Come una specie di sorriso
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Come una specie di sorriso

  1. 112 pagine
  2. Italian
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Come una specie di sorriso

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La ragazza che al fidanzato in mostruoso e reiterato ritardo risponde con nonchalance: "Oddio, scusami, non sono ancora pronta, mi dai cinque minuti?" sta affermando la superiorità dell'essere umano su quello che gli capita. In poche parole, sta facendo dell'ironia invece di usare un qualunque oggetto contundente. È molto più pulito, dignitoso e decisamente liberatorio. Lella Costa, liquidatrice del suddetto fidanzato e oggi, non per caso, signora dell'ironia, ci racconta come mai questa arte dello sguardo obliquo sia indispensabile per affrontare con leggerezza gli sgambetti della vita. Attingendo ai classici della letteratura e della musica, da Socrate all'immenso Shakespeare, da Lewis Carroll al Signor Bonaventura, da Paolo Conte a De André, e dal proprio repertorio, ci fa scoprire che l'ironia è un filo rosso, probabilmente il vero talismano che nei secoli ha protetto l'umanità da adolescenze inquiete, cuori infranti, rughe precoci, su su fino a guerre, dittature vere e democrazie da operetta. E benché l'ironia sia difficile da spiegare (esistono fior di saggi per quello), forse impossibile da insegnare e da imparare (diffidare di chi si autoproclama ironico), si può pur sempre viralizzare, sin dalla più tenera età. Anche il sorriso, come lo sbadiglio, è contagioso.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858507582

Così vicini, così lontani

«Fatti non foste a viver come Drupi.»
Parafrasi dantesca attribuita ad anonimo studente
di scuola media inferiore, Italia,
primo decennio del terzo millennio.
Nel 1991 usciva postumo un prezioso saggio di Italo Calvino intitolato Perché leggere i classici: mettendo in pratica senza alcuno sforzo apparente quelle qualità che nelle Lezioni americane aveva definito indispensabili per affrontare il nuovo millennio, e cioè molteplicità, visibilità, esattezza, rapidità e leggerezza, il molto rimpianto autore caraibico (se uno nasce a Cuba tecnicamente è caraibico, no?) ci regala una lettura di costante godimento, impreziosita da qualche perla di pura ironia.
«I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito “Sto rileggendo...” e mai “Sto leggendo...”»
E lui li aveva letti e riletti di sicuro, li padroneggiava con una tale confidenza da riuscire a citarli, addirittura a riscriverli senza mai rischiare non dico il plagio, ma neppure la parodia, che si trattasse di un’“altra Euridice” o di un folgorante «Esplodere o implodere, questo è il problema» (li trovate nelle Cosmicomiche, insieme a un sacco di altre meraviglie).
Ora, a me sembra che la chiave di tutto stia proprio nel concetto di “confidenza”, che è l’esatto contrario dell’accademismo, della retorica e di tutti quegli atteggiamenti deferenti, sussiegosi e iniziatici che hanno creato e continuano a creare una sorta di embargo intorno alla parola “cultura” (anche in tempi recenti c’è chi si è fatto vanto di «Mettere mano alla pistola» ogni volta che la sente pronunciare: e se invece cominciassimo a mettere mano alla cultura ogni volta che sentiamo pronunciare la parola “pistola”? magari anche nell’accezione secondaria, tipicamente lombarda, che l’annovera tra i sinonimi del più noto “pirla”?).
Insomma, quello che sto cercando di dire è che se uno li ha letti veramente, i classici (basta qualcuno, per carità, mica tutti), e magari ha avuto la fortuna di avere degli insegnanti, dei mentori, dei parenti, degli amici o delle fidanzate che gli hanno fatto capire dove sta la loro grandezza e perché sono considerati a tutti gli effetti “nostri contemporanei” nonostante l’anagrafe; o che semplicemente lo hanno aiutato a decifrarne il senso (e la trama! che soprattutto in teatro a volte risulta totalmente incomprensibile se qualcuno non te l’ha spiegata prima); o che più semplicemente ancora li hanno letti davanti a lui ricavandone palese diletto e godimento, ecco, è probabile che costui non solo li amerà, ma li considererà “roba sua”, materiale a cui attingere liberamente, con cui giocare, su cui addirittura fare dell’ironia. Meglio se consapevole.
Quel «Fatti non foste a viver come Drupi» che ho citato in apertura di capitolo non è soltanto esilarante; è commovente, perché nel clamoroso, geniale strafalcione il giovanissimo autore dimostra non solo di avere effettivamente studiato il ventiseiesimo canto dell’Inferno, ma di averlo capito e assimilato al punto da attualizzarlo in una perfetta metafora: chi infatti meglio di Drupi (assurto a simbolo della sottocultura canzonettara imperante, non certo in quanto cantautore in sé, che abbiamo avuto ben di peggio) rappresenta l’esatta traduzione metrica e semiotica dell’originale “bruti”? In quel “Drupi” forma e sostanza coincidono mirabilmente, senso e segno si fondono parafrasando alla perfezione l’eccelso testo originale. Purtroppo non è dato sapere se nell’autore vi sia stato intento consapevole, il che implicherebbe una valutazione ancora più positiva da parte del docente; in ogni caso mi auguro che abbia ottenuto almeno la sufficienza. Ma non ci giurerei.
Non sempre l’ironia fa ridere, anzi. Spostare lo sguardo, cambiare il punto di vista, illuminare la realtà da una prospettiva diversa, affermare dignità e superiorità sul destino e le sue trame richiedono rigore, disincanto, consapevolezza, lucidità implacabile e obiettività assoluta; e spesso suscitano sorriso e divertimento, ma altrettanto spesso sconcerto, indignazione, amarezza, perfino dolore (soprattutto cognizione del medesimo, come insegna il Gran Lombardo Carlo Emilio Gadda).
Ed è proprio in questo che i classici sono insuperabili e indispensabili: per la qualità dell’ironia che ritroviamo in loro, a volte esplicitamente comica, molto più spesso semplicemente folgorante, spiazzante, letteralmente rivoluzionaria. E clamorosamente contemporanea.
«E voi, Achei, il cui vanto sono più le armi che il [cervello,
perché vi siete macchiati di un delitto tanto [mostruoso?
Avete avuto paura di un bambino?»
Siamo in piena tragedia, e che tragedia: nientemeno che Le Troiane, scritta da Euripide intorno al 415 avanti Cristo. Colei che parla è la vecchissima e indomabile Ecuba, regina deposta, di fronte al cadavere del nipotino Astianatte, figlio di Ettore, scaraventato dalle mura di Troia perché Troia ha perso. È un monologo potentissimo e straziante che colpisce al cuore, ma il dettaglio che lo rende inarrivabile, ed eterno, è quell’inciso micidiale, sprezzante, di un’audacia che leva il fiato e – ebbene sì – di un’ironia assoluta; quell’inaudita “dichiarazione di dignità” che rende immensa la fragile Ecuba e azzera, stroncandoli, i presunti vincitori, quegli Achei «il cui vanto sono più le armi che il cervello». Cioè, non solo gli sta dicendo in faccia che sono degli idioti assoluti, buoni solo a menar le mani, ma che sono talmente cretini da andarne anche fieri. Leggendaria. Non sarebbe male ricordarla, la prossima volta che qualcuno ricomincia a delirare di cultura e pistole, ma temo che sarebbe fatica sprecata. Per citare (a memoria) un altro maestro indiscusso di ironia, Alberto Arbasino, c’è il rischio che a parlargli di Flaubert capiscano Flobert.
Anche i miti sono un terreno fertile per quanto riguarda l’esercizio dell’ironia, del dubbio, della molteplicità di sguardi e interpretazioni. Prendiamo uno dei più noti e longevi, probabilmente perché è una storia d’amore ma anche di contraddizioni, ricerca, perdita e incomprensione: insomma la storia di una coppia, una coppia giovane, bella, felice, innamorata e per di più felicemente coniugata, che oggi come allora non guasta. Coppia perfettamente assortita da tutti i punti di vista, compreso quello sociale: entrambi gli innamorati infatti sono rampolli di grandi famiglie. Lei, Euridice, nasceva ninfa Driade, quindi in teoria addirittura immortale, anche se il prosieguo della vicenda sembrerebbe smentirlo. Lui, Orfeo, era probabilmente uno dei migliori partiti dell’epoca, figlio nientepopodimeno che del dio Apollo e della musa Calliope, insomma uno che l’X-factor ce l’aveva nei cromosomi. Senza bisogno di particolari manipolazioni genetiche, Orfeo riesce a ereditare il meglio da entrambi i genitori: la bellezza dal padre e la predisposizione musicale dalla madre. E di conseguenza, incoraggiato e assistito soprattutto dalle sorelle della mamma (le zie Muse), intraprende la carriera che gli è istintivamente più congeniale, quella di musico o lirico o cantore (oggi probabilmente si direbbe cantautore), insomma: Orfeo canta e suona, e col suo canto e la sua musica riesce a incantare e a domare chiunque, belve e sirene comprese. Canta e suona sempre e in ogni circostanza ma soprattutto per lei, la sua adorata sposa, la sua meravigliosa Euridice, e noi possiamo bene immaginarci come, soprattutto all’inizio del loro rapporto, all’epoca del corteggiamento, Euridice potesse sentirsi lusingata, gratificata, sedotta e conquistata da questo ininterrotto omaggio musicale. E tuttavia non è irrispettoso ipotizzare che dopo un po’, di tanto in tanto, la stessa Euridice non avrebbe disdegnato una qualche tregua, un occasionale iato di silenzio, insomma che di quando in quando ne avesse anche un tantino pieni i coglioni di questa specie di iPod vivente col quale condivideva il talamo. E forse proprio questa sorta di saturazione da eccesso di colonna sonora potrebbe aiutarci a capire come mai un giorno la suddetta Euridice abbia sentito il bisogno di andarsene per i fatti suoi, di allontanarsi dal domicilio coniugale e dal suo melodicissimo consorte e di camminare per ore, in perfetta e silenziosa solitudine, fino a raggiungere una meravigliosa radura dove però purtroppo era in agguato una vipera, che si avventa su di lei e la uccide sul colpo.
Il dolore di Orfeo è infinito, inguaribile e indicibile: non ci sono parole che possano esprimerlo, soltanto la sua sublime, inarrivabile musica. (Occorre precisare che in realtà tutto quello che si è tramandato dell’arte di Orfeo è puramente ipotetico, per così dire indiziario; non è rimasta alcuna traccia delle sue opere, non abbiamo idea di cosa suonasse e cantasse veramente; non sappiamo neppure se le sue fossero composizioni originali o se invece si trattasse di cover che lui riarrangiava e riproponeva.) Una musica straziante e tuttavia meravigliosa che non può non commuovere le Ninfe dei boschi e alcune divinità minori – credo che oggi si direbbe “senza portafoglio” – che avendo poco o niente da fare sull’Olimpo gironzolavano stabilmente nei dintorni, e che dopo aver ascoltato a lungo le dolenti strofe di Orfeo gli suggeriscono di andare all’inferno. In senso stretto. Perché è appunto all’inferno, o meglio agli Inferi, nell’aldilà, che, come tutti i defunti, Euridice è tenuta prigioniera, nella fattispecie dal dio Ade, titolare del suddetto oltretomba e notoriamente poco incline alla concertazione. Quindi, se davvero Orfeo non può più vivere senza la sua amata sposa, può solo tentare di compiere un’impresa ai confini del sovrannaturale, un’autentica mission impossible mai neppure ipotizzata da altro essere mortale prima di lui: forzare le porte degli inferi, scendere nell’Ade, prostrarsi ai piedi del dio omonimo e supplicarlo di rendergli la sua amata. Le probabilità che ci riesca sono scarsine, ma intanto se lo sono levato di torno, lui e le sue lagne. Perché Orfeo parte, sissignori! Consapevole che tanto la vita senza Euridice non ha né valore né senso, decide di rischiarla e parte per l’aldilà, armato unicamente del suo coraggio, del suo amore e della sua musica. E la cosa incredibile è che ci riesce! Ce la fa! Arriva nell’Ade e conquista tutti, commuove tutti con un’esibizione leggendaria, un concerto memorabile, quell’indimenticato Orfeo live in Ade (che poi gli anglofoni tradurranno e sintetizzeranno in Live Aid) al termine del quale ottiene un’autentica, commovente standing ovation. E la cosa davvero pazzesca è che ad applaudirlo, in piedi, in lacrime, non sono solo gli ospiti forzati, i defunti che comprensibilmente nella voce di Orfeo ritrovavano l’eco della perduta vita terrena, ma anche, e paradossalmente, proprio coloro che da quel luogo avrebbero dovuto tenerlo lontano, vale a dire i guardiani dell’oltretomba, a cominciare da Cerbero, mostruoso cane con tre teste che alla fine del concerto piange come un vitello con sei occhi. Per non parlare delle Furie! Le terribili, ferocissime, inavvicinabili Furie dopo aver ascoltato Orfeo si trasformano in groupies («Oddio no, Orfeo, troppo bello, ti ggggiuro , troppo bravo!») e decidono di salire sul palco con lui, rigorosamente tutte insieme («Occhei ragazze, andiamo su tutte quante, andiamo su tutte le Furie...»).
Ma la vera notizia sensazionale, il vero scoop è che Ade acconsente alla richiesta di Orfeo! Inspiegabile, per una divinità con la sua fama e il suo curriculum. Presumibilmente rintronato dal karaoke e ansioso di liberarsene al più presto, Ade comunica al menestrello che può riportare con sé sulla superficie terrestre la sua amata, ma a una condizione (tra le più classiche, peraltro): dovrà camminare davanti a lei e non voltarsi mai indietro a guardarla finchè non saranno giunti a destinazione.
Ora, è evidente che il vecchio Ade non vedeva l’ora di toglierselo di torno ma contestualmente non voleva perdere la faccia, e quindi ha buttato lì la prima cosa che gli è venuta in mente, forse una reminiscenza dell’esame di Mitologia II dato ai tempi della sua formazione olimpica (una roba tipo «Se un mortale insiste per ottenere un favore puoi anche concederglielo, ma prima devi farglielo penare con richieste improbabili»): ma onestamente, dove sarebbe il grado di difficoltà per Orfeo? Uno che è arrivato fin lì da solo, che ha sfidato gli dei, l’oltretomba, le tradizioni e tutti i record di Discesa agli Inferi precedenti e successivi? Ma dai! «Non voltarti indietro a guardarla finché siete in viaggio» non è una prova da superare, è una figata, oltretutto anche dal punto di vista della sicurezza stradale è un ottimo suggerimento, per Orfeo è cosa fatta, più facile di così si muore (e nel caso, comunque toccherebbe a Euridice, quindi in fondo a lui che gli frega?)
E dunque Orfeo affronta la strada del ritorno alla vita terrestre con l’entusiasmo e l’energia di un Al Bano giovane e l’intensi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Come una specie di sorriso
  3. Questione di sguardi
  4. Di cosa parliamo quando parliamo di ironia
  5. Le false amiche
  6. A mali estremi
  7. L’infinito, al limite
  8. Non nel mio giardino
  9. Così vicini, così lontani
  10. Femminile, singolare
  11. Una specie di sorriso
  12. Né totem né tabù
  13. Qui comincia l’avventura
  14. Sesso, bugie e altre afflizioni
  15. Ma l’amore no
  16. Ironia della sorte
  17. Amabili giocolieri
  18. Gli inglesi lo fanno meglio
  19. Quell’espressione un po’ così
  20. Bugiardino
  21. Ringraziamenti
  22. Copyright