Musica veloce
L’estate del 1989 fu per me indimenticabile. Musica veloce, il mio primo singolo realizzato con la preziosa collaborazione di Mario Lavezzi, veniva trasmesso ogni giorno alla radio e preannunciava l’album Dentro il bosco, che sarebbe uscito a ottobre. Era la mia prima esperienza discografica: incisi il 45 giri – che nostalgia ripensare al vinile... – con la Compagnia Generale del Disco, la casa musicale fondata a Milano nel 1948 da Teddy Reno, quella che poi divenne famosa come CGD, dopo lo storico passaggio nel 1958 a Ladislao Sugar, editore musicale di origine ungherese. Uomo dalle grandi capacità imprenditoriali, Ladislao affidò la direzione artistica al giovane figlio Piero Sugar, che intercettò subito il gusto dei giovani dell’epoca e negli anni ’70 lanciò talenti nuovi come Gigliola Cinquetti, Massimo Ranieri e Caterina Caselli, che divenne sua moglie nel 1970.
Fu proprio con Caterina Caselli nel 1989 che iniziai la mia prima avventura discografica. Caterina, puro concentrato di energia femminile, è una vera talent scout, attentissima ai giovani e alle nuove proposte musicali. Ebbi la fortuna di iniziare con lei la mia carriera di cantautore, in compagnia di grandi professionisti, che divennero poi miei amici. Sentivo di avere le migliori prospettive e vedevo aprirsi davanti a me i sipari dei palcoscenici più importanti. Sognavo, come tanti giovani che si affacciano sul mondo dello spettacolo, di diventare famoso e mi sembrava che la vita mi stesse donando tutto ciò che i miei desideri riuscivano a contenere. Caterina Caselli, Mario Lavezzi, Oscar Avogadro – che scrisse i testi del mio primo disco – e alcuni altri musicisti, cantanti e produttori – che a quell’epoca erano protagonisti della musica italiana – erano intorno a me quotidianamente e la loro presenza mi rendeva euforico.
Il Clan-CGD
Anche mio padre collaborava con la stessa casa di produzione, il Clan-CGD e vedeva suo figlio, a soli ventitré anni, iniziare una carriera promettente. L’album uscì in autunno e subito fui chiamato a presentarlo in diverse trasmissioni televisive, in radio e con interviste alla stampa, fino a quando, nell’estate del 1990, feci il primo tour di lancio discografico insieme a Marcella Bella e Mario Lavezzi.
Ogni giorno della tournée mi svegliavo più innamorato della musica leggera e affascinato dal mondo dei cantanti, assetato di nuove esperienze, consapevole di dover imparare; non mi stancavo di osservare i big della musica italiana, i loro movimenti sul palco, il loro modo di padroneggiare la scena e, di sera, nella solitudine della mia stanza di albergo, cercavo di carpirne i segreti, il nocciolo, l’essenza di quell’alchimia che crea il vero artista di successo.
Ero un ragazzo e, come un qualsiasi ragazzo, mi ero lasciato avvincere da quel mondo e da quel modo di vivere un po’ nomade. Viaggiavamo per tante città e ogni giorno era una nuova avventura, che mi ispirava e mi spronava continuamente a creare.
I concerti con Marcella Bella e Mario Lavezzi
In tour ero il supporter di Marcella Bella, mi esibivo con le canzoni del mio album aprendo lo spettacolo. Poi uscivo di scena e, da dietro le quinte, con il petto ancora pulsante per l’emozione, osservavo Marcella Bella e mi abbandonavo alla sua voce avvolgente... Al termine della sua esibizione rientravo in scena con Mario Lavezzi, e tutti e tre concludevamo la serata. Insieme.
Quei concerti furono un’esperienza davvero gratificante per me: avevo la possibilità di farmi conoscere dal grande pubblico non solo come figlio d’arte, ma come interprete con un repertorio proprio. Professionalmente sentivo di fare la giusta gavetta e di crescere giorno per giorno; gli amanti della musica pop cominciavano a conoscermi e a conoscere le mie canzoni, scritte da maestri che poi segnarono la storia della canzone italiana. Avevo le carte in regola per diventare a mia volta un protagonista nel panorama musicale.
Le “cose di prima”
Vivevo già come un uomo di successo: una vita senza preoccupazioni, agiata, piena di privilegi. I lussi che mi concedevo e le lusinghe del pubblico mi avevano proiettato in una specie di sogno. Come talvolta accade, nei periodi fortunati si dimenticano in un ripostiglio le “cose di prima”. Accadde anche a me. E fra queste “cose di prima” c’era anche Dio: la fede. Non rammentavo più in quale angolo recondito del mio cuore avevo messo la chiave di quel ripostiglio. Tutto il mio essere – testa, corpo, anima – era esclusivamente dedito alla musica, alle canzoni e al mondo dello spettacolo; non vivevo più la dimensione spirituale, abbagliato dalla luce troppo forte e accecante del palcoscenico.
Il cieco desidera dal Signore non denaro, ma luce.
Senza la luce, tutto il resto gli sembra di ben poco valore.
Imitiamo il cieco.
Non chiediamo al Signore ricchezze evanescenti, beni terreni, onori effimeri, ma luce!
E non quella luce che finisce con il giorno, che si affievolisce con il temporale e che gli animali vedono come noi.
Preghiamo per ottenere la Luce che vedono gli angeli, quella Luce che non conosce inizio né fine, e che l’eternità non potrà mai spegnere.
GREGORIO MAGNO
Ansia e spasmi dolorosi
Fu in una notte oscura e misteriosa che la mia vita cambiò radicalmente. Ero a casa con Adriano e Claudia, i miei genitori. Era il 1990, una sera di settembre, stavo andando a letto e, prima di addormentarmi, accadde un fatto strano.
Abitavamo a quell’epoca in un bel palazzo antico e l’appartamento era caldo e accogliente, ma anche molto disordinato, se ben ricordo. Era quel disordine che soggiace alla creatività di chi lo abita: le risate, la musica e gli amici a casa Celentano non mancavano mai. Mi trovavo, dunque, in quella fatidica notte, nella mia “cameretta” che conteneva tutta la mia storia di bambino e di adolescente: il letto sempre da rifare, i poster, le mie chitarre, gli spartiti con le note a matita, le cartoline e le lettere degli amici di famiglia da tutto il mondo, i libri di scuola, i miei vecchi giocattoli... Avevo ventiquattro anni.
Ero sdraiato nel letto, gli occhi già chiusi, quando, improvvisamente fui preso da uno spasmo allo stomaco molto doloroso. Mi sembrò quasi di sentir diminuire la mia capacità toracica, il fiato mi si spezzò senza un perché e senza una ragione. Mi girava la testa, facevo fatica a respirare. Il petto, ansimante, cercava salvezza nell’aria, come un vecchio che rincorre l’ultimo alito di vita che fugge via. Non mi muovevo, ero paralizzato dalla paura e i muscoli non rispondevano più ai comandi. Trascorsi la notte in bianco, aggrappato alle lenzuola, con gli occhi sbarrati, contando i minuti che mi separavano dall’alba. Ansia. Era uno stato d’animo che non conoscevo.
Mi alzai la mattina seguente con la netta sensazione che qualcosa di spaventoso si fosse abbattuto sulla mia vita. Questo evento, apparentemente insignificante, ebbe su di me ripercussioni enormi: compresi quasi subito che la luce del mattino non mi aveva restituito il respiro né la mia capacità toracica normale. Era come se presentissi di aver perso la potenza e la qualità della mia voce.
Superato lo shock iniziale, la prima persona alla quale comunicai questo problema fu mia nonna. Feci una gran fatica, mi mancavano le parole e la lucidità per raccontarle cosa mi fosse successo nella notte, ma fu fondamentale per me il suo ascolto attento e silenzioso. Quasi subito, nonostante le rassicurazioni che ricevetti dalla nonna, caddi in una profonda depressione. Solo dopo alcuni giorni trovai il coraggio di parlarne ai miei genitori con grande disagio e sconforto.
Un disagio intimo
Da quella notte di dolore, di improvvisa paura, cominciò per me un calvario di sofferenza fisica e psicologica. Mi sottoposi pazientemente a un iter lunghissimo di visite mediche, esami e controlli; i miei genitori vollero consultare i migliori specialisti in materia per scoprire l’origine di questo profondo e diffuso malessere, ma sorprendentemente i responsi erano sempre negativi, come fossi perfettamente sano. I medici non potevano diagnosticare malattie particolari perché dagli esami clinici non risultavano anomalie. Tuttavia, io continuavo ad avvertire un chiaro e inequivocabile disturbo che si manifestava attraverso il mio corpo, i miei polmoni e le mie corde vocali, limitandomi in quello che più mi stava a cuore: il canto.
Vivevo nello scoraggiamento più assoluto, nella disperazione. Né io né la mia famiglia riuscivamo a capire cosa avessi. Tutti, medici compresi, mi ripetevano ossessivamente: «Giacomo, non hai niente».
Mi sento tuttavia di testimoniare che la condizione della malattia psicosomatica – l’ho scoperto solo dopo tanto tempo – nasconde sempre un disagio intimo, da indagare, un malessere che si manifesta attraverso il fisico, attaccando paradossalmente proprio gli organi che più si avvicinano al fulcro energetico del soggetto. L’attacco subìto rende la persona prostrata, vulnerabile e confusa, proprio perché il sintomo non spiega direttamente la malattia, ma ne è l’espressione.
Chi non sa andare oltre il sintomo, fermandosi ai referti medici, non si accorge di nulla, e la persona interessata – e in quel momento la persona ero io, Giacomo – non viene compresa nella sua sofferenza. Anzi, spesso viene derisa e abbandonata.
Un sentimento di esclusione
E ad abbandonarmi per prima fu la mia famiglia, che non riuscì a capirmi. Poi mi accorsi che una sorta di “sentimento di esclusione” si fece largo, a poco a poco, anche fra le persone intorno a me; non c’era nessuno che volesse avvicinarsi veramente al mio dolore sforzandosi di comprenderlo. Rinchiuso nella mia depressione trascurai tutte le attività e gli interessi: dallo sport alla musica, dallo studio agli amici, alle ragazze. Trascorrevo ore davanti alla televisione, come inebetito. Non comunicavo più, e lentamente persi tutti gli amici. Da ragazzo pieno di vita, studente modello di architettura, divenni un vegetale. La cosa che mi fece più male non fu l’allontanamento dei miei compagni di università o dei miei amici, ma l’incomprensione di tutta la mia famiglia: in quel momento il sole per me si oscurò e caddi nel buio più profondo.
All’epoca avevo un contratto discografico stipulato con la CGD: avrei dovuto realizzare in studio due nuovi album, ma fui costretto a rescindere il contratto per motivi di salute, non riuscendo più a cantare. Mi ritrovai malato, senza un lavoro, solo con la mia malattia.
Il desiderio di capire cosa mi stesse succedendo però cresceva, e se la risposta non poteva darmela la medicina, l’avrei cercata altrove. E la ricerca mi riportò al punto di partenza, anzitutto me stesso, e poi alla spiritualità che avevo abbandonato con tanta leggerezza.
Buio interiore e spiritualità
Cominciai a documentarmi dapprima attraverso letture in ambito medico e sanitario, poi mi accostai ai libri che affrontavano il tema della fede; ricordo che in quel periodo lessi un libro molto bello dal titolo Il Signore mi ha guarito di Forrest Tomas e Prado Flores H. José che mi colpì molto. Quella lettura fece crescere in me il desiderio di continuare a cercare nuovo nutrimento per la mia spiritualità, senza essere consapevole che la domanda iniziale dalla ...