Il forte sul fiume
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Il forte sul fiume

Le cronache di Camelot

  1. 416 pagine
  2. Italian
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Il forte sul fiume

Le cronache di Camelot

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Informazioni sul libro

Camelot è ormai lontana per Merlino e il piccolo Artù, affidato alla sua custodia. I due hanno navigato a lungo verso nord, per sfuggire a un tragico destino. La salvezza è nel porto di Ravenglass, città di cui è sovrano Derek, l'uomo che ha ucciso il padre di Artù e ne ha violentato la madre. Vincendo l'odio che lo divora, Merlino si trova costretto a salvare la vita di costui, ottenendo in cambio un sicuro rifugio per sé e per il suo protetto in un vecchio fortino abbandonato nei pressi del Vallo di Antonino. Lì, nascosto dalla minaccia dei nemici, educherà e addestrerà negli anni il giovane Artù di Pendragon, fino a farne un uomo valoroso e saggio, dal cuore puro e dal coraggio indomito. Fino a fare di lui il cavaliere che un giorno sarà degno di brandire la mitica Excalibur e diventare Alto Re di tutta la Britannia.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858503997

PARTE PRIMA

RAVENGLASS

I.

Eravamo in piedi l’uno accanto all’altro sul ponte di una galea che lentamente avanzava nel mattino di settembre, luminoso e tranquillo, solo qualche mese dopo il funesto incidente che per poco non era costato la vita a uno di noi e ci aveva costretti a fuggire da Camelot alla ricerca di quella sicurezza che avremmo dovuto avere in patria. La grande vela quadrata era floscia nel languore della brezza mattutina che disperdendo lentamente la nebbia dalla superficie della baia verso la quale eravamo diretti, levava vortici ondeggianti di vapori che si dissolvevano nel nulla. I rematori spingevano sui remi con cautela, gli occhi posati sul nostromo, Tearlach, che li indirizzava muovendo le braccia e le mani, lo sguardo fisso sul molo proteso verso di noi.
Mi trovavo sul ponte di poppa con il capitano della galea, Connor Mac Athol. Connor, figlio di Athol, figlio di Iain. Il padre di Connor era il re degli Scoti dell’Eire, il popolo che i Romani avevano chiamato Scoti di Ibernia. Connor dalla gamba di legno, come era conosciuto tra i suoi uomini, era l’ammiraglio del sovrano nei mari meridionali.
Seguii il suo sguardo fisso sul punto in cui, all’estremità del pontile di legno, erano ormeggiate due galee, l’una torreggiante sull’altra, inequivocabilmente navi da guerra simili alla nostra, snelle e minacciose nelle loro affusolate linee aggressive.
Dal viso di Connor capii che non appartenevano alla sua flotta. Sembravano deserte; le vele ammainate e legate, i massicci boma piegati ad angolo in cima agli alberi maestri. Al loro confronto i pescherecci, una ventina, attraccati al molo principale e al pontile più piccolo costruito a sud, sembravano minuscoli. Lanciai un’occhiata a Connor.
«Di chi sono?»
Il viso non lasciò trapelare i suoi pensieri, ma il tono della voce tradiva la preoccupazione. «Sono di Liam. Dei Figli di Condran.»
«Che cosa intendi fare?»
«Niente. Ignorarle e andarcene prima di loro.»
«Quella è enorme, più grande della nostra.»
«Sì, quarantotto remi rispetto ai nostri trentasei. È la galea di Liam.»
«Vuoi impegnarli in combattimento?»
Il viso gli si contrasse in un lieve sorriso forzato. «Probabilmente, ma non qui. Non a Ravenglass. Questa è zona neutrale.»
«Perdonami, non capisco. Che vuoi dire?»
Girò la testa per guardarmi. «Semplice. È in tutta la regione nordoccidentale l’unico porto in cui le navi possono entrare e approvvigionarsi senza pericolo. È così fin da quando i Romani costruirono la fortezza. Non appena una nave entra in questa baia deve rinunciare allo stato di belligeranza, altrimenti le viene negato l’accesso. Come vedi, la fortezza è cintata e popolata. È imprendibile dal mare e dalla terra; inviolata e inviolabile. Serve come base di rifornimento. In città saremo gomito a gomito con gli uomini di Liam, ma li ignoreremo e loro ci ignoreranno. In caso di scontro, gli aggressori non avranno più il permesso di entrare nel porto in futuro. Non succede mai niente in città.» Sorrise ancora. «Naturalmente quando vi arrivano due gruppi come i nostri, nasce un po’ di tensione al momento di partire.»
«In che modo? Vuoi dire che è avvantaggiato chi salpa per primo?»
«Sì, lo stesso vantaggio che ha il fabbro sul ferro che lavora. Picchia il martello con tutta la forza che gli pare per appiattire il metallo sull’incudine. La costa è l’incudine per l’ultima nave in partenza.»
«Ma tu hai tre navi contro le loro due.»
«Sì, ed è un grande vantaggio. Vedremo.»
Voltò la testa cercando con lo sguardo Tearlach, quindi, annuendo, si portò sul fianco della nave e scrutò attentamente il punto nel quale avremmo attraccato nel porto di Ravenglass. Capivo che mi aveva momentaneamente escluso dai suoi pensieri, intento com’era a ormeggiare la galea lunga e snella che ci aveva condotti con rapidità e senza inconvenienti verso nord.
Avevamo rasentato la costa della Cambria, a sud vicino a Glevum, superato Anglesey, l’isola sacra dei Druidi, in direzione del mare aperto e puntato di nuovo verso terra, accostandoci ancora una volta all’aspra costa della regione conosciuta come Cumbria che ci aspettava dietro a una forma gibbosa all’orizzonte che Connor chiamava Isola di Man.
Consapevole che altre cure più importanti gli occupavano la mente, mi volsi per guardare a prua, dove il mio gruppo fissava rapito la nuova terra che si profilava davanti agli occhi. Erano i miei amici, la mia famiglia, il mio mondo adesso che Camelot era rimasta alle nostre spalle nel lontano meridione. Altri erano salpati insieme a noi, imbarcati chi sull’una chi sull’altra galea, solcando il mare sulla nostra scia e ci facevano da scorta; ma gli undici che si trovavano sulla mia stessa nave mi erano particolarmente vicini.
Il più giovane, un gigante che in statura mi sopravanzava di un palmo, aveva ventiquattro anni ed era fratello del capitano Connor, ma nessuno lo avrebbe preso per tale. Mentre Connor aveva i capelli neri, gli occhi azzurri, la pelle scura al modo di un autentico celta, il fratello più giovane Donuil era di carnagione e capelli chiari. Portava, come me, il viso sbarbato all’uso dei Romani e gli occhi sembravano mutare dal bruno al verde a seconda della luce.
Connor non era di bassa statura. Più alto della media, con spalle enormi e un torace possente, portava baffi folti e lunghi che, scendendogli fin sotto il mento, mettevano in risalto quel massiccio pilastro di muscoli che era il collo e richiamavano l’attenzione sulla pesante collana d’oro preziosamente lavorata che lo cingeva. Eppure Connor sembrava basso al confronto del fratello minore. La statura di Donuil, che lo faceva sopravanzare di una testa su quasi tutti gli uomini, combinata con le aggraziate proporzioni del corpo ne nascondeva l’autentica stazza. Aveva spalle più larghe di suo fratello, eppure sembrava più snello; il petto più possente, eppure all’aspetto meno massiccio; alto com’era, appariva quasi smilzo, mentre Connor era grosso e tarchiato.
Osservando Donuil che disinvoltamente teneva un braccio intorno alla vita di sua moglie, Shelagh, e insieme a lei si guardava intorno, pensai, come avevo già fatto centinaia di volte, quanto quel gruppo di stranieri, quel clan di Scoti, avesse influito sulla mia vita.
Non era mancata progenie ad Athol Mac Iain. Erano nati tutti nell’Eire, lontano da Camelot, dove ero cresciuto io, inconsapevole della loro esistenza. Avevo sposato la figlia più giovane del re, Deirdre, che era stata uccisa quando portava in grembo mio figlio. Molto prima che morisse, suo fratello Donuil era diventato mio ostaggio, catturato in battaglia e trattenuto prigioniero a salvaguardia della promessa di suo padre di non intervenire nella guerra in corso contro Gulrhys Lot, signore della Cornovaglia. Nessuno conosceva i legami che ci univano fino a quando non portai mia moglie a Camelot. Deirdre e Donuil allora si ritrovarono, ciascuno sorpreso di incontrare l’altro.
Una sorella di Deirdre, Ygraine, aveva sposato il mio mortale nemico, Gulrhys Lot, per saldare il patto di alleanza tra il popolo di suo padre e quello della Cornovaglia. Furente e rabbiosa per la durezza con cui veniva trattata dal suo disumano marito, era fuggita volentieri con mio cugino Uther Pendragon durante una lunga campagna militare, e i due, innamorati l’uno dell’altro, avevano concepito un figlio. Ero stato io, tempo dopo, a imbattermi in Ygraine su una spiaggia desolata della costa della Cornovaglia. Era stata stuprata da un uomo che, strappata l’armatura dal cadavere di Uther, l’aveva indossata. Le ero stato vicino nel momento della morte e avevo salvato il neonato, figlio di Uther. Saltato sull’imbarcazione dove il piccolo, urlante, era stato abbandonato, mi ero spinto al largo senza avere una meta precisa. Ci aveva trovato Connor, incaricato dal re suo padre di cercare Ygraine e portarla sana e salva nell’Eire. Quel bambino, Artù Pendragon, su cui da allora avevo sempre vegliato, ora stava vicino allo zio Donuil, con lo sguardo fisso verso la terra di approdo.
Al ricordo di quelle vicende scossi la testa pensando al gioco delle coincidenze e delle probabilità. Non cercavo più di darvi una risposta. Sono cristiano per nascita ed educazione, ma sono anche un celta druidico, allevato dal popolo di mia madre, i Pendragon della Cambria. La mia metà celtica crede nel destino e nell’inevitabilità degli eventi decretati da una mente superiore a quella degli uomini; la mia metà cristiana, romano-britannica, è arrivata, grazie alla prozia Luceia, alla stessa conclusione: ci sono cose che devono accadere e accadranno a dispetto dell’incredulità degli uomini.
Mentre osservavo il pontile di legno sempre più vicino a ogni colpo di remi, sorrisi a quel pensiero e sentii che mi si accapponava la pelle. Lì infatti avrei trovato la definitiva conferma di quella mia convinzione.
Conoscevo l’uomo che aveva trucidato Uther Pendragon e gli aveva strappato l’armatura: un avversario, non un nemico mortale. Gli avevo creduto quando mi aveva detto di avere ucciso Uther senza conoscerne l’identità: la sua sorpresa nell’apprenderlo era stata genuina. Sconvolto dalle carneficine a cui avevo assistito nelle battaglie decisive della campagna di Cornovaglia, non avevo cercato di combatterlo o ucciderlo quel giorno. Ero rimasto a guardarlo mentre se ne andava illeso. Derek era il suo nome e si diceva re di Ravenglass. Ora, a tanti anni di distanza, lo riconobbi facilmente in mezzo alla folla che si assiepava a terra.
La grande galea si accostò scivolando leggera lungo il fianco del pontile di legno, spinta dall’ultimo colpo dei trentasei rematori. Due uomini accovacciati a prua e a poppa si accingevano a gettare le gomene nelle mani esperte di coloro che aspettavano a terra; altri quattro si sporgevano da bordo per collocare grandi cuscini di canapa ai lati dell’imbarcazione perché non venisse graffiata dalle incrostazioni del molo. La galea rallentò, essendosi smorzato lo slancio che fino a quel momento l’aveva fatta avanzare, e alla fine restò a dondolare sulle onde. Le gomene lanciate dai marinai furono afferrate da altre mani e dalla folla si levò un cupo mormorio di approvazione.
Contento di avere attraccato il suo vascello, Connor si allontanò dal parapetto e si avvicinò a me con passo sicuro, malgrado il cilindro scolpito e rastremato che dal ginocchio in giù gli sostituiva la gamba destra. Sorrideva, senza prestare attenzione alla folla che rumoreggiava sul molo.
«Allora, Testa Gialla,» mi disse «com’è consuetudine sarò il primo a sbarcare, così tu avrai il tempo di raccogliere i tuoi pensieri. È il momento peggiore... il passaggio dalla nave alla terraferma, dal camminare sul ponte di un vascello al camminare sul suolo. È già difficile per chi ha due piedi. Ho sbattuto il culo più di una volta. Noterai che i miei uomini si premurano di non guardarmi finché non sono io a chiamarli.» Scosse la testa con un sorriso di compatimento. «Ci vediamo a terra.»
Mentre parlava, si materializzò una fune che sembrava scaturita dal nulla, e lui allungò la mano per afferrarla, quasi senza guardare. Girandomi per vedere da dove fosse saltata fuori, mi accorsi che oscillava dallo stesso albero che aveva abbassato la passerella. Nel frattempo Connor l’aveva stretta tra le mani e aveva infilato il piede nel cappio all’estremità. Immediatamente fu sollevato e con un lento dondolio posato sul molo. Liberò quindi il piede dal laccio e stette a gambe leggermente divaricate, senza lasciare la corda, che rimase tesa finché non si fu messo saldamente in equilibrio.
Mi volsi intorno e vidi che aveva detto il vero: nessuno del suo equipaggio, uomini di grande fierezza, lo guardava. Rimase fermo ancora per qualche attimo, oscillando piano, quindi lasciò andare la fune.
«Prendila, Sean!» urlò e si volse verso gli astanti che avevano seguito con curiosità quella manovra. Allargò le braccia in un gesto di trionfo e saluto; immediatamente venne inghiottito dalla folla che lo accolse con entusiasmo.
La nave fu subito un brulicare di rematori, di solito disciplinatamente seduti in file serrate per ore e ore di seguito. Abbandonati i remi, sembravano riempire la galea al di là della sua capienza; si affollarono verso la passerella in una massa confusa e vociante. Non aveva senso che raggiungessi la mia gente all’altro capo della nave, così decisi di aspettare e di sbarcare una volta che fossero sfilati tutti.
«Merlino! È il momento di sbarcare; ti faremo strada» disse la voce di Tearlach, il nostromo.
Scossi la testa, sorridendogli e levando la mano. «No, Tearlach, non ancora. Che scendano prima gli uomini. Voglio parlare con il ragazzo; poi verremo.»
Tearlach si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Come vuoi» e brontolando si avviò a impartire altri ordini.
Volsi lo sguardo sul molo cercando di individuare l’uomo che aveva l’abitudine di chiamarmi «Testa Gialla», ma la visuale era impedita dai rematori che indossavano abiti di foggia celtica dai vivaci colori, splendenti nel sole mattutino, e portavano armi che scintillavano quando vi cadeva sopra la luce. Erano uomini dall’aspetto guerriero e dal portamento indomito che avrebbero scoraggiato chiunque avesse inteso ostacolare loro il cammino. Dalla disinvoltura dei loro modi si capiva che si trovavano a perfetto agio e che non per la prima volta mettevano piede in quel porto.
Tra quanti erano convenuti sul molo nessuno cercò di fuggire, anzi ci fu chi li accolse chiamandoli per nome e porgendo loro il benvenuto.
Come la folla si mosse, rividi la testa di Connor e incontrai il suo sguardo. Annuì e levò una mano con gesto disinvolto, senza essere visto dal suo compagno, Derek di Ravenglass, che mi volgeva le spalle. Un altro gruppo si mosse lungo la passerella. Volgendomi a destra verso il centro della nave notai che ormai almeno la metà dell’equipaggio era sbarcata e che potevo avvicinarmi a prua. Mi avviai muovendomi lentamente lungo il corridoio centrale, fermandomi di tanto in tanto per cedere il passo a qualcuno che si avviava a scendere a terra.
Davanti a me, il più anziano del gruppo e il mio amico più caro, Lucano, mi guardò e annuì, levando un sopracciglio con aria ironica mentre mi avvicinavo.
«Derek di Ravenglass si è mantenuto prestante in tutti questi anni, dai tempi di Verulamium. Un po’ appesantito e ingrigito, ma l’ho riconosciuto immediatamente. Ti ha già visto?»
«No, Connor è riuscito a distrarre la sua attenzione, ma non ce la farà ancora per molto. È venuto il momento di scendere sul molo.»
«Non vuoi che ti accompagni?»
«No, grazie. Andrò da solo. Qualunque cosa accada dovrà avvenire tra me e lui. Non voglio che nei primi momenti ci siano occhi e orecchi estranei.»
«Come vuoi tu. Ricorda, amico mio, che se rifiuta, siamo pronti a fare fronte all’imprevisto. Continueremo il nostro viaggio se sarà necessario.»
«Speriamo che non sia necessario andare tanto lontano. Artù!»
Al richiamo il ragazzo si volse immediatamente verso di me fissandomi con quei suoi strani occhi dorati che in quel momento riflettevano la luce del mattino. Non appena mi fu vicino, indicandogli con un cenno della testa il molo, gli dissi: «A terra incontrerò l’uomo che sta parlando con lo zio Connor. È il re cui ti ho accennato. Forse vorrà conoscerti, perché ha conosciuto tuo padre un tempo. Ma che lo chieda o no, voglio che tu rimanga qui ad aspettare pazientemente e ti comporti da uomo. Intesi?».
Il ragazzo mi sorrise mostrando una maturità assai maggiore di quanto potessero indicare i suoi anni. Senza dire niente si limitò ad annuire con la testa.
«Bravo!» Gli scompigliai i capelli e mi diressi allo sbarco, consapevole che lo sguardo di tutti era posato su di me. Sentivo che sotto i miei piedi la passerella oscillava lievemente e vedevo che sul molo la folla si era diradata. Ma la mia attenzione era puntata sulle spalle ampie e la figura imponente di Derek che, volgendomi la schiena, si stagliava davanti a me e, parlando con Connor, muoveva a tratti un braccio quasi a sottolineare qualcosa di importante.
Mentre mi avvicinavo, Connor mi sorrise al di sopra delle spalle di Derek, quindi allungò una mano per afferrare il braccio dell’altro e indicargli di tacere.
«Scusami, Derek» disse continuando a sorridere. «C’è con me un caro amico... credo che tu lo conosca.»
Fermandosi a metà discorso, Derek di Ravenglass si girò a guardarmi e io notai una ridda di espressioni guizzargli sul viso: stupore, consapevolezza, perplessità e, da ultimo, un’espressione cauta che non sapevo definire. Vi lessi il sospetto, un rapido moto di paura o di arroganza.
«Il Sognatore» disse corrugando la fronte.
Annuii. «Merlino Britannico.»
«Sì, ricordo. La Cornovaglia e Camelot. La prima volta che ci incontrammo usavi un altro nome.»
«Ambrogio di Lindum.»
«Già, sei romano.»
«Soltanto per metà» risposi scuotendo la testa. «E soltanto nel nome. Sono britannico.»
«Britannico? Che vuol dire?» Il tono sprezzante della domanda dimostrava che Derek non era affatto intimorito dalla mia improvvisa ricomparsa.
Mi strinsi nelle spalle. «L’altra metà di me è celtica, quindi della tua stessa stirpe. La combinazione fa di me un britannico, poiché non sono né l’uno né l’altro, ma sono nato in Britannia.»
«Sei uno che ama parlare. Lo eri, me lo ricordo, anche allora, quando eravamo in viaggio per raggiungere l’esercito di Lot.»
«Era la tua meta; abbiamo fatto un tratto di strada insieme.»
«Sì, poi scomparisti.» Tacque. «Il tuo medico mi pagò in oro per trasportare i tuoi feriti in un luogo sicuro al di là delle linee dell’esercito di Lot.»
Era vero. Aveva accettato l’oro, ma non aveva adempiuto fino in fondo al suo obbligo. Che nulla di male fosse accaduto alla nostra gente era stato soltanto merito della prontezza di Lucano.
Sapevo di dover parlare con cautela a tale proposito, se non volevo inasprire la situazione suscitando in lui sentimenti di colpa.
«Come si chiama quel tuo medico?»
«Lucano.»
«Lucano? È ancora vivo?»
«Sì, insieme con i suoi uomini. Si salvarono anche le masserizie.»
«Ne sono contento. Me lo sono spesso chiesto.»
Non era quello che mi ero aspettato. Cercavo di analizzare il tono della sua voce, per cogliervi i segni dell’arroganza o dell’ostilità.
«Che cosa vuoi dire?» chiesi.
Mi fissò diritto negli occhi, poi guardandosi intorno lanciò un’occhiata di sbieco a Connor.
«Una vera porcheria.» Si schiarì la gola. «Arrivammo senza difficoltà al punto di raduno di Lot, ma invece di procedere, fummo costretti a fermarci perché era stata convocata una riunione di comandanti a cui dovevo partecipare. Qualche stolto ci aveva visti e aveva passato parola che stavo arrivando. Lasciammo la tua gente al limitare dell’accampamento: concorderai con me, penso, che non fosse il caso di portarla al campo di Lot. Il raduno era immane; con i miei uomini avanzai e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Parte Prima RAVENGLASS
  5. Parte Seconda MEDIOBOGDUM