Il regalo di Angela
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Il regalo di Angela

La fede ci ha ridato la speranza

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Il regalo di Angela

La fede ci ha ridato la speranza

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Informazioni sul libro

È una torrida mattina d'estate, Catello e Maria Celentano organizzano come ogni anno la gita al fresco del Monte Faito, con la Comunità Evangelica di Vico Equense. Le tre figlie - Rossana, Angela e Naomi - scalpitano per l'eccitazione. Tutto scorre tranquillo. I bambini giocano. I grandi preparano il picnic. Poi, intorno all'una, l'urlo disperato di papà Catello: "Non vedo più Angela". In un attimo si scatena il dramma. Angela, tre anni, paffuta e bella come una bambola di porcellana, è scomparsa. Inghiottita dal nulla. Perdere un figlio è un dolore atroce, ma perderlo senza sapere che fine ha fatto è ancora peggio. La vita è sconvolta, in un susseguirsi straziante di segnalazioni, telefonate, ricostruzioni, interrogatori, sospetti, ma soprattutto di anni di ricerche infruttuose. Di Angela non si sa più nulla, ma dal baratro più profondo emerge esemplare la storia di una famiglia che non si arrende e dopo sedici anni continua a cercarla, animata da una compattezza straordinaria e da una tenacia fuori dal comune. Catello e Maria Celentano, con le figlie Rossana e Naomi, trovano nella preghiera e nella fede la spinta per tenere vivo il caso e continuare da soli la ricerca fino a conquistare una incredibile serenità, data dalla certezza interiore che un giorno non lontano ritroveranno la loro Angela. Una storia vibrante di speranza per tenere i riflettori accesi su Angela e su tutti i bambini che scompaiono nel mondo ogni anno.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858506578
Categoria
Religion

1
ANGELA È SCALZA...
 (Maria) 

Angela è scalza. Quando viene in cucina, quando scappa in camera, quando sale in terrazzo, quando fugge per il corridoio, quando spinge il triciclo addosso al portone, per aprirlo e scaraventarsi nella casa degli zii, al di là dello spazio comune che introduce ai due appartamenti.
«Angela, dai, metti le scarpe.» «Perché, dove dobbiamo andare?» Le è sempre piaciuto, rimanere scalza. Chissà se le piacerà ancora, oggi che ha diciannove anni, ma la immagino così, non credo di sbagliarmi. Mettersi le scarpe per lei vuole dire uscire. E quando è a casa, non le vuole tenere, mai. Le scarpe sono una gabbia, una costrizione, probabilmente le vede come una limitazione alla sua libertà. Come i pantaloni, di qualsiasi foggia o lunghezza. Perché Angela ama pazzamente le gonne. Già a tre anni. Ha le idee chiare, e non ha certo paura a dirmelo. «Mamma, io voglio la gonna che gira.» Vuole fare la ballerina, ha deciso, le piace che quando lei ruota su se stessa, la gonna si gonfi. D’estate, però, non vuole nemmeno quella. Da noi fa caldo, il tetto si arroventa sotto il sole di mezzogiorno e trasmette il suo calore all’interno, non c’è troppo isolamento attraverso il soffitto. Si scalda il terrazzo, e poi si scalda anche la cucina. Soffre il caldo, Angela, ma prova a difendersi come le suggerisce l’istinto: in casa gira scalza e sopporta soltanto una maglietta leggera e un paio di mutandine.
Devo svegliarle: lei, Rossana, la piccola Naomi che dorme ancora in camera nostra, nella culletta di fianco al letto. Devo prepararle come ogni mattina, ma so che questa volta non dovrò insistere. Ad Angela piace dormire, anche nei lunghi pomeriggi d’estate: è vero che non sta mai ferma, appare instancabile, ma poi sfinita ha bisogno di riposare, e quando crolla è un sasso. Questa mattina, no. Lo sa Angela, lo sa anche Rossana, che talvolta nei giorni di scuola fa qualche storia prima di aprire gli occhi, che è un momento speciale. «Bambine, su, andiamo...» Non devo ricordare loro che cosa succede, dove dobbiamo andare, la mattina del 10 agosto 1996.
L’agitazione, il clima della festa, sono dentro casa da molti giorni, si respira anche nelle loro domande, nel loro allegro vociare, nei piccoli preparativi attorno ai giochi che vogliono portarsi in montagna. Magari sempre quelli, ma nuovi nella loro fantasia: a tre anni o a sei anni, l’età di Rossana e Angela che indugio un istante a guardare dormire così simili e così differenti, il mondo dei bambini ha rumori e colori che noi grandi fatichiamo ormai a ricordare; ha soprattutto dimensioni diverse, e sogni e ideali intatti, sempre stupendi, illimitati, che il tempo non ha ancora ingabbiato nella sua inevitabile successione di doveri e scadenze.
Io sono in piedi dalle sette. Devo finire i preparativi per la gita a Faito. È un appuntamento fisso, ormai, per il nostro gruppo, la Comunità Evangelica. Vi salivo, sul nostro monte, con la mia famiglia prima di sposarmi, poi ci sono andata più di una volta in compagnia di Catello. Ora che siamo noi tra le anime del gruppo, è automatico ritrovarci tra gli organizzatori di questo piccolo evento che chiude la nostra stagione, nel cuore dell’estate. Prima si preparano e si celebrano le recite dei bambini, dopo la fine della scuola, quasi sempre l’ultima domenica di luglio o la prima di agosto. E quindi la settimana successiva, si va a Faito con tutto il gruppo.
«Su, bambine...» Apro piano la porta della loro stanza, la lascio sempre accostata la notte perché mi arrivino alle orecchie i suoni quasi impercettibili dei loro movimenti, i sospiri, i piccoli lamenti. Angela dorme a sinistra, Rossana a destra della finestra che si affaccia sul retro, verso la montagna. La camera è ancora in penombra, anche se la luce fuori è già fortissima e preme per farsi largo. Loro stanno riposando così bene che è un delitto svegliarle. Ma so che non aspettano altro, è un giorno particolare soprattutto per loro.
Guardo l’orologio, sono quasi le otto. Torno velocemente di là, rifaccio mentalmente l’appello di ciò che devo portare a Faito. Una volta che avrò svegliato le bambine, la mia mattina avrà un’accelerata vertiginosa, e potrò pensare a poco altro che a loro. Ormai devo soltanto prendere le bibite dal frigorifero, il resto è pronto: ho fatto l’insalata di riso, così tanta che mi hanno preso in giro, e moltissime polpette al sugo, non so nemmeno quante siano venute. Ai bambini piacciono, le polpette, e di bambini ne avremo tanti, a Faito. Non ho dovuto cucinare tutto io, certo, ognuno porta qualcosa e poi si mette tutto insieme: saremo una decina di famiglie, abbiamo calcolato che il nostro gruppo sarà formato da una quarantina di persone, d’altronde siamo una quindicina soltanto tra i parenti più stretti. È meglio che avanzi, il cibo, mi dico sempre. Ci ripenserò, a questa mia tendenza ad abbondare, qualche ora più tardi, con ben altro spirito.
Catello fa su e giù dal cortile, dove teniamo la macchina: ha già portato e caricato ciò che era pronto. Sento il brusio dei suoi dialoghi con il fratello, arrivano indistinti da sotto. Ci siamo concessi il caffè, come ogni mattina, il silenzio interrotto soltanto dal rumore di qualche auto che passa davanti al nostro cancello lungo la strada che segue il costone e si avvicina al centro del paese, e poi oltre, verso la montagna. Soprattutto d’estate, per salire a Faito si può passare anche da qui, e il clima di festa si avverte anche nel rumore delle macchine, di tutti coloro che scappano dal caldo della costa, dal mare, per andare a cercare il fresco oltre i mille metri. Come faremo anche noi, di lì a poco.
Allineo le ultime borse all’ingresso, preparo il tavolo per la colazione delle bambine. È piccola, la nostra casa, in tutto saranno circa sessanta metri quadri, più un terrazzo e in basso il cortile comune, ma mi ci trovo bene, anzi ci sto proprio alla grande. È poi è la nostra, soprattutto, e questo mi è sempre sembrato un traguardo importante.
È un ambiente che mi piace, perché l’abbiamo organizzato con Catello in modo molto funzionale. Ricordo i primi giorni, quando siamo venuti ad abitarci, appena sposati. C’era tanto da fare, pulirla, pitturarla, arredarla, ma è stato bellissimo sistemarla secondo i nostri sogni, i progetti, un poco per volta, a seconda delle nostre possibilità. E non è certo finita.
Oltre la porta di ingresso, più spesso aperta che chiusa ad assecondare il naturale via vai di parenti e amici, c’è un andito da cui parte un piccolo corridoio. A destra si aprono le due camere da letto, quella delle bambine e quella matrimoniale. A sinistra c’è il bagno, in fondo al corridoio la stanza dove viviamo la maggior parte della nostra giornata: il salotto con il tavolo rettangolare al centro, la cucina che occupa la parete di sinistra, il divano dalla parte opposta, il televisore nell’angolo, insieme col telefono. Di fronte, a destra della cucina, c’è la porta a vetri da cui si accede al terrazzo, che rappresenta un utilissimo sfogo, e in cui le sere d’estate si sta veramente bene.
Angela dorme che è un piacere. Le guardo i capelli, neri, nerissimi, li ha così da quanto è nata. Sul cuscino si fa largo la sua treccia, è un ricordo del pomeriggio precedente. «Non toccarmela, lasciala com’è» mi aveva detto la sera con gli occhioni spalancati, prima di andare a dormire. Così piccola, così sicura. Eravamo stati a Ticciano, il paese pochi chilometri più su, un’altra delle tante frazioni di Vico Equense, dove vive la famiglia di Catello. Per Angela è stata sempre una festa andare a casa della zia, perché sapeva che mia cognata Iolanda, la moglie di Andrea, l’avrebbe presa da una parte, e le avrebbe chiesto se le avesse fatto piacere avere una treccia. Eccome, se le piaceva: si metteva seduta, contenta, e si lasciava modellare i capelli dalla zia, per tutto il tempo necessario. Si sentiva grande, importante, e poi andava fiera di quella treccia che ora si distende sul cuscino. «Mamma, non la toccare. Devo andare così, in montagna.» Tranquilla, non la tocco, l’avevo salutata dandole il bacio della buona notte.
È divertente, vederle tutte e tre attorno al tavolo di cucina. Naomi sul seggiolone, Rossana e Angela che tuffano la faccia dentro la tazza del latte. Ma tutto questo dura un attimo, la colazione questa volta è un rito veloce, non c’è davvero da insistere per farle mangiare. E devo fermarle, perché vorrebbero andare subito sotto, dal padre, dai cugini. Dipendesse da loro, partirebbero così, come si sono alzate dal letto. «Bambine, venite a lavarvi e vestirvi, prima.»
Angela corre di là, in camera. E si piazza davanti al comò. Sa bene dove sono i vestiti. Sceglie lei, ormai. E vuole mettersi una gonna, come al solito. Allora intervengo: «Angela, oggi non va bene, la gonna. Devi giocare, andare sull’altalena, correre nel bosco, sederti per terra, se metti la gonna dovrai stare ferma...». Si blocca un attimo, si vede che le sto dando un sottile dispiacere, mentre mi punta addosso gli occhi, interrogativi. «Sarebbe meglio mettere i pantaloncini: starai più comoda» le dico con tono conciliante.
Rimette la gonna a posto, o almeno cerca di farlo, a suo modo, come fanno tutti i bambini. Ne ha tante, di gonne, tantissime. In futuro avrei continuato a comprargliele a scadenze regolari: con la taglia da quattro anni, da cinque anni, da sei, da sette... con la speranza di potergliele fare indossare, col dolore di doverle riporre via, immancabilmente, anno dopo anno, senza che lei le abbia mai vestite. Le ho ancora tutte da parte: anche loro in un certo senso sono parte della sua vita. E della mia.
Pesca nel cassetto un paio di pantaloncini rosa: me li fa vedere ma non certo per avere la mia approvazione. Per lei è già una concessione, ha già deciso. E poi tira fuori una magliettina bianca: le è sempre piaciuta, vi è disegnato sul petto un albero grande grande, sulla chioma sono applicati dei fiorellini colorati, come dei bottoncini. Mi si piazza davanti, impettita, come a dirmi: “Be’, sbrighiamoci allora”. Ogni tanto si infila le mani nei capelli, quelle mani piccole e sode che non smetterei mai di accarezzare, a controllare che la treccia sia a posto, per spostarla dalla fronte. A star ferma si sente in prigione, e comincia ad avere caldo.
Prova a scappar via, per lei il rito della vestizione sarebbe finito abbondantemente. Sorrido, indicandole con un’occhiata i piedi. Capisce, quasi rassegnata. Troviamo un accordo amichevole. Vanno bene le scarpe, per andare nel bosco, ma niente calzini: è il nostro patto. Fosse per lei, sarebbe rimasta scalza, ovviamente. Prende allora un paio di scarpe da ginnastica rosa, faccio appena in tempo ad allacciargliele e lei è già via. La sento che scende per le scale, di sotto, in tre balzi è nel cortile. Sono circa le nove del 10 agosto 1996, quando Angela esce dal portone della nostra casa di Arola, frazione di Vico Equense. Sedici anni dopo, aspetto ancora il momento che Angela faccia rientro, da quello stesso portone.

2
IL BOSCO DEI GIOCHI
(Catello)

Ci saluta dal finestrino dell’automobile di mio fratello Gennaro. «Vuoi andare con zio Lallo, Angela?» Lo chiama così, da quando ha cominciato a parlare. Ma non c’è bisogno di chiederglielo, certo che ci vuole andare. È attaccatissima agli zii: per lei, soprattutto grazie a lei, le nostre case sono diventate una sola, solo in teoria divise da un corridoio e due porte, in pratica sempre aperte, per permetterle di correre, a piedi o sul triciclo rosso, da una famiglia all’altra, a portare la sua allegria. Mio padre, Antonino, ha comprato anni fa questa casa, sulla via che da Meta di Sorrento sale verso la montagna, nel cuore della penisola. Una strada che non è mai stata larga, delimitata da una parte dal bosco, dall’altra da un parapetto in cemento, una strada che a tratti consente soltanto il passaggio di un’auto: quando vi transita il pullman di linea, si concede lunghi e sonori colpi di clacson per annunciare la sua presenza, come si fa in montagna. Dalla costa, ad arrivare qui si impiegano circa venti-venticinque minuti e dopo ogni curva appare uno scenario sempre diverso, dominato dal profilo inconfondibile del Faito. Ormai ci sono abituato, qui sono nato e cresciuto, e non mi stupisco più come dovrei della bellezza di un posto che cambia pelle ogni stagione. Anche nelle cartine, o nelle foto prese dal satellite, questa sezione della penisola sorrentina che la attraversa a collegare i due versanti, quello a nord affacciato sul golfo di Napoli, l’altro a sud verso la costiera amalfitana, è una macchia verdissima in cui a fatica si individuano le strade e gli interventi dell’uomo. In una zona che purtroppo è stata più volte violentata dal cemento, appare come un’oasi naturale.
Arola, il nostro paese, è una delle tredici frazioni del comune di Vico Equense, e anche una delle più vaste come territorio. D’inverno saremo tremila abitanti, più o meno, d’estate molti di più: chi ha le case qui, o i parenti, viene a trascorrervi le vacanze. Arola si è sviluppata ai bordi della strada. La nostra casa una volta era una dimora rustica che ospitava un frantoio: la materia prima è sempre stata a portata di mano di chi vi ha vissuto. Al terreno che sovrasta la casa sono rimasti aggrappati ancora adesso olivi secolari, che evidentemente erano il sostentamento dei contadini che abitavano qui o vi lavoravano. Mio padre, imprenditore edile, comprava talvolta case o casolari da ristrutturare, li risistemava e li rivendeva. Questa dimora sulla strada che da Fornacelle si avvicina ad Arola, poco prima del cartello bianco che segnala l’inizio del paese, era stata acquistata per essere adibita a deposito di materiale edile per la sua attività. Poi, con la crescita di noi figli, è stata risistemata per farne la nostra casa e ne sono stati ricavati tre appartamenti: per me, per mio fratello Gennaro, per una delle nostre sorelle, Fiorenza. Confesso: non ho mai desiderato altro, non solo perché cambiare casa comporta impegni importanti se non proibitivi per chi vive solo del proprio stipendio, ma perché negli anni l’ho vista cambiare, migliorare, l’ho adattata alle esigenze della famiglia che è cresciuta rapidamente, l’ho fatta mia metro dopo metro, scavata com’è nel cuore della montagna, ne ho apprezzato l’accoglienza nei momenti più esaltanti e nei frangenti più drammatici.
Angela saltella felice nel piazzale sotto casa. Anche se il cancello di ferro è aperto, sa che non deve uscire. Non lo ha mai fatto, non è stato un concetto su cui abbiamo dovuto insistere troppo, né con lei né con Rossana, né lo sarà con Naomi, che proprio in queste ore sta cominciando a prendere il coraggio di camminare da sola. Lo sanno, le bambine, che è pericoloso affacciarsi sulla strada, anche se il traffico qui non è mai sostenuto.
Abbiamo caricato in auto tutte le borse, il tavolo pieghevole, le sedie, i giochi, ma quando giro la chiave di accensione della mia Panda rossa, si illumina inopportuna anche la spia che indica un livello insufficiente dell’olio. Maria è pronta, ha un’efficienza che conosco bene ma che mi stupisce ogni volta, però devo avvertirla che dobbiamo arrivare fino al distributore, a Meta, per far rabboccare l’olio del motore. «Angela, tu vai con lo zio, noi ti raggiungiamo»: non vede l’ora, la capisco bene.
Guardo l’orologio e ho la conferma sgradevole che faremo più tardi di quanto avessi previsto. Pensavo di poter essere già su, nel bosco, per le nove al massimo, invece se va bene arriveremo almeno un’ora dopo. So che ci sarà un bel po’ di gente, è agosto, è sabato, e la giornata si annuncia tra le più calde dell’estate. Spero di non dover poi faticare troppo per trovare uno spiazzo sotto gli alberi dove poterci sistemare tutti quanti: non siamo pochi, e abbiamo anche molte borse: può diventare scomodo soprattutto se dovremo allontanarci dal luogo in cui lasceremo le auto. «Vai su e comincia a vedere com’è la situazione, io arrivo subito», dico a mio fratello, che sta già uscendo a retromarcia dal cancello.
Mi dà allegria vedere l’esaltazione delle bambine che mi gironzolano attorno, nel cortile su cui sta cominciando a battere con prepotenza il sole. Mi chiedono, da molti giorni, se potranno giocare come le altre volte in cui erano state a Faito: a pallone, con la corda, se sistemerò ancora l’amaca tra due alberi, l’altalena con le funi, se potranno giocare a palla. Se dipendesse da loro si porterebbero tutta la cameretta con i giochi: le rassicuro che faremo tutto, sì, che non mancherà niente, che la festa, la loro festa, sarà completa, indimenticabile.
Finalmente posso salire in auto. Mi volto a verificare che il cancello sia chiuso, anche se non ce n’è bisogno, non ho mai vissuto con l’ansia o il timore dei ladri, di qualcuno che potesse venire dentro casa a rubare, a farmi del male. Non fa parte della mia cultura, della nostra, la mia e di Maria e delle nostre famiglie. Ci piace avere fiducia nelle persone, e la maggior parte delle volte è puntualmente ricambiata. Ed è ciò che spieghiamo a chi partecipa, la domenica, ai momenti di riunione con la Comunità: aiutare il prossimo, aprirsi alle necessità di chi ci è vicino, fidarsi di lui, appartiene al nostro bagaglio interiore, quasi un bisogno, non è soltanto una delle basi della nostra fede. E non lo racconto ai bambini del gruppo solo perché devo farlo, in linea con il compito che mi sono assunto la domenica, ma perché ci credo fermamente, perché vivo così anch’io. Abitare qui, in questo paese, o meglio in questa vallata di cui conosco ogni angolo, ti spinge a una condivisione quasi totale con chi ti vive vicino, e dunque anche semplicemente a lasciare aperto il portone di casa, o dimenticare la chiave nella toppa, o il cancello di ferro soltanto accostato. Arola è come una casa che si allarga a comprendere tutte le abitazioni e i suoi abitanti, ha occhi e orecchie. Magari è difficile custodire dei segreti, ma mi vanto di non aver avuto mai nulla da nascondere. E anche star dietro il bancone della ferramenta è come avere uno sportello sempre aperto sulla mia gente, sulle necessità di tutti. Così involontariamente partecipo io stesso alla loro vita, come i miei compaesani fanno parte spesso attiva della mia.
La Panda attraversa Arola, come mille e mille altre mattine. Mi lascio a sinistra il negozio su cui d’abitudine getto sempre uno sguardo, la ferramenta non è mia ma è come se lo fosse perché ci passo le mattine e i pomeriggi, da quando il padrone mi ha preso a lavorare con sé. La strada segue l’andamento della vallata, sale dolcemente come se percorresse una larghissima curva regolare che conduce alle frazioni aggrappate alle prime pendici del Faito: la prima è Ticciano, il paese dove sono cresciuto e dove abitano i miei genitori, poi Moiano, da dove si affronta l’ultimo tratto verso Faito. Vado piano, il finestrino abbassato, rispondo al saluto di chi incrocio, davanti alle case, lungo le vie strette. È quasi un rito, a cui non mi sottraggo di certo: mi piace, anzi. Conosco tutto di loro: chi sono, che cosa fanno, chi sono i figli, i genitori, i parenti, così come loro sanno tutto di me, della mia famiglia numerosa che negli anni si è ampliata ancora, noi, i sette figli di Antonino e Rosa Celentano da Ticciano.
La macchina di Gennaro è ormai davanti, li abbiamo raggiunti, e quando Angela se ne accorge si volta, si mette in ginocchio sul sedile posteriore e ci saluta, ricambiando la risata di Maria. La strada, dopo Moiano, propone le ultime rampe, qualche tornante, e il bosco del Faito le viene incontro con i suoi profumi e i suoi colori. In passato, so che vi sono state portate piante da diverse regioni del mondo, un botanico alcuni secoli fa vi piantò molti fusti di conifere, ad affiancare la vegetazione spontanea. Ora il verde acceso che esplode ogni primavera ha lasciato spazio a una tonalità più scura, le chiome dei faggi hanno protetto il sottobosco dal sole feroce di questa estate e non hanno consentito che si bruciasse, come è già avvenuto qualche decina di metri più giù lungo il costone, dove il colore dominante è il giallo dell’erba ormai secca, esposta al sole di tutto il pomeriggio. Quando arriviamo su, il vasto altopiano ci accoglie esattamente come lo immaginavo: un insieme di suoni e rumori, di voci e macchine, di urla e risate che trovano accoglienza sotto questo immenso tetto verde. C’è solo una strada di accesso, o meglio ce n’è una sola aperta al pubblico, e per percorrere le ultime centinaia di metri siamo costretti a rimanere in fila, sono in tanti coloro che hanno avuto il nostro stesso desiderio di concedersi una giornata a respirare l’aria pulita dei mille metri.
Sappiamo dove andare, con Gennaro. Un paio di curve oltre il ristorante che oggi lavorerà a ritmi forzati, oltre le poche case che hanno preso il nome di Villaggio Faito, saliamo ancora a destra, qualche decina di metri, e c’è un grande slargo sotto gli alberi, oltre il quale le macchine non possono più andare. Ci eravamo dati appuntamento qui con gli altri del gruppo, davanti al centro sportivo, ma non dobbiamo spostarci di molto. Parcheggiamo ai confini di una grande radura, le stesse auto ci aiutano a delimitare quella che sarà la nostra zona. Oltre non si va, la vegetazione ha avuto una vera e propria esplosione. In autunno, quando saliamo a cercare funghi, o a raccogliere le castagne, qui è tutto libero, sgombro, puoi sentire il rumore dei tuoi passi che calpestano aghi e foglie secche, arbusti e rami. Ora no, ci dobbiamo fare largo tra l’erba, il rumore è più un fruscio morbido, i rumori già attutiti scompaiono. A poco a poco le grandi aree libere tra gli alberi si stanno riempiendo. È un vasto rettangolo verde, quello dove cominciamo ad appoggiare le borse e i tavoli, e anche per legare le altalene e l’amaca c’è solo l’imbarazzo della scelta, gli alberi non mancano: sì, qui i bambini possono giocare. Sulla destra si spalanca la vallata, un grande cuneo che si infila nel fianco della montagna, il dirupo è abbastanza scosceso. Mettiamo i tavoli per lungo a seguire il bordo della radura, così che i bambini possano giocare all’interno. Quel dirupo, però, non mi lascia del tutto tranquillo. Non ci sono transenne, qui non le hanno ancora messe, e noi abbiamo troppi bambini piccoli. Certo, Naomi si muove appena, Angela è alta poco più dell’erba e non ci si infila di sicuro in questa macchia informe, ma ce ne sono altri, possono scivolare, possono cadere. Così strappiamo delle felci, usiamo alcune corde che abbiamo portato per le altalene: prepariamo una specie di cordone, più che altro a indicare un confine, a delimitare questo spiazzo di erba su cui Maria e le altre donne stanno cominciando a sistemare i tavoli, uno a fianco dell’altro.
A contare le borse e le buste che tiriamo fuori dalle auto, man mano che arrivano tutti gli altri, sembra che dobbiamo star qui per una settimana. Sulla tavolata che un pezzo alla volta è diventata davvero lunghissima, prendono posto tanti di quei recipienti, zuppiere, bottiglie, piatti, da rimanere sbalorditi, se non ci fossi abituato. Dalle nostre parti, ma so che non siamo certo i soli, il concetto di spuntino assume spesso dimensioni imprevedibili. Tutto intorno si fanno largo profumi conosciuti, questa non è certo la vegetazione, per tutti è il momento di pre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione. L’appuntamento (Catello)
  5. 1. Angela è scalza... (Maria)
  6. 2. Il bosco dei giochi (Catello)
  7. 3. Un mondo di bambini (Maria)
  8. 4. Una scelta per la vita (Catello)
  9. 5. «Sei bella, mamma» (Maria)
  10. 6. Peggio di un incubo (Catello)
  11. 7. «Io non mi muovo da qui» (Maria)
  12. 8. Salta fuori, piccola! (Catello)
  13. 9. Il buio nell’anima (Maria)
  14. 10. La prima pista (Catello)
  15. 11. Una luce, laggiù (Maria)
  16. 12. Lo sciopero della fame (Catello)
  17. 13. Un mondo capovolto (Maria)
  18. 14. Il mostro è in casa (Catello)
  19. 15. «Lei ucciderebbe sua figlisa?» (Maria)
  20. 16. I nostri progetti (Catello)
  21. 17. E ora raccontami tutto (Rossana)
  22. 18. Lettera a un’amica (Naomi)
  23. Conclusione. Quanti regali! (Catello, Maria, Rossana e Naomi)
  24. Ringraziamenti