggerlo, corsi in casa a prenderlo.
Feci appena in tempo a vedere quel che restava del mio giornale divorato dalle fiamme del caminetto. Andai su tutte le furie. Nella stanza c’era solo Rose. Poteva essere solo lei, la responsabile. Le saltai addosso stringendo i pugni e urlando, ma lei se la diede a gambe e per ore non si fece più vedere.

Capitolo Due

Una delle cose su cui mia madre insisteva sempre era che andassimo e tornassimo da scuola tutti insieme. Come qualunque altra donna ebrea, aveva paura dei batesemas (il nomignolo coniato dagli ebrei del Lancashire per descrivere i tipi violenti che si piazzavano agli angoli delle strade e tormentavano gli ebrei di passaggio con i loro commenti antisemiti, e che a volte ci aggredivano e ci conciavano per le feste).
Finché fu Lily a guidarci, gli incidenti furono pochissimi. Per qualche ragione la rispettavano. Non saprei dire perché. L’ultima cosa che ci si poteva aspettare era che gente come quella avesse riguardo per chi studiava, e Lily aveva fama di essere molto intelligente. Eppure doveva esserci qualcosa in lei che il più delle volte li teneva a distanza. Lily, però, ci aveva già lasciati per proseguire la propria istruzione nel laboratorio con mio padre. E quando Rose la sostituì, i batesemas presero di mira quella ragazzina smilza e piena di arie che camminava sempre qualche passo avanti per dimostrare di non aver niente da spartire con noi. Di solito il capo del gruppo era Billy Hines, un nanetto, considerato che doveva avere dodici o tredici anni. Era feroce come una tigre. Aveva l’abitudine di fare la posta a noi ebrei nascosto davanti ai portoni d’ingresso, pronto a piombarti addosso e a metterti al tappeto a suon di pugni. Era a capo della sua gang anche la mattina in cui si mise a dar fastidio a Rose e a riderle dietro: «Ma guardatela, la principessa ebrea! Dove te ne vai, principessa? Al ballo per l’incoronazione? Verrà il re in persona a prenderti con la zucca trasformata in carrozza? Meglio se ti porti le scarpine di cristallo, allora!».
Per Rose era troppo. Per un po’ subì, poi si fermò di colpo, si girò e, scagliandosi contro Billy, prese a picchiarlo e a graffiargli la faccia lasciandoci tutti di sasso. Proprio come ci stupì vedere Billy indietreggiare e poi Rose spingerlo a terra, sederglisi sopra e seguitare con i pugni e le unghiate mentre noi assistevamo increduli. Alla fine lo lasciò andare, e lui si allontanò carponi, sconfitto e umiliato, con il viso pesto e sanguinante.
Fu un atto eroico da parte di Rose, e la notizia fece il giro della strada. Erano tutti ammirati per quello che aveva fatto. Le si avvicinavano per darle una pacca sulla schiena, per abbracciarla, per complimentarsi di una personalità tanto straordinaria e combattiva. Perciò è probabile che la cosa le avesse dato un po’ alla testa. Forse si convinse di averlo davvero, l’animo da combattente. Ma non molto tempo dopo affrontò la persona che nessuno aveva mai osato sfidare prima: mio padre.
Successe a colazione. Scendemmo tutti al piano di sotto pressoché in contemporanea. Doveva essere domenica. Non si andava né al lavoro né a scuola. Poco dopo, stranamente, anche mio padre scese in tempo per unirsi a noi, sedendosi a capo tavola come sempre, il più lontano possibile da tutti gli altri. Poi venne Rose e occupò l’unico posto rimasto, proprio di fronte a lui. E subito fece la cosa che aveva già fatto altre volte e a cui noi tutti eravamo preparati. Eccetto nostro padre. Trovandosi leggermente scostata dal tavolo, invece di avvicinare la sedia al tavolo accostò il tavolo alla sedia, lasciando un vuoto tra mio padre e il bordo. Lui si limitò a fulminarla con gli occhi e a tirare di nuovo il tavolo a sé, lasciando il vuoto dalla parte di Rose. Ma lei se lo avvicinò di nuovo. E lo stesso fece lui. E questo tiro alla fune sarebbe durato un bel po’ se non fosse che nostro padre si alzò, diede il solito colpo di tosse che precedeva la sfuriata e, tirando su i calzoni, tuonò: «Cosa diavolo credi di fare, eh?».
Rose non rispose.
«Pensi di poter dettare legge perché hai preso a unghiate Billy Hines? Credi di farci paura? Be’, a me non fai paura e, se non la pianti subito, il tavolo te lo spacco in testa!»
A quel punto Rose disse qualcosa che, di nuovo, nessuno avrebbe mai osato dire.
«Chiudi il becco!»
Un attimo dopo, lui allungò il braccio e le diede uno schiaffo che suonò come lo schiocco di una frusta. Rose balzò in piedi, con le labbra tremanti e una mano sulla guancia colpita. E io la sentii dire: «Questa me la paghi».
Poi uscì di corsa e non si fece più vedere per ore.
Dove fosse stata per tutto quel tempo, non lo so. Forse aveva fatto il giro della città per sbollire la rabbia camminando. Tornò che era pomeriggio inoltrato, ma si rifiutò di mettere piede in casa. Almeno finché ci abitava lui, a quanto ci fece capire. Preferì restarsene seduta sulla soglia fin quasi a sera, nonostante mia madre la chiamasse dalla finestra pregandola di entrare a mangiare qualcosa. Fingeva di non sentire e rimaneva lì accoccolata a rimuginare.
La giornata passò e, mentre la gente rincasava, in strada fu tutto un risuonare di zoccoli e di porte che si aprivano e si chiudevano spandendo il profumo della cena che cuoceva in ogni casa. E più tardi, vista la serata calda e piacevole, furono in molti a sistemarsi fuori sulle sedie, con il grammofono dei Forshaw in sottofondo e il crepuscolo che avanzava e avanzava, finché il profilo dei tetti non si stagliò netto contro un cielo quasi bianco, sulla terra scura, e i tozzi comignoli non risaltarono sullo sfondo del cielo.
Ma Rose rimase sulla soglia, a elaborare il suo piano. Voleva uccidere nostro padre. Aveva pianificato tutto nel dettaglio. Avrebbe atteso finché non fosse scesa la notte, finché non ci fossimo addormentati tutti, per poi salire di soppiatto al piano di sopra e ucciderlo. Non le restava che aspettare.
E fu proprio ciò che accadde. Si fece buio. La strada tornò quieta e deserta. Per un po’ un rettangolo di luce incorniciò le tende alle finestre, ma presto anche quello scomparve e calò l’oscurità. Venne il lampionaio, che con la lunga asta accese il lampione all’angolo di casa nostra, e la sua luce verdognola illuminò la figura rannicchiata sulla soglia. Finalmente fu chiaro che dormivamo tutti. Rose si alzò ed entrò silenziosa, badando a non far cigolare la porta mentre la chiudeva.
Passò prima dalla cucina. Era buio, ma lei sapeva come muoversi. E ci vedeva abbastanza da prendere ciò che le serviva. Aprì il cassetto delle posate, dove c’erano diversi coltelli. Ne estrasse quello più grosso e più lucido, un coltello da pane dalla lama larga e affilata con cui mia madre tagliava le pagnotte di pane nero che portava da Manchester ogni settimana per venderle ai vicini. Salì i gradini uno per volta ed entrò in camera dei nostri genitori. Dormivano profondamente, e papà russava appena con la bocca un po’ aperta, supino; una posizione che le avrebbe facilitato le cose. Dopo un attimo di esitazione, Rose gli affondò la lama nel petto, una, due, tre volte, e poi rimase lì, con il coltello insanguinato in mano, senza sapere bene cosa farne. A un tratto le venne un’idea e posò il coltello sul letto dalla parte di mia madre, convinta di aver trovato il modo di prendere due piccioni con una fava. Così la polizia avrebbe accusato la mamma dell’omicidio. Perfetto! Uscì in silenzio dalla stanza, scese le scale e si accasciò di nuovo sulla soglia, sfinita.
Circa un’ora dopo fu svegliata dal manganello di un poliziotto che le pungolava il fianco. Alzò la testa e vide che la guardia di ronda durante la notte l’aveva sorpresa a dormire sulla soglia.
«Che ci fai qui?» le domandò.
Rose fissò lo sguardo sull’uniforme. Possibile che la polizia fosse arrivata così presto?
«È casa mia» rispose.
«Allora perché non sei dentro?»
«Non riuscivo a dormire. Sono scesa a prendere un po’ d’aria.»
«Be’, ti conviene rientrare» la ammonì lui severo. «Se ti ritrovo ancora qua fuori nel cuore della notte, sarò costretto a portarti alla centrale.»
Sollevata, Rose non disse una parola e si fece aprire la porta. Appena il poliziotto la richiuse, tornò di sopra. Senza guardare in camera dei genitori andò dritta nella sua e si sdraiò nella metà di letto che Lily le aveva lasciato. La mattina dopo si svegliò molto tardi e sentì che gli altri stavano facendo colazione. Appena udì gli urli di nostro padre che si lamentava con la mamma di qualcosa, capì che non era cambiato niente. Non lo aveva ucciso, era stato solo un sogno, e ancora una volta fu pervasa da un senso di sollievo.

Capitolo Tre

Era il 1914. Nell’agosto di quell’anno sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale con la Germania. La guerra apportò immediati cambiamenti alla nostra strada. Su entrambi i lati, gli uomini partivano, e nelle case restavano per lo più donne e bambini. Uno dei primi a partire fu Arthur Forshaw. Non credo avesse più di sedici anni all’epoca e, anche se in seguito avrebbero chiamato alle armi persino ragazzi di quell’età, Arthur entrò subito nell’esercito come volontario. Quando successe, non ebbi più il compito di consegnare i bigliettini che lui e Lily si scambiavano in segreto. Alla madre di Arthur non dispiaceva. I suoi genitori erano entrambi tolleranti e si erano subito accorti della storia d’amore nata tra i due. Ma ormai non c’erano più bigliettini da consegnare. Cominciarono le lettere, però. Si scrivevano in segreto, come facevano con i bigliettini. Arthur si guardava bene dallo spedire a casa nostra le lettere indirizzate a Lily, per paura che nostra madre le gettasse prima che arrivassero alla figlia. Così le indirizzava presso i genitori e, a un preciso segnale della signora Forshaw, vale a dire appena mi rivolgeva un cenno dal lato opposto della strada, sapevo che era arrivata una lettera per Lily e correvo a prenderla. Andò avanti così per tutta la durata della guerra. Arthur ne uscì incolume. E la prima cosa che fece appena rivide la nostra strada, naturalmente, fu andare a casa dei genitori. Terminati i saluti, però, attraversò la strada con passo spavaldo, una cosa che non aveva mai fatto prima, si avvicinò a casa nostra, bussò e chiese di Lily. Fu mia madre ad aprirgli, ma si rifiutò di fargliela incontrare. Dapprima Arthur s’indignò e disse: «Per cosa ho combattuto tutti questi anni? Pensavo che simili sciocchezze fossero superate. È questa una delle ragioni per cui c’è stata la guerra». Ma non servì a niente. Mia madre restava ancorata alla convinzione tradizionale che una persona di religione ebraica non dovesse mai farsi vedere in compagnia di un cristiano, e rifiutava di prendere anche solo in considerazione l’ipotesi di un matrimonio. Ma il matrimonio ci fu, eccome.
Accadde una domenica. Lily mi chiese se avevo voglia di fare una passeggiata. In genere sapevo di cosa si trattava. Mi usava come copertura, perché il vero scopo della passeggiata era vedere Arthur. Di solito si incontravano in una locanda di campagna chiamata Seventeen Windows, un delizioso piccolo cottage gestito da una certa signora Fogg e frequentato perlopiù da radicali, liberali e negli ultimi tempi anche da membri del fiorente Partito Laburista. Quella domenica c’erano tutti, e fino all’ultimo non seppi che avrei assistito al matrimonio di Lily e Arthur. Credo che a officiare la cerimonia fosse un ex ministro, un personaggio piuttosto noto tra le file dei laburisti. Una volta sposata, Lily non tornò a casa. Lei e Arthur andarono nel cottage che avevano preso in affitto a Marple, dove Arthur aveva trovato lavoro come insegnante. Pertanto toccò a me rincasare e dare la notizia alla mamma, che ne rimase sconvolta. Dapprima non riuscì a crederci. Il giorno dopo, demmo inizio al lutto, perché un ebreo che sposa un cristiano è considerato morto dagli ebrei ortodossi. Perciò tenemmo la cerimonia di cordoglio che chiamano shivah. Per una settimana tutti i membri della nostra famiglia rimasero seduti al buio con i soli calzini ai piedi, a recitare le preghiere. Poi, tutto finì.
Quanto a Rose, la guerra significò molto per lei, anche perché adesso poteva dimostrare di avere davvero un animo da combattente. In men che non si dica, si arruolò come volontaria nel corpo infermiere della Croce Rossa e in brevissimo tempo si guadagnò la fama di Florence Nightingale delle Forze Armate. Era sempre pronta a rendersi utile. Prestava servizio in ospedale, accanto ai soldati feriti, teneva la mano ai moribondi, curava le ferite, cambiava le bende e faceva qualunque cosa fosse in grado di fare un’infermiera. E, come se non bastasse, si schierò in prima linea nel rivendicare alle donne il diritto di prestare servizio al fronte, e fu la prima donna a guidare un reparto fino in Francia, nel cuore del conflitto.
Eccola avanzare sui gomiti in un campo mentre infuria la battaglia, tra il sibilo dei proiettili, lo scoppio delle granate, il rombo dei cannoni, il crepitio incessante dei mitragliatori, impavida nel bel mezzo di quel finimondo. Laggiù giace ferito un ufficiale britannico di importanza cruciale per le sorti del conflitto. È decisa a raggiungerlo e a portarlo in salvo dietro le linee amiche, dove sarà in grado di curarlo. Così stringe i denti e procede, un centimetro alla volta. Qualcosa di appuntito le ferisce la gamba. Una scheggia. Ormai le conosce bene. Ne ha estratte a decine dalle gambe dei soldati. Ma né il sangue né il dolore riescono a fermarla. Avanza carponi, conficcando le unghie nella terra che le riempie la bocca, finché, nonostante tutto, centimetro dopo centimetro, riesce a raggiungerlo. E una volta là non perde tempo, anche se ha esaurito le energie. Per quanto l’impresa sembri impossibile, riesce a circondare l’ufficiale con il braccio e a trascinarlo dove entrambi saranno al sicuro. E fa tutto da sola. Un grande atto di eroismo che non passa inosservato. Ne parlano tutti i giornali. Il nome di Rose si sente dappertutto. È acclamata ovunque vada. E il bello è che le viene addirittura conferita la Victoria Cross, di cui è insignita durante una cerimonia pubblica alla presenza di un’immensa folla acclamante. È nientemeno che il re in persona a metterle la Croce al collo e a stringerle la mano. È una donna famosa, ormai.
Ma ecco che, dopo che il re l’ha decorata e la folla esulta, subentra un’altra voce. Quella di mia madre, che da casa grida: «Rose, fammi un piacere, vai alla drogheria dei Levine. Sono appena arrivate le razioni alimentari e la gente si sta già mettendo in ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. La sognatrice bugiarda