Che cosa dobbiamo fare
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Che cosa dobbiamo fare

Smarrimento e inquietudine dell'uomo contemporaneo

  1. 196 pagine
  2. Italian
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Che cosa dobbiamo fare

Smarrimento e inquietudine dell'uomo contemporaneo

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Questo è il tempo degli “smarriti di cuore”, ma per superare lo sconforto e la confusione occorre ritrovare il fare del cuore.
In una suggestiva meditazione sulle beatitudini e sui cinque “grandi Discorsi” del vangelo di Matteo, il Cardinal Martini svela il senso ultimo e profondo dell’agire umano nella vita quotidiana, nella società e nella Chiesa.
Occorre ritrovare una dimensione contemplativa della vita capace di restituire lucidità e chiarezza, per fare discernimento e individuare strade per la convivenza pacifica, la salvaguardia del creato e la costruzione del bene comune.
Sono pagine che coniugano umanità e spiritualità. Un invito ad avere fiducia e a superare l’inquietudine del tempo presente.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858505137

1

IL FARE DEL CUORE
(Matteo 5 – 7)

Premesse
1. Richiamo un brano del discorso sui pastori, di sant’Agostino, che ci è consegnato oggi dall’Ufficio delle letture: «Ogni nostra speranza è posta in Cristo. È lui tutta la nostra salvezza e la nostra vera gloria».
«Sì, Signore, ogni nostra speranza è in te. Tu sei la mia salvezza, la nostra salvezza, la nostra gloria; la salvezza della mia vita, della mia nascita di uomo, di cristiano, di prete, di Vescovo. Tu sei la salvezza e la gloria delle nostre comunità. Solo affidandoci a te, nostra salvezza e nostra vera gloria, osiamo iniziare il cammino degli Esercizi. Per intercessione di Maria, del beato Ferrari che è stato un grandissimo pastore, di tutti i nostri santi e amici del cielo.»
Poi Agostino aggiunge una parola impegnativa: «Ora noi che il Signore, per bontà sua e non per nostro merito, ha posto in questo ufficio – di cui dobbiamo rendere conto e che conto! – dobbiamo distinguere molto bene due cose: la prima cioè che siamo cristiani, la seconda che siamo posti a capo. Il fatto di essere cristiani riguarda noi stessi; l’essere posti a capo invece riguarda voi».
Dunque noi viviamo i giorni di Ritiro anzitutto come cristiani, badando a noi stessi; in secondo luogo come responsabili, come pastori, sapendo che nel nostro ascendere in alto o nel bloccarci o nello scendere in basso, trasciniamo con noi tanti altri.
«Per il fatto di essere cristiani dobbiamo badare alla nostra utilità, in quanto siamo messi a capo dobbiamo preoccuparci della vostra.»
La nostra utilità consiste nel pensare a noi, nel silenzio e nel raccoglimento, per verificare il rapporto che viviamo con il Signore. Insieme, però, tutto ciò che facciamo in questi giorni serve alle persone che ci sono affidate; con il nostro sacrificio, la nostra pazienza, con la perseveranza anche nei momenti duri di noia, di ripugnanza, di aridità, di desolazione, combattiamo per loro.
«Forse molti semplici cristiani giungono a Dio percorrendo una via più facile della nostra e camminando tanto più speditamente, quanto minore è il peso di responsabilità che portano sulle spalle. Noi invece dovremo rendere conto a Dio prima di tutto della nostra vita, come cristiani, ma poi dovremo rispondere in modo particolare dell’esercizio del nostro ministero, come pastori» (Disc. 46, 1-2; CCL 41, 529-530).
La percezione del nostro dover rendere conto a Dio di noi stessi e degli altri, era molto viva nel beato Ferrari che usava tale argomento per esortare il clero agli Esercizi spirituali. Risulta infatti che l’Arcivescovo seguisse con estrema cura gli Esercizi spirituali dei sacerdoti, così da richiamarli quando si accorgeva che non li facevano regolarmente ogni due anni. Già nel 1893, mentre era ancora Vescovo di Como, illustrando l’indispensabilità degli Esercizi per la santificazione dei preti, scriveva: «Ora la mia parola si rivolge esclusivamente a voi, venerabili confratelli. Anzi, sono per dirla a voi e a me medesimo, perché tutti ne abbiamo certissimamente bisogno. Dobbiamo ben guardarci dal trascurare noi stessi mentre abbiamo cura degli altri, tanto più essendo verissimo che non potremo aver cura degli altri se prima non l’avremo delle anime nostre».
Vediamo qui un riflesso della pagina di Agostino, uno stimolo a vivere bene gli Esercizi per amore degli altri, delle nostre comunità, a viverli come ricerca personale e come servizio ministeriale alla gente. Lasciamo le preoccupazioni e i fastidi, i problemi irrisolti e le fatiche, proprio nel desiderio di pacificarci e di fare chiarezza in noi a favore della crescita cristiana dei fratelli.
2. Notavo, nell’Introduzione, che la caratteristica fondamentale di Ferrari, la più evidente, è la sua straordinaria capacità di lavoro, di azione, di fare. Anche l’ultima biografia, scritta da Angelo Maio e intitolata Ferrari uomo di Dio, uomo di tutti, descrive così i tratti della sua personalità: «Fu uomo di azione e di profonda religiosità. Innanzi tutto uomo di azione. Di fatto egli non fu e non volle essere uomo di cultura, un intellettuale, né mai si atteggiò a esperto di problemi politico-sociali, ma fu uomo di azione, suscitatore di energie, geniale nel valorizzare anche le più modeste, tutte orientandole al bene. Fors’anche per questo nativo modo d’essere seppe presto assimilare alcuni caratteri originali della gens ambrosiana, quali appunto l’operosità, lo spirito di iniziativa, la concretezza. Era persuaso che il fare è la verifica più vera del dire. Da qui un’operosità eccezionale che stupiva tutti» (NED, Milano 1994, p. 23).
Ci domandiamo: che cos’è il fare pastorale? quali sono le radici dell’agire, dell’operare, che permettono di non essere degli attivisti, bensì di svolgere vera attività?
Lo vedremo in questi Esercizi che hanno quale figura ispiratrice il beato Ferrari e il suo instancabile fare di pastore; lo vedremo con l’aiuto del vangelo di Matteo che è il vangelo dell’operosità del discepolo; terremo pure presente un documento tipico dell’agire pastorale, l’Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, in particolare negli accenni all’operosità del pastore e alle sue radici.
3. Sempre a modo di premessa, voglio anzi leggere un passo dell’Esortazione, che in un certo senso ci descrive e ci fa capire chi siamo noi che ci accingiamo a fare gli Esercizi.
«La formazione permanente costituisce un dovere» non solo per i presbiteri giovani, ma pure «per i presbiteri di mezza età. In realtà sono molteplici i rischi che possono correre, proprio in ragione dell’età, come ad esempio un attivismo esagerato, una certa routine nell’esercizio del ministero. Così il sacerdote è tentato di presumere di sé, come se la propria personale esperienza, ormai collaudata, non dovesse più confrontarsi con nulla e con nessuno. Non di rado il sacerdote adulto soffre di una specie di stanchezza interiore pericolosa, segno di una delusione rassegnata di fronte alle difficoltà e agli insuccessi» (Pastores dabo vobis, 77).
Sono dunque quattro i rischi che noi corriamo: l’attivismo esagerato; il continuare tranquillamente in una routine; la presunzione; la stanchezza che porta al disgusto, alla rassegnazione, all’afflosciarsi.
Noi rifletteremo su di essi a partire dal primo, cercando di distinguere l’attivismo dal vero fare pastorale, mentre raccomando a ciascuno di voi un breve esame di coscienza sulle domande: quali di questi quattro rischi mi minaccia? o forse ce n’è uno analogo che mi minaccia? come vorrei che gli Esercizi mi aiutassero a vincere i pericoli che incombono su di me?
Si tratta, appunto, di rischi tipici dei presbiteri, soprattutto di mezza età, e dobbiamo considerarli seriamente, così da superarli.
La preghiera di sant’Agostino, molto bella, ci invita a farlo.
«“Signore Gesù, ogni nostra speranza è in te”; tu sai che non posso vincere nessuno di questi pericoli, sai che sono o roso dall’attivismo, o bloccato dalla routine, o irrigidito nella presunzione, o fiaccato dalla stanchezza se tu, mia speranza, non vieni in mio aiuto, se tu, mia salvezza e mia gloria, non mi salvi con la tua potenza!»
Spesso il Signore ci lascia cadere in uno dei rischi per farci comprendere che è lui il nostro Salvatore e che siamo presbiteri solo per sua grazia.
LECTIO DEL DISCORSO DELLA MONTAGNA
(Matteo 5 – 7)
Con gli atteggiamenti che ho suggerito, ci addentriamo in una lectio un po’ ardita e pretenziosa, perché vorremmo leggere in breve, dal punto di vista del fare, il più lungo Discorso del vangelo di Matteo e di tutti i vangeli: il Discorso della montagna. Che cosa è quel fare di cui è pieno il vangelo matteano, come è descritto in questo famoso Discorso?
Non si tratta perciò di una lettura esegetica; intendo semplicemente introdurvi a leggere i capp. 5 – 7 interrogandoci sul fare che sarà oggetto del giudizio finale (Matteo 25), sul fare che dobbiamo insegnare come mandato apostolico (Matteo 28, 20), sul fare che costruisce la casa sulla roccia (Matteo 7, 24).
Da parte vostra, nel tempo della meditazione personale, rileggerete per intero il Discorso della montagna fermandovi sull’uno o sull’altro suggerimento che vi darò.
Divido la lectio in tre parti: lo schema del Discorso; il fare nel Discorso; qual è la caratteristica di questo fare.
Lo schema del Discorso della montagna
Lo schema non è immediatamente evidente ed è dunque difficile elaborarne uno da poter ritenere quasi a memoria; gli esegeti hanno tentato diversi schemi e io stesso mi sono appassionato ora per l’uno e ora per l’altro, dimenticandoli poi tutti. Nel 1990, per esempio, ho trascorso alcuni giorni ad Assisi con i giovani preti, riflettendo sul Discorso della montagna, e avevo presentato uno schema che mi pareva straordinario, molto bello: al centro il Padre nostro e dal centro partivano tutti gli altri elementi che si richiamavano a forma di chiasmo; ma mi sono accorto che era troppo complicato da ricordare.
Forse è meglio cominciare a mettere in memoria il Discorso parallelo e molto più semplice di Luca, il cosiddetto Discorso della pianura o del luogo pianeggiante. Ovviamente Matteo amava le colline della Galilea che salgono dolcemente dal lago, come le amano tutti coloro che le hanno percorse; Luca pensava invece agli spazi pianeggianti che si trovano ogni tanto sulle colline, ai pianori su cui Gesù si è seduto con i discepoli e con la gente.
• Il Discorso in Luca è più breve (cfr. 6, 20-49) ed è il più antico. Esso comprende quattro parti:
– le beatitudini e i guai (6, 20-26);
– il comandamento dell’amore, concentrato sul tema dell’amore ai nemici e che termina con le parole: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (6, 27-36);
– il conseguente divieto di giudicare (non giudicate e non sarete giudicati), comandamento espresso in varie forme (Può un cieco guidare un altro cieco?... Non guardare la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello), e l’invito al perdono (6, 38-42);
– il criterio dell’azione (dall’albero si riconoscono i frutti), del mettere in pratica ciò che si è ascoltato (6, 43-49).
• Matteo riporta i temi di Luca, ma li allarga: conserva l’inizio e la fine, cioè le beatitudini e il criterio del fare, e amplia il centro del Discorso. Mantiene le parti del non giudicare e del comandamento dell’amore, però invertendole. Tra i due blocchi che riprendono lo schema di Luca ne inserisce altri tre. Il primo è quello della giustizia più grande, con sei antitesi che sottolineano come la vera giustizia, ben superiore alla giustizia degli scribi e dei farisei, è la giustizia del Regno. Il secondo offre tre esempi – elemosina, preghiera, digiuno – con cui si mostra che la giustizia va fatta davanti a Dio solo, nel nascondimento. Il terzo blocco o la terza sezione afferma che la vera giustizia è incomparabile a tutto il resto, che i beni del Regno sono l’unico criterio dell’agire. In questa sezione troviamo altri temi secondari e tuttavia legati al tema principale: avrete tesori nel cielo, non preferite mammona a Dio, non preoccupatevi né del mangiare né del bere perché vi basta il Regno, la giustizia perfetta.
Riassumendo, le tre parti tipiche di Matteo sono: qual è la giustizia più grande e superiore a quella degli scribi e dei farisei? qual è la giustizia più vera che si compie davanti a Dio solo? qual è la giustizia da preferire a tutto il resto, la giustizia che ci toglie l’attaccamento al denaro e ogni preoccupazione vana della terra?
Il testo comprende dunque sei parti:
– le beatitudini, il sale della terra, la luce del mondo (5, 3-16);
– la giustizia più grande – le sei antitesi (5, 17-48);
– la giustizia davanti a Dio solo, con tre esempi (6, 1-18);
– la giustizia del Regno quale criterio unico delle scelte (6, 19-34);
– il non giudicare, l’avere fiducia nella preghiera, l’amore sintesi della legge (7, 1-12);
– il criterio dell’azione pratica per distinguere i discepoli da quelli che non lo sono (7, 13-27).
Sforziamoci di tenere in mente questo schema del Discorso della montagna, perché è un Discorso fondamentale per la vita del cristiano e del pastore, per quanto ci è chiesto di compiere nella nostra azione pastorale.
L’accento sul fare
Dopo aver proposto lo schema di Matteo 5 – 7, ci domandiamo se davvero il Discorso pone l’accento sul fare, sull’agire.
Per rispondere, ci riferiamo alla parte finale, alla “regola d’oro” di Matteo 7, 12: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa, infatti, è la Legge e i Profeti». È la sintesi di ciò che si può dire sulla Legge e sui Profeti: fate come vorreste che gli altri facciano a voi. E l’evangelista specifica il fare per quattro volte, in modi espressivi, diversi.
• Ai vv. 13-14, con l’immagine delle porte e delle vie: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa. Quanto stretta, invece, è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi quelli che la trovano!». L’immagine allude al fare pratico del discepolo: il discepolo o fa secondo l’andazzo comune e si perde, oppure fa e agisce secondo le indicazioni di Gesù – pur se sembrano penose, difficili, minoritarie, controcorrente – e si salva.
• Dal v. 15 al v. 20 ci viene presentata l’immagine dei falsi profeti: da che cosa riconoscerete i falsi profeti? forse pesando le loro parole, confrontandole con l’ortodossia? Niente affatto; li riconoscerete dai frutti, dal loro modo di vivere e da quanto ne consegue: «Dai loro frutti li riconoscerete... un albero buono non può produrre frutti cattivi». Anche qui il principio determinante è il frutto, l’azione concreta, l’effetto che si ottiene.
• Nei vv. 21-23 si passa dalla forma simbolica, iconica, alla maniera diretta, descrivendo la figura del discepolo autentico: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli». Il fare la volontà del Padre è superiore alla profezia, superiore agli esorcismi e ai miracoli: «Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome” (nel tuo nome, rettamente, secondo l’ortodossia) “e compiuto molti miracoli nel tuo nome?”. Io però dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”». È dall’essere operatore di giustizia che si riconosce il discepolo.
• Una quarta volta è ripetuta l’enfasi sul fare con l’immagine già ricordata dell’uomo saggio che costruisce la casa sulla roccia. Chi è il saggio? Non colui che medita, che prega molto, che riflette, bensì colui che fa, «che ascolta queste parole e le mette in pratica». Viceversa, chi è lo stolto? «Colui che ascolta le parole e non le mette in pratica», e la sua casa cadrà, rovinandolo (vv. 24-27).
Non c’è dubbio che il fare, il mettere in pratica gli esempi e gli insegnamenti di Gesù o il non fare, il non mettere in pratica, è per Matteo il criterio di giudizio sul discepolo.
Quale fare?
Che cosa significa il fare che costituisce il discepolo, secondo il Discorso della montagna? Qual è il fare pratico simboleggiato dall’albero che dà buoni frutti, dall’entrare per la via stretta, dalla casa costruita sulla roccia?
Occorre riprendere una per una le sei parti del Discorso che abbiamo schematizzato.
Matteo 5, 3-16: il fare indicato dalle beatitudini è il primo agire pratico indicato da Gesù. Se le consideriamo attentamente ci accorgiamo di essere di fronte a un agire abbastanza speciale, perché Gesù sottolinea delle situazioni o degli atteggiamenti. Situazioni che, di per sé, sono indipendenti da noi, come quelle degli afflitti, dei perseguitati, degli insultati. Atteggiamenti che consistono nell’essere poveri in spirito, miti, affamati e assetati di giustizia, puri di cuore. È dunque un fare diverso da ciò che avremmo pensato, un fare del cuore, cioè anzitutto interiore. È vero che le beatitudini dei misericordiosi e degli operatori di pace si riferiscono a delle azioni che noi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Nota bio-bibliografica
  5. Prefazione
  6. Introduzione
  7. 1. Il Fare Del Cuore (Matteo 5 – 7)
  8. Incarnare Nella Vita La Predicazione
  9. 2. La Santità Del Discepolo (Matteo 5 – 7)
  10. 3. Il Fare Della Missione In Un Mondo Ostile (Matteo 10)
  11. Alle Radici Dell’agire Etico Cristiano
  12. 4. Come Viviamo Il Discorso Missionario
  13. 5. Il Fare Del Discernimento (Matteo 13)
  14. Il Triplice Mistero Del Tempio
  15. 6. Il Discernimento Pratico Alla Luce Di Matteo 13
  16. 7. Fare La Chiesa (Matteo 18)
  17. La Chiesa Di Fronte Ai Casi Di Coscienza Storici
  18. 8. La Comunità Che Vince Il Male Con Il Bene
  19. 9. Il Giudizio Sul Fare (Matteo 24 – 25)
  20. Una Profonda Comunione Spirituale