Il mio cielo
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Il mio cielo

La mia lotta contro il dolore

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Il mio cielo

La mia lotta contro il dolore

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Informazioni sul libro

"Questo libro è per ognuno di voi, per cercare di trasmettervi con cuore aperto la pace, la serenità e la gioia di vivere che ho riscoperto e che si possono ritrovare al fondo e oltre ogni esperienza di dolore."
Quella di Dalila Di Lazzaro è una vita divisa a metà da una parte lo sfavillante mondo dello spettacolo, con gli aneddoti su Jack Nicholson, Alain Delon, Pier Paolo Pasolini, Carlo Ponti, Giancarlo Giannini, Massimo Troisi, Richard Gere, Mick Jagger e Robert De Niro. Dall'altra parte il mondo del dolore: dall'infanzia difficile, segnata dalla violenza subita all'età di sei anni, ai burrascosi rapporti con la famiglia, dalla tragica morte del figlio Christian all'incidente che l'ha costretta a letto per nove anni e che ancora oggi non le permette che brevi sprazzi di vita normale, prigioniera di un dolore che non le dà tregua, mai.
Ma Dalila ha scelto di non arrendersi, di non abbandonarsi allo sconforto, alla malinconia, ai ricordi. E continuare a vivere, per se stessa e per gli altri, per comprendere e accettare le ragioni della sofferenza e combattere una nuova battaglia.
L'autobiografia di una diva che, con tenacia e speranza, lotta ogni giorno per far trionfare la sua gioia di vivere.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788858502426

CAPITOLO X

Nei primi anni ’70 cominciai a viaggiare per il mondo: New York, Parigi, Londra erano le mie mete, sia per lavoro sia per piacere. Ho vissuto molte esperienze emozionanti, sempre con il rammarico di non poterle condividere con mio figlio Christian, allora troppo piccolo per potermi seguire nei miei numerosi viaggi.
Ero richiesta dalle più importanti testate di moda e molti fotografi internazionali mi hanno ritratta: Patrick de Marsellier, Francesco Scavullo, Hans Feurer, Bill King, Avedon e Newton.
I primi scatti mi furono fatti da Fabrizio Ferri, perché eravamo vicini di casa, abitava sulla Salaria. Tra tutti ricordo Avedon.
A un mio rientro su Parigi, la direttrice dell’epoca di «Vogue Francia» ci volle insieme per un servizio di alta moda. Avrò avuto 25 anni e sui rotocalchi italiani il look selvaggio dei miei capelli – effetto bagnato spettinato – faceva glamour ed era una novità perché in quel periodo andavano di moda le pettinature cotonate con la messa in piega: sono stata io a inventare la gommina!
Se l’avessi brevettata, adesso vivrei di rendita.
Una gommina tutta naturale, la birra: all’ultimo risciacquo me ne versavo in testa una bottiglietta e poi asciugavo i capelli al sole, senza phon. Dando un effetto spettinato bagnato, dal quale hanno preso spunto le aziende di prodotti per capelli inventando la gommina.
Ho avuto più fortuna io con questo look selvaggio, ancora di gran moda, che non Bo Derek con le sue treccine.
Il servizio per «Vogue Francia» con Avedon era ambientato in uno studio a Parigi e avevano chiamato Alexander, il più noto coiffeur della capitale: aveva pettinato molte star, tra cui Marlene Dietrich. Data la sua età, lo guardai perplessa: avevo dei dubbi sul fatto che potesse capire il mio look e infatti mi fece una tradizionale messa in piega con grossi bigodini, aggiunte di toupet e ciocche cotonate. Non mi riconoscevo così acconciata e pensai di parlarne con Avedon, convinta che mi avesse scelta proprio perché avevo stravolto il classico look femminile. Mi aveva anche mandato un enorme mazzo di tulipani color cipria con un biglietto: «Con la gioia di conoscerti e fotografarti, ti abbraccio e ti aspetto». Nel servizio dovevo indossare vestiti glamour di Dior, Saint Laurent, Chanel: pensavo che Avedon volesse abbinare il selvaggio con lo chic, era il suo modo di fotografare e avrebbe avuto successo. Invece mi disse: «Ti ho scelto per la tua bellezza, non per i tuoi capelli. Se non ti va bene possiamo rimandare il servizio». Non replicai e facemmo il servizio fotografico. Non lo vidi mai pubblicato e qualche tempo dopo Avedon mi mandò una lettera: «Mi dispiace non poter pubblicare le foto anche se sei bellissima, perché il tuo neo sul décolleté me le ha rovinate». Quando lo rividi in un ristorante a New York feci fatica a salutarlo e, passandogli davanti, girai la testa dall’altra parte anche se lui mi stava guardando.
Legai molto invece con Francesco Scavullo, con cui in quel periodo andavo spesso a ballare al “Fifty Four”, dove arrivavano a entrare con le Ferrari o i cavalli, e i fratelli Flick, i padroni della Mercedes, davano feste indimenticabili. C’erano Diana Ross, Margot Hemingway, Bianca Jagger, la moglie di Mick, che incontravo ovunque andassi, Billy Joel e Carmen, la pr dello “Studio 54”: ballava senza mutande e ogni tanto alzava la gonna perché sapeva di avere un bel fondoschiena. Era un periodo effervescente.
Una notte iniziò a corteggiarmi assiduamente un ragazzo bellissimo: dopo avermi ammiccato da lontano per un’ora si presentò, mi offrì un drink e mi fece ballare, gentile e charmant. Quando la mia agente Brigitte ci vide ballare mi suggerì: «Non sarebbe male come tuo accompagnatore per il ricevimento di domani». E guardandolo negli occhi gli chiese: «Ti andrebbe di accompagnarla?». «Non vedo l’ora» rispose.
Riportandomi in albergo dopo il ricevimento lo feci salire in camera, anche se con un po’ di complicazioni perché all’epoca c’era meno libertà e le proprietarie erano cinque anziane miliardarie puritane: sembrava di essere in collegio e dovette lasciare il passaporto. Dopo mesi di magra – non ero solita avere storie e a New York vivevo sola – quella sera ebbi come un colpo di fulmine per quel ragazzo, che restò a dormire con me. Si alzò all’alba dicendomi che doveva andare. E aggiunse: «Mi dai i miei mille dollari?». Da innamorata, credendo avesse dei problemi, risposi: «Non credo di arrivare a mille dollari, ma qualcosa in contanti posso prestartelo». «Non hai capito, tu mi devi pagare: è il mio cachet come accompagnatore per la serata e la notte.» Non credevo alle mie orecchie e gli chiesi se fosse pazzo: «Sei tu che mi hai corteggiata e circuita, non ti sei presentato dicendomi di essere gigolò». Non volle sentire ragione, diventò nervoso, mi costrinse a fargli un assegno e, vestendosi frettolosamente, uscì dalla stanza, seguito dai miei insulti. Ma fui subito ripagata: sul comodino aveva dimenticato il suo Rolex d’oro. Allora, nonostante fossero le cinque del mattino, mi affacciai alla finestra e gli urlai: «Hello, gigolò, you forgot this» – hai dimenticato questo – scaraventando dal sesto piano il suo orologio che si frantumò in mille pezzi sull’asfalto, e avvisai subito il portiere di non lasciarlo salire: e per fortuna, perché lui tornò indietro furente e le anziane proprietarie furono costrette a chiamare la polizia. E il mattino dopo mi fecero un bel predicozzo.
Andando avanti e indietro tra Roma e New York, alla fine decisi di affittare un appartamentino nella zona di Central Park. Frequentavo una scuola per perfezionare l’inglese e assistevo agli stages agli Actor Studios, ma con una grande confusione in testa; il successo mi aveva travolta, cambiando la mia vita.
Frequentavo la Factory di Andy Warhol, il massimo dell’espressione artistica e mondana. A volte lui mi portava nel suo studio e mi mostrava i quadri che dipingeva e un giorno mi chiese se volevo che mi facesse un ritratto; ma poiché avevo più volte visto alla Factory Mick Jagger – di cui ero una fan sfegatata – gli risposi che preferivo avere un ritratto del leader dei Rolling Stones. Sempre gentile me ne fece scegliere uno tra quelli che gli aveva fatto e il giorno dopo me lo fece avere autografato da Mick Jagger e con una dedica dello stesso Warhol: fu come ricevere un Oscar! Spesso alla Factory intravidi anche Liza Minelli che mi colpì per la grande simpatia; e fui chiamata per dei servizi fotografici: ricordo in particolare quello di Bill King per «Interview»: mi dedicò la copertina e sei pagine all’interno.
Una sera preparai una cena all’italiana nella splendida casa di Scavullo: arrivarono tutte le più belle mannequin dell’epoca, con musicisti e attori. Io indossavo uno smoking blu di Yves Saint Laurent con una maglietta in lycra, trasparente come una calza, nude look di Courege, che faceva intravedere con eleganza il mio busto nudo. Scavullo si entusiasmò talmente che iniziò a fotografarmi tra i fornelli mentre preparavo tre tipi di pasta: alla carbonara, con mozzarella e pomodoro e al gratin con salsiccia, piselli e funghi.
Il servizio uscì su un’importante rivista e Scavullo mi volle sul suo libro Scavullo on beauty pubblicato da Random House a New York nel 1976 e dedicato alle donne più charmant e famose del mondo. Tra cui Jacqueline Bisset, Faye Dunaway, Lauren Hutton, Jerry Hall, Bianca Jagger, Barbra Streisand, Rene Russo, Diana Vreeland, il mito della moda americana, Brooke Shields.
All’epoca le intravidi un po’ tutte, ma legai con Rene Russo, la top model del momento, e ci trovammo più volte da Scavullo per dei servizi fotografici. Adesso è sposata con un produttore ed è nel coro delle attrici più famose.
Io ero magrissima anche se mangiavo di tutto e non ho mai saputo cosa fosse una dieta e c’era una styling che mi dava il tormentone con le sue domande: ma cosa mangia? come si trucca? chi aveva gli occhi azzurri? suo padre? a che ora va a letto? quali creme usa? Voleva decifrare la mia bellezza.
Mi ritrovai anche nel libro I diari di Andy Warhol a cura di Pat Hackett, dato che stavo spesso alla Factory o a certe cene. Commentarono in un party Richard Gere e Warhol: «Domenica 16 settembre 1979 – Parlavamo di ragazze e lui ha detto di aver incontrato la più bella a Roma – Dalila Di Lazzaro – a una festa nel giardino di Zeffirelli; e io gli ho raccontato che l’avevamo scoperta noi – Paul Morissey l’aveva vista in uno spot pubblicitario alla tv italiana e ne aveva fatto la star di Flesh for Frankenstein – e lui ne è rimasto colpito».
Io ho saputo troppo tardi il commento di Richard Gere, quando oramai eravamo amici, altrimenti gli sarei saltata addosso. Ma non si era ricordato che l’avevo conosciuto prima, quando lui non era famoso e recitava a teatro. Una sera a New York Zeffirelli, io e altri amici lo raggiungemmo in un ristorante, dopo un suo spettacolo: mi colpì perché lui mangiava abbracciato alla sua compagna. Vidi in lui la star che sarebbe diventata, uscendo dal ristorante lo dissi pure a Zeffirelli, che fu d’accordo con me. Pochi anni dopo a Roma vidi In cerca di mr. Goodbar un thriller con Diane Keaton e in cui Gere, protagonista, faceva il bullo vestito in pelle nera: eccolo qui, pensai. Lo rincontrai anni dopo, a casa di Zeffirelli, quando venne in Italia a girare King David. Ci andai con Barbara, che era ospite da me. C’erano le elezioni in quei giorni e quando arrivammo da Zeffirelli, lui era con i suoi amici a vedere in tv i risultati: Richard Gere era solo in piscina e qualcuno ci consigliò di fargli compagnia.
Lo trovammo seminudo in posizione yoga sul bordo della piscina. Barbara si avvicinò per salutarlo, ma lui le chiese di aspettare, perché doveva finire di meditare. Rimanemmo sedute sull’erba e poco dopo, quando ci raggiunse in pareo, petto nudo, entrammo in casa dove c’era pronto un tè. Richard iniziò a guardarmi e farmi complimenti, ma Zeffirelli disse: «Bella, bella... Ma è troppo magra, guarda qui» e mi pizzicò il braccio, «È pelle e ossa». Allora invitai l’attore americano a pizzicarmi da un’altra parte per constatare che avevo le mie curve al loro posto.
Ci rivedemmo altre volte durante gli anni e spesso soffermandoci sul suo modo di vedere il mondo e la vita, sulle sue varie battaglie e l’amore per il buddismo. Ne sono sempre stata attratta e incuriosita, e quando mi invitò a partecipare a un seminario in Toscana con il Dalai Lama, ci andai. Mi alzai alle quattro del mattino e mi sorprese vederlo così devoto, sentirlo pregare con i monaci. Ricordo che il Dalai Lama iniziò il suo discorso con un grande sorriso: «Oggi siamo qui non per convincervi a cambiare idea oppure a quale religione aderire, ma per chi non ha un credo. Chi ha la sua religione, rimanga nel suo credo». Ho sempre stimato Richard: un connubio tra bellezza interiore e bellezza esteriore difficile da incontrare.
In quel periodo a New York mi resi conto di essere amata dai gay, sicuramente per la mia conoscenza di Andy Warhol. C’era una scadenza mondana obbligatoria, dove tutti partecipavano: la festa dei trans. Arrivai con un amico quarantenne, il quale vedendo davanti all’entrata tutta una calca di trans con costumi pazzeschi, mi strinse la mano e mi chiese: «Sei sicura di voler entrare?». «Non voglio perdermela.» Era perplesso: «A me fa un po’ paura.» «Paura di che? Sei matto!» «Mi raccomando, non perdiamoci» e mi restò attaccato alla giacca tutto il tempo.
In effetti sembrava di essere tra Sodoma e Gomorra: evito di descrivere alcune scenette, dico solo che Fellini avrebbe sguazzato alla grande. I trans erano travestiti al femminile ma all’eccesso estremo, la musica rompeva i timpani e c’erano scene erotiche da sadomaso, con vasche ricolme di schiuma dove i trans ballavano e in trasparenza si vedeva tutto: tre piani di follia. Il mio amico fu preso da un attacco di panico, ma uscire era complicato. Mi avvicinai a un buttafuori, un pezzo di cioccolato alto due metri, e lo supplicai di lasciarci passare dalla porta di sicurezza. E grazie al mio passe-partout, i miei occhi azzurri, ci fece uscire passando da una scalinata enorme, dove stavano entrando per uno show venti bellissimi trans vestiti con piume e paillettes. Mi trovai faccia a faccia con una ragazza vestita tutta Chanel, con ballerine in vernice nonostante la misura del piede. Sembrava una donna, ma mi guardò ed esclamò con una voce bassa: «Oh, I can’t believe: you are Dalila Di Lazzaro!». Ma ero io a non credere che mi avesse riconosciuta. «I love you», si baciò la punta delle dita e le appoggiò sulle mie labbra.
Una scena simile si ripeté qualche giorno dopo, quando a Villane entrai in una profumeria dove vendevano make up particolari. Incontrai Catherine Deneuve e simpaticamente ci salutammo. Si avvicinò un truccatore gay ed esclamò: «Dalila? Are you Dalila Di Lazzaro? I love you» e mi riempì di regali. Mi gratificava essere così amata da loro a New York.
All’epoca a New York avevo un gruppo di amiche: Barbara Nasi, che sposò in seconde nozze un nipote di Agnelli, ed era un tipo mondano, eccentrica e allegra. E una certa Dialta Lenzi Orlandi, che cercava di imitarmi in tutto: come mi vestivo, pettinavo e truccavo.
Una sera Barbara mi propose di andare a una cena da Warren Beatty, che viveva nella suite del Pierre, di fronte a Central Park – in quegli anni c’era la moda di vivere negli alberghi, in un lusso sfrenato. Venne ad aprirci in un accappatoio bianco che gli donava. Era classificato tra i belli americani, ma non era il mio tipo; fu simpatico e cordiale, passammo una serata divertente; prendendomi le mani, accarezzandomele e guardandole a lungo mi dette l’aria che volesse fare il piacione; poi mi disse: «Mi ricordi un’attrice che tra l’altro ho amato molto: Julie Christie». Fu un complimentone, perché era tra le mie attrici preferite. Poi mi spiegò che se volevo intraprendere una grande carriera dovevo rimanere negli States e imparare bene l’inglese: «Sei bionda ma hai un viso da mora, particolare, forte. E potresti avere molto successo». Ma non ne ero convinta: sapevo che avrei dovuto impegnarmi a fondo, capivo l’inglese a malapena, per cui avrei dovuto fare quattro o cinque anni di gavetta vera, e non me lo permetteva il mio cuore di mamma. Nonostante tutto rimanevo la timida ragazza di Udine.
Facendo foto con David Bailey ero spesso anche a Londra. Un giorno mentre stavo uscendo dalla Berlitz School, dove seguivo un corso, mi sentii chiamare da una voce gutturale, bassa, che non conoscevo: «Dalì-laaa». Mi girai: era una meravigliosa ragazza, bionda e alta. «Chi sei?» le chiesi. «Io ti conosco, sto andando a colazione con Paul Morrissey e Andy Warhol. Vieni, farai loro molto piacere. Mi chiamo Amanda».
Era Amanda Lear.
Accettai con gioia e mi ritrovai con quel gruppetto con cui avevo girato un film e Paul Morrissey mi invitò per la sera dopo a un party a casa di Donald Sutherland. Abitava in un quartiere scicchissimo. Ero con il mio compagno e per fortuna incontrai subito Paul Morrissey, perché mi sentivo spaesata. C’erano molte persone del mondo dello spettacolo inglese, ma i miei occhi si fermarono su un sofà, dove era seduta una donna non più giovane che mi sembrava di conoscere, continuavo a guardarla perché doveva venirmi in mente chi fosse. Chiesi a qualcuno chi fosse: Jean Shrimpton, che insieme a Twiggy era stata una delle più grandi top model. Rimasi male: non vorresti mai che le persone belle invecchiassero. Quando avevo tredici, quattordici anni sognavo di essere come lei. Mentre ero assorta a ricordare quanto fosse stata bella, mi si avvicinò Jack Nicholson, che aveva appena vinto l’Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo e fu un coup de foudre.
Cominciò a parlarmi fitto fitto in uno slang americano: avessi capito una parola! Si avvicinò il mio compagno, ma anche lui non capiva nulla e, guardandolo con un’espressione da ebeti, nelle pause mi inserivo con le esclamazioni che sapevo: «Oh, really? Fabulous... yes, yes, really». Avrebbe potuto anche dirci: «Siete due cretini» e io avrei continuato con i miei: «Oh, really? Yes, yes». Imbarazzata, a un certo punto dissi «I’m angry» cioè «sono arrabbiata» invece di «I’m hungry» che significa: «ho fame», e scappai via. Nicholson mi riacchiappò con un bicchiere di vino quando ero sola e, questa volta lentamente, mi chiese: «Why are you angry?». E mi venne un dubbio: che avessi detto che ero arrabbiata? Tentai di rispondere: «I’m sorry I just learn English, I don’t understand what you say when you speak fast» e anch’io parlai scandendo le parole, come fossi alla Berlitz. E lì lui non fu comico, ma di più: cominciò a parlare con i suoi occhietti furbi e una faccia piena di argomenti, era il cinema! Mi invitò il giorno dopo ad andare al concerto dei Rolling Stones. Sapevo fosse difficile avere i pass per lo stages, ma lui subito si buttò in avanti: «Non ti preoccupare, provvedo io, tu vieni. Ci troviamo davanti al cancello dello stages verso le venti».
Litigai con il mio compagno, ma non per il concerto, e per spregio andai da sola, con la mia english teacher che mi ospitava a casa sua, nel delizioso quartiere di South Kensington. Il concerto era fuori Londra e partimmo alle sei in treno. Solo il viaggio fu un’avventura e ne vidi di tutti colori: un ragazzo davanti a me a un certo punto tirò su la manica della camicia, con il laccio si legò il braccio e si iniettò l’eroina in vena. Avevo quasi paura di affrontare questo concerto: se tanto mi dà tanto in treno, chissà dove saremmo finite! Quando arrivammo migliaia di persone – molte accampate da giorni con sacchi a pelo – cercavano di prender posto in un parco: a vista d’uomo non finivano le teste. L’organizzazione era perfetta, con poliziotti ovunque, e mi sorpresero i telefoni provvisori a gettoni, avvitati agli alberi. Credo sia stato il più grande evento cui ho preso parte.
In quella confusione enorme – con gruppi di Harley Davidson che passavano, limousine, gente a piedi con bambini vestiti da hippy e teppisti pronti a menare (ci fu più di un parapiglia e arrivò la polizia), giovani con tatuaggi di teschi che facevano paura – iniziavo a inquietarmi. Faceva caldo, gli addetti con gli idranti innaffiavano le persone, e nell’attesa che i Rolling Stones iniziassero il concerto altri gruppi suonavano. C’era un’atmosfera molto dark. Mi ero messa vicina alla porta dello stages, ma avevo la sensazione che in quel caos non fosse facile incontrarmi con Nicholson. Rimasi un’ora davanti al cancello in cui entravano in continuazione limousine.
Era obbligatorio avere il pass e cercavo di farmi notare da chi era seduto in macchina e che io non potevo vedere per i vetri scuri, avvicinandomi quando rallentavano per il controllo della vigilanza. Perse le speranze stavo dicendo alla mia teacher: «Ci hanno dato buca, non bisogna credere alle star. E adesso che cosa facciamo, chi va in mezzo a tutta quella folla? È proprio uno str...». In quell’istante, mi sentii toccare su una spalla e spuntò Jack Nicholson, dandomi un bacio sulla guancia: «Let’s go!», andiamo. Ci fece entrare con grande difficoltà, perché non aveva i pass per noi, e ci portò a un’enorme tenda bianca, che ospitava gli amici dei Rolling Stones e le star del cinema e della musica: c’erano tutti, non mancava nessuno, solo la regina Elisabetta, forse. Presa dall’ansia di vedere Mick Jagger, non mi accorgevo di nessuno e con gli occhi cercavo solo lui. Nicholson mi portò a un buffet, una tavolata con dolce e salato, dallo champagne alle ostriche. C’era un’aria orientaleggiante, con dei grossi cuscini per terra e stuoie e mentre piluccavamo continuava a guardarmi con un mezzo sorriso, dalla punta dei piedi alla punta dei capelli: «You are wonderful! With your beautiful white boots!»: in effetti portavo una strabiliante minigonna jeans con una canottiera e degli stivali bianchi.
Le sedie erano poche e lui si trascinava dietro un ombrello con uno strano manico: «Non piove, perché lo porti?» gli chiesi. Lui fece tipo un minuetto, lo piantò nel terreno, aprì il manico e si trasformò in un seggiolino. Si sedette e mi disse: «Vieni qua» e batté la mano sulle sue ginocchia. In effetti ero un po’ stanca dopo tre ore in piedi. Approfittai delle sue ginocchia e mi sedetti e cominciammo a mangiare una mela insieme. A un certo punto fummo assaliti da un formicaio di fotografi e giornalisti, che mi spazzarono via a cinque, sei metri di distanza da lui: si erano accorti che era arrivato il premio Oscar.
Cominciava a imbrunire, la mia amica mi diede un pizzicotto e mi disse sottovoce: «Ecco Mick Jagger». Non mi rendevo conto di essere sulle ginocchia di una star dello stesso calibro. Quando vidi Mick non capii più nulla: mi alzai e cominciarono a tremarmi le gambe. Veniva verso di noi insieme a uno spilungone, un musicista dei Mamas and papas, accanto al quale non faceva una gran bella figura, perché era molto più piccolo. Ma non aveva importanza, c’era tutto il suo carisma. Aveva in mano un giornale arrotolato e, salutando, picchiettava gli amici sulla testa. Quando arrivò a noi lo sentii chiedere al suo amico chi fossi, poi qualcuno fece da tramite nel presentargli Jack. E quando mi fu così vicino il mio cervello andò in ebollizione, dimenticandosi completamente di Nicholson e di tutti gli altri, e chiesi alla mia insegnante, che aveva la macchina fotografica, di immortalarci. Ma lei non si azzardò a farlo, temendo che potessero buttarla fuori. Insistetti, ma non ci fu nulla da fare. Quando me lo presentarono rischiai di svenire: era lui il mio vero mito. E quando se ne andò avrei voluto seguirlo.
A un certo punto non lo vidi più e ci furono quindici minuti senza musica, poi ricominciò con un frastuono e il clamore della folla e dissi a Nicholson: «Jack, i Rolling Stones stanno cominciando a cantare». «Be quite.» Pensai che lui avesse capito che ero pazza di Mick e fraintesi la sua battuta: mi alzai convinta che il loro concerto fosse cominciato e che a lui non interessasse più di tanto. E cosa feci? Uscii silenziosamente dallo stages per andare sotto il palco e quando mi accorsi che non erano i Rolling Stones a suonare ma un gruppo che scaldava le folle, cercai di rientrare ma fu impossibile. E poco dopo, disperata, vidi salire sul palco tu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. Capitolo I
  7. Capitolo II
  8. Capitolo III
  9. Capitolo IV
  10. Capitolo V
  11. Capitolo VI
  12. Capitolo VII
  13. Capitolo VIII
  14. Capitolo IX
  15. Capitolo X
  16. Capitolo XI
  17. Capitolo XII
  18. Capitolo XIII
  19. Capitolo XIV
  20. Capitolo XV
  21. Capitolo XVI