Io ci credo
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Io ci credo

Perché con la fede non mi sono arreso mai

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Io ci credo

Perché con la fede non mi sono arreso mai

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Informazioni sul libro

Ventisei dischi d'oro, otto di platino e un record imbattuto: nel 1982, quattro canzoni nello stesso mese nella hit parade italiana. Una carriera artistica, quella di Al Bano, costellata di premi e riconoscimenti internazionali. La passione per la musica nasce da bambino, suonando la chitarra all'ombra degli alberi della campagna pugliese nella tenuta del padre contadino. E proprio in terra di Puglia troverà radici anche quella fede religiosa che non lo abbandonerà mai. A 16 anni emigra da Cellino San Marco a Milano. Gli inizi sono tutti in salita: frequenta quella che lui stesso chiama "l'Università della vita", facendo i lavori più umili per non rinunciare alle proprie ambizioni. Dopo i primi passi nel Clan Celentano arrivano gli album che lo impongono al grande pubblico. La carriera si consolida poi nel sodalizio affettivo e artistico con la moglie Romina Power, dalla quale avrà quattro figli. Tutto sembra sorridere al cantante, acclamato da milioni di fans, ma poi la vita lo mette alla prova. Nel 1994 scompare in circostanze misteriose la figlia Ylenia, all'epoca ventiquattrenne. Un dolore che incrinerà l'armonia di coppia fino alla separazione del 1999. Sono anni in cui Al Bano rivede la propria vita alla luce della fede; i giorni ritrovano luce anche grazie al sostegno di una nuova compagna, Loredana Lecciso, da cui avrà due bambini. In questa confessione Al Bano si racconta rivelando come il suo credo sia stato puntellato da incontri importanti: con Padre Pio, con Madre Teresa e con Giovanni Paolo II, per il quale si è più volte esibito. Incontri cercati e voluti che hanno ravvivato il senso del mistero e la voglia di non arrendersi mai.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858506332

1

La prima festa del patrono
e quella spilla di mamma...

Il mio primo ricordo “religioso” che conservo nella memoria è legato a una spilla. Una spilla che mi pungeva. Avrò avuto tre anni, non di più, e qui a Cellino c’era la festa del nostro patrono. Un patrono così importante che noi l’abbiamo messo anche nel nome del nostro paese, Cellino San Marco.
Presi coscienza di ciò che stava capitando perché ero in braccio a mia madre che mi aveva portato a festeggiare il patrono. Lei mi teneva stretto a sé, ma aveva una spilla che mi pungeva sulla gamba e così io mi muovevo e mi pungevo...
Mi ricordo i fuochi d’artificio. Era la prima volta che vedevo i fuochi d’artificio e conservo ancoranel cuore l’immagine di quella sera, mentre saltavo di gioia e ogni tanto mi pungevo con la spilla della mamma. Un ricordo che mi è rimasto impresso, incancellabile, indelebile. Ho abbinato quella prima sensazione di dolore al senso della grande festa.
Poi ci sono tanti altri ricordi, via via sempre più nitidi, che riguardano i primi Natali e le prime Pasque della mia infanzia. Anche se per noi, in paese, era la festa del patrono san Marco a diventare un vero e proprio avvenimento. Sia perché si celebrava d’estate, a fine luglio, e sia perché era sempre l’occasione per manifestazioni pubbliche che ci univano. Ricordo le bande che attraversavano il paese, con il chiasso dei loro ritmi... Che festa! Ogni anno si attendevano quei tre giorni, il 28, 29 e 30 luglio.
Questo è stato il mio primo approccio, il mio primo ricordo legato a una ricorrenza religiosa. Però devo dire che allora, all’epoca in cui io ero bambino, tutto, davvero tutto era legato al cristianesimo. Tutto era vissuto nell’ottica della fede. La fede cristiana permeava ogni circostanza della nostra vita.
Per mio padre e mia madre ogni giorno cominciava nel nome di Dio. C’era nella nostra, come nelle altre famiglie del paese, un senso religioso della vita che attraversava ogni circostanza. Non era il frutto di uno sforzo particolare, era così, si viveva così. Questo sguardo religioso sulle cose di ogni giorno ti veniva trasmesso con il latte materno, ti veniva insegnato, più che a parole, con l’esempio quotidiano dei genitori. Il senso religioso della vita l’ho appreso da loro e ancora lo vedo riverberato negli occhi di mia madre, che qui nella tenuta che ho costruito a Cellino San Marco ancora si occupa della chiesa, la pulisce, ci trascorre del tempo, e poi “parla” con i santi. Capita che vada al cimitero, e che ci vada parlando, dialogando, con quelli che non ci sono più, con quelli che ci hanno preceduto in Cielo, con i santi.
Non fraintendetemi. Non sto parlando delle fantasticherie di una vecchia contadina che parla da sola, fra sé. No. Per le persone di quella generazione l’Aldilà era una prospettiva sempre presente nell’al di qua.
I parenti e gli amici che non c’erano più non erano perduti per sempre. Si sapeva che erano presenti nelle nostre vite in modo diverso, che erano partiti per abbracciare il loro Creatore.
Nella mia famiglia non ho conosciuto un solo ateo: i fratelli di mio padre, le zie... tutti credenti.
Ricordo che, quando ero bambino, in ogni casa del paese a Natale si faceva il presepe. Ognuno aveva le proprie fantasie e diverse possibilità, e ci divertivamo a trovare quale fosse il più bello. I ricchi lo facevano un po’ più maestoso. Parlo di “ricchi” per modo di dire, perché la ricchezza quando io ero bambino si misurava, che ne so, con un ettaro in più di terreno. Comunque, i grandi ricchi di Cellino erano soltanto due, e per il resto eravamo più o meno tutti allo stesso livello, cioè piuttosto poveri.
Al presepe si dedicava mezza stanza... Ricordo che a partire dal mese di settembre fino a Natale si conservavano i meloni sotto al letto, perché dovevano far parte dell’arredo del presepe. Si tenevano i melograni, i mandarini – tipici del periodo invernale – e soprattutto si conservava l’uva, l’uva bianca che si appendeva e bisognava essere bravi a tenerla in una zona della casa dove non ci fosse umidità, per far sì che restasse più o meno come quando era stata raccolta.
Era una bella cosa fare il presepe. Per tanti anni ho continuato a farlo, con i miei bambini. Purtroppo ho perso questa abitudine e non ci sono scusanti. In fondo il presepe rappresenta anche un atto di devozione: Gesù deve nascere anche a casa tua, anche in mezzo alla tua famiglia, anche dentro la tua vita di ogni giorno.
Solitamente accade che la madre, la figura femminile, sia centrale e decisiva per la trasmissione della fede. E questo è accaduto anche nel mio caso, nella mia famiglia contadina. Però io devo molto anche a mio padre, che mi ha trasmesso una concezione religiosa della vita. Lui mi diceva sempre una frase che ho faticato a capire, all’inizio. «Chi ha fede, non spera mai.» Intendeva dire che chi ha fede, ha delle certezze e basta. Esiste la speranza, e la speranza cristiana è importantissima. Ma mio padre pensava e mi testimoniava che il credente basa la sua vita su una certezza che è già presente oggi. «Se hai fede, sai che il tuo bene, il bene per la tua vita, prima o poi arriva...»
Mi colpiva molto questo atteggiamento di mio padre. Questa fede profonda e radicata. Questa certezza. Era una roccia, un uomo tenace. Limitato culturalmente, perché quella era l’Italia di allora. Al suo tempo, qui da noi, c’erano contadini e operai e basta. Niente scuole. Lui ha imparato a scrivere facendo il militare, perché si era stufato di dover dettare le sue lettere allo scribacchino, facendo sapere i fatti suoi. Alcune cose non le dettava perché non voleva che altri sapessero le sue vicende private. Così imparò a scrivere durante il servizio militare, per poter mandare delle lettere a casa. Me la ricordo ancora la scrittura di mio padre: bella, ariosa, larga. Io la imitavo quando saltavo qualche giorno di scuola e scrivevo la giustificazione da solo: «Carrisi Albano è assente... firmato Carrisi Carmelo...».
Mio padre è stato per me un testimone importante. In casa mia non si bestemmiava, non si usavano parolacce, parole volgari, mai, e ricordo ancora che quando arrivai a Milano, e incominciai a lavorare nei ristoranti, incontrai un toscanaccio, che ogni due parole che diceva c’era una bestemmia: parlava con sua moglie come se fosse una donna da bordello. Confesso che rimasi veramente allibito. Al Sud, nella nostra terra, la donna era considerata qualcosa di sacro, era l’immagine della Madonna che scendeva sulla terra e doveva curare la famiglia. Rimasi sconvolto, in quel 1961, nell’imbattermi in un mondo totalmente diverso, totalmente altro. Un’altra dimensione. E già allora si poteva constatare un’incidenza molto più limitata della religione nella vita della gente.
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Ma non voglio anticipare ricordi e sensazioni che sono venuti nelle fasi successive della mia vita rispetto a quella di cui sto parlando ora. Ho un ricordo ben preciso della mia prima Comunione. Mi avevano instillato quasi il terrore: dicevano che non bisognava mangiare e neanche bere prima di accostarsi all’altare per ricevere il corpo di Gesù. Mi ricordo benissimo che quel mattino avevo molta sete. Dimenticai il divieto e bevvi dell’acqua. Venni rimproverato: «Come? Hai bevuto? Stai per ricevere l’ostia, stai per ricevere Gesù, e hai bevuto?».
Mi fecero sentire come... come un assassino! Uno che non rispettava le regole. Ho ancora vivissima davanti ai miei occhi l’immagine. Eravamo sei, sette ragazzini vicino alla fontana di Cellino San Marco, in via Squinzano. Era la fontana dalla quale sgorgava l’acqua più fresca perché c’era il tubo dell’acquedotto che passava proprio lì sotto, e quindi l’acqua era freschissima. Mi fecero sentire un verme perché avevo bevuto...
Ogni domenica andavamo a messa. Ci andava tutto il paese. E ci andavamo tutti noi ragazzi. Il primo prete di cui ho un ricordo è don Giovanni Cavallo. Abitava proprio di fronte alla chiesa del paese ed era un uomo che durante la sua vita aveva scandito tutta la sua giornata sempre nello stesso modo. Alle 6 di mattina si trovava in chiesa, mentre nel pomeriggio andava verso la cappella votiva del Sacro Cuore di Gesù. Il che significava andare dalla piazza fino alla strada che portava a un paesino che si trova a sette chilometri da Cellino, Squinzano, e su questa via c’era una cappella votiva dedicata al Sacro Cuore di Gesù. Ci andava regolarmente ogni pomeriggio. Si fermava a pregare e, quando tornava indietro e passava davanti a noi ragazzi, dovevamo andare a baciargli la mano. Poi ritornava e rientrava nella sua casa. Ricordo il grande spirito di paternità che emanava la sua figura. Paternità spirituale. E poi rammento che da piccolo mi piaceva vedere da vicino questa mano bianca, morbida, senza calli... Noi eravamo abituati alle mani callose e dure dei nostri genitori che lavoravano nei campi. Per noi bambini era quasi un gioco quel baciamano!
Conservo nel mio cuore solo ricordi positivi dei preti della mia infanzia. A don Giovanni Cavallo è succeduto poi don Francesco Epifanio. Un carattere diverso. Faceva del bene ai poveri ma aveva un fratello che era un poco di buono e lui lo nascondeva in chiesa quando lo venivano a cercare. Ogni tanto questo fratello del prete finiva in gattabuia e ovviamente tutto il paese ne parlava.
Oltre ai preti c’erano le suore. Erano quattro e abitavano in una casa. Erano un dono per tutti. Quella casa era stata lasciata in eredità a loro e noi andavamo lì dov’era organizzato una specie di asilo. Le ho ancora ben presenti quelle quattro vecchiette... Io ho fatto le scuole elementari a Cellino e le scuole medie a San Donaci, un paese a tre chilometri da qui. A San Donaci c’era un convento, una costruzione moderna, che ospitava delle religiose provenienti da varie parti d’Italia. Ho ancora presente davanti agli occhi in particolare una di loro. Si chiamava suor Giuliana: veniva da Pisa, ed era una donna bellissima. Quando la sentivi parlare avvertivi subito quella parlata diversa, quell’accento che non era duro e spigoloso come il nostro, come l’accento pugliese ogni tanto può esserlo.
Io restavo affascinato dalle sue lezioni, per quello che ci diceva ma anche per come ce lo diceva. Con questo accento per me strano. Mi sembrava di ascoltare la vera voce dell’Italia, la voce elegante d’Italia. Ed era proprio una bella suora. Si preoccupava di noi. Parlava, spiegava. Poi s’interrompeva e ci chiedeva: «Ma avete capito veramente? Perché se non avete capito sono pronta a ripetere...». Con quell’accento toscano, ogni tanto la lettera «c» spariva.
Poi c’era un’altra religiosa, che invece proveniva dalla provincia di Napoli. Si chiamava suor Maria Maddalena Lo Russo. Lei, al contrario di suor Giuliana, invece era dura. Era proprio la tipica madre superiora. Noi eravamo piuttosto birichini, anzi, direi... selvaggi. E lei talvolta cercava di punirci, ci dava addosso con il cordone del saio, e qualche volta con il crocifisso.
Un giorno però ci siamo vendicati. Toccò a me e fu per puro caso. Io andavo da Cellino a Sandone in bicicletta e una mattina scorsi un porcospino sulla strada. Mi fermai, lo raccolsi, e lo portai con me a scuola. Era bellissimo da vedere, con il suo musetto simpatico. Lo tenevo sotto al banco, però a un certo punto il porcospino se n’è sceso giù e si è diretto verso questa suora. Quando l’ha visto, quella ha fatto un salto e si è messa a gridare: «Ragazzi, che cos’è? Aiuto!». Non ho mai visto così tanta debolezza e fragilità in una donna che fino a quel momento ci era sembrata d’acciaio... Di fronte al porcospino si è sciolta come neve al sole, è diventata d’improvviso paurosa, ha perso tutta la sua sicurezza e la sua autorità. Allora mi sono alzato, ho ripreso l’animaletto e l’ho riportato nel mio banco. E lei che chiedeva: «Chi l’ha portato? È arrivato da solo?».
Ricordo che quel giorno il porcospino me lo portai a casa. Avrò avuto undici, dodici anni... Che bella scena: come in un film! In un solo istante è cambiata completamente l’immagine che avevamo di quella persona così severa e talvolta arcigna. Era passata dalla durezza più assoluta, più inequivocabile, alla dolcezza, alla fragilità infantile. È stato davvero bello quel momento!
Comunque anche allora le nostre giornate erano segnate dai ritmi della preghiera. Ci ricordavamo sempre del Signore. Ogni mattino si passava in chiesa, si pregava e poi si cominciavano le attività della giornata, le lezioni a scuola.
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A quell’epoca io avevo già avvertito la grande vocazione della mia vita. Sto parlando della vocazione al canto. Avrò avuto sei o sette anni. Come mi piaceva cantare fin da quando ero piccolo! Non mi ricordo come cantassi, solo che vedevo tutti quelli che mi ascoltavano rimanere incantati dal mio modo di cantare.
In casa mia, in effetti, tutti cantavano. Mia madre cantava, mio padre cantava. Ma qui da noi, allora, tutti cantavano. In questo momento, mentre cerco di riavvolgere come in una pellicola i ricordi della mia vita, sto camminando sotto gli alberi del bosco che c’è qui a Cellino San Marco. L’ispirazione arriva proprio dall’alto perché gli uccelli allora cantavano, e grazie a Dio cantano ancora oggi, ma allora ce n’erano di più, mi ricordo che ce n’erano veramente tanti. Poi c’erano le cicale che frinivano... Cantare era un modo per dialogare con gli altri, con la natura, con il suo Creatore. Dipendeva anche dal tipo di lavoro che si faceva nei campi. Perché tu dovevi lavorare la campagna e quindi nei campi mio padre andava da una parte, e io magari dovevo andare dall’altra parte, per prendere l’acqua per irrigare le coltivazioni. Quindi lui teneva la pompa e io dovevo andare al pozzo e durante tutti questi passaggi, tenendo il ritmo, cantava. Io facevo lo stesso, al ritmo del mio lavoro. Era davvero bello. Anche mia madre cantava. Nelle campagne quando c’era la vendemmia tutti, ma proprio tutti, cantavano in coro. Quando c’era la monda sugli alberi, tutti cantavano... E chi se le dimentica quelle giornate? Uno attaccava e tutti gli altri rispondevano. Credetemi, sembravano dei veri cori gospel, davvero.
In quegli anni non c’erano mezzi motorizzati nei campi, era tutto fatto con i traini e i cavalli. C’erano file di venti o trenta traini, tirati dai cavalli, e tu sentivi i colpi dello “scuriato”, una specie di frustino leggero con cui si incitava il cavallo. Sentivi il suono secco del frustino che dava il ritmo e tutti ci cantavano sopra.
Nel canto si eccelleva molto più che nelle parole.
Poi c’erano le funzioni in chiesa, e anche qui non si parlava mai, si cantava solo oppure si stava in silenzio. Io anche a scuola stavo o in silenzio, o cantavo... Per me il canto prevaleva su tutto.

2

La suora mi disse:
«Carrisi, tu sei una voce fuori dal coro...»

Fin da bambino dovevo avere una voce davvero potente.
Cantavo sempre e la gente mi ascoltava. A San Donaci, dove frequentavo le scuole medie, c’era il coro, e la suora che lo guidava mi rimproverava sempre. Mi diceva: «Tu Carrisi esci sempre dal coro...». Alla fine mi fece uscire davvero.
Non mi ha mai spiegato bene il perché di questo rimprovero. Forse avevo una voce troppo forte, troppo intensa, che con il coro non si sposava bene. O forse non rispettavo la parte stabilita e qualche volta me ne andavo per i fatti miei. Non so dire la motivazione, non l’ho mai capita. Però rimasi stupito non poco. Dicevo tra me: “Ma come, con una voce così, questa mi mette fuori dal coro?”.
La spiegazione, forse l’unica spiegazione veramente credibile, era che avevo una voce fuori dal comune. E per questo mi aveva allontanato dal coro.
Finite le medie cominciai a frequentare le scuole magistrali a Lecce. Erano gli anni 1958-1959. Anche lì iniziai a cantare. Ricordo ancora il giorno in cui l’insegnante di musica mi prese e mi portò dal preside. Chiamò gli altri professori e mi chiese di cantare una canzone di Domenico Modugno, che allora andava forte: Ciao, ciao bambina. Modugno aveva vinto il Festival di Sanremo con quella canzone. Impazzirono, letteralmente, ascoltandomi...
Mi resi conto in quel momento che Dio mi aveva fatto un grande dono. Una voce fuori dal comune.
Feci solo due anni di magistrali, la mia testa ormai era presa solo dalla musica leggera: sapevo tutto di ogni cantante, ogni particolare delle sue canzoni, e ce n’erano parecchi di cantanti allora. Il canto era diventata la mia vita, l’unica materia che mi interessava davvero. Avevano perso ogni interesse per me la fisica, la chimica... La psicologia mi piaceva ancora parecchio, e anche la filosofia continuava ad appassionarmi. Però tutto il resto zero.
Lo so che l’età dell’adolescenza è importante. È in quel momento che cominciamo a chiedere a noi stessi chi siamo veramente, da dove veniamo, dove siamo diretti, perché siamo nati, perché c’è la morte e che cosa c’è dopo questa vita... Insomma, le domande che appartengono a ogni uomo e a ogni tempo, perché rappresentano una scintilla d’infinito che è stata iscritta nel nostro cuore da Colui che ci ha dato la vita, che ci ha creato, voluto e amato. Eppure, se devo essere sincero, queste domande per me sono venute dopo. All’epoca non me le facevo. La fede, come ho già detto, era così radicata in noi che non veniva messa in discussione, problematizzata. Tutto attorno a noi era concepito in modo cristiano, tutto ci parlava di questo rapporto con l’Assoluto.
Quasi non c’era tempo per farsi certe domande. O meglio, era talmente bello quello che vivevamo, che io vivevo, anche dal punto di vista religioso, che non avevo molte domande, non c’erano dubbi che mi assillavano.
Ricordo ancora l’arrivo in paese di due padri Passionisti, che in qualche modo hanno rivoluzionato la maniera di vivere Cristo, di vivere la religione a Cellino San Marco. Erano di una bravura... Ricordo in particolare padre Carlo. Chi se lo dimentica? Era così bravo, sapeva trascinare... Invitava i comunisti in Chiesa, e nascevano dei dialoghi bellissimi e interessantissimi. È stata come una rivoluzione, qui in paese. Una rivoluzione piacevole: gli atei si confrontavano con i credenti e si avvicinavano a Gesù.
Tutto questo avveniva nella seconda metà degli anni Cinquanta. Le chiese erano piene, sempre piene zeppe, e ci andava anche quella gente che normalmente non frequentava la messa, i non credenti, perché erano tutti comunisti... Ce n’erano parecchi qui. A dire il vero, pur professando l’ideologia comunista, credevano anche loro in Dio. Solo che non frequentavano la parrocchia. Erano già catto-comunisti... Credo che non si facessero vedere più per partito preso o per paura che per altro. Credevano ma non praticavano. E invece proprio loro si sono sentiti coinvolti da quei padri Passionisti. Coinvolti e interrogati, come tutti noi. È stato un momento di grande apertura mentale nei confronti della fede e delle sue ragioni, una nuova presa di coscienza dell’importanza dell’esperienza religiosa.
Ripercorrendo con la mente la mia storia, risento anche il suono delle campane del mio paese. Le chiese di Cellino erano soltanto due, anzi, meglio, erano tre, ma la terza si trovava dentro il cimitero... La grande campana della chiesa parrocchiale la ricordo ancora. Mi è rimasto dentro quel suono, anche quando il prete l’ha venduta, sostituendola con una elettrica: clic, schiacci il bottone, e arriva il suono. Un vero peccato.
Quella campana grande era il segno delle feste importanti, delle messe solenni. Era un richiamo universale. Lo sentivi, e capivi che dovevi andare. Poi c’era la campana più piccola della chiesetta, che abbiamo ancora qui. Quella era solo per i bambini, per noi bambini.
Tutto attorno a noi parlava di Dio. Lungo le strade c’erano le cappelle votive, piccole, modeste, umili, con le immagini sacre. Soprattutto con l’immagine di Maria. Erano sempre piene di fiori, e quando ci passavi dava...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Al lettore
  5. 1. La prima festa del patrono e quella spilla di mamma
  6. 2. La suora mi disse: «Carrisi, tu sei una voce fuori dal coro...»
  7. 3. Una mano tesa alla «Bela Madunina» di Milano
  8. 4. La forza di Dio
  9. 5. Il miracolo della vita
  10. 6. Seguaci di un Dio che muore in croce
  11. 7. Ricordi (dolorosi) di viaggio
  12. 8. Dio, perché proprio a me?
  13. 9. Papa Wojtyla e l’endoscopia dell’anima
  14. 10. La presenza dell’agente D
  15. 11. La mia malattia
  16. 12. La forza di Madre Teresa
  17. 13. Quell’applauso che arriva al cielo
  18. 14. L’acustica di Dio
  19. 15. La musica è preghiera
  20. 16. Il mio canto per Te
  21. Appendice